Il Movimento Panico di Bizzarro Bazar


“Il Panico non è un movimento, non è una filosofia,
non è un’estetica, non è una definizione,
non è un manifesto, non è un’arte, non è scienza,
non è questo e non è nemmeno quest’altro.”

Cos’è il Panico? È terrore, risata, strumento paradossale per la ricerca interiore. È violentare il simbolo per rivoltarlo come un calzino, e rendere evidente il suo significato ermetico. Jodorowsky, Arrabal, Topor: tre artisti geniali, coltissimi, eclettici, diversi fra loro eppure portati ad incontrarsi da un’affinità elettiva e dall’amore per il surrealismo.

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Jodorowsky, il ciarlatano sacro, il santone-clown; Arrabal, il poeta folle e visionario; Topor, l’illustratore cinico e beffardo, discepolo di Sade e del Grand Guignol. Nel 1962 questi tre universi iperbolici danno vita al Panico, una corrente post-surrealista di cui si autoproclamano unici membri. Dopo poco lo rinnegano, lo abbracciano nuovamente, lo dichiarano morto, ma continuano a definire “paniche” le loro opere singole e più personali. Non c’è un vero modo per definire cosa sia il Panico, perché gli stessi autori hanno fatto di tutto per porsi al di là di ogni categoria.

Di certo il Panico, che sia declinato in un’opera teatrale, in un happening, in un romanzo o in un film, è innanzitutto destabilizzante, violento, grottesco. Unisce, in maniera talvolta blasfema, il lercio e il sublime, sembra ricercare il sacro nel sangue e negli escrementi, e per contro ridicolizzare l’iconografia religiosa/culturale/consumistica occidentale. È innanzitutto sensazione ed emozione, un ritorno chiassoso e caotico al paganesimo. Il dio Pan, con la sua sessualità liberata e oscena, è certamente un nume tutelare; ma “panico” va inteso anche nel senso di “tutto”, un’arte che abbraccia l’intero essere umano, senza tralasciarne gli angoli più bui e scomodi, e ampliando la matrice bretoniana all’infinito.

L’arte panica si sviluppò inizialmente con happening e pièce teatrali che scioccarono il pubblico dell’epoca: gli attori erano spesso nudi, in preda a passioni animalesche e, cosa tutt’oggi controversa, sul palco non era raro che venissero uccisi degli animali, in una sorta di rituale liberatorio e sconvolgente. Portando all’estremo le intuizioni surrealiste (e psicoanalitiche), queste rappresentazioni teatrali sfidavano qualsiasi interpretazione e ricordavano in maniera inquietante delle grottesche orge pagane. Dopo queste prime controverse esibizioni, i tre autori si dedicarono ognuno ai territori che sentivano più congeniali.

Di Topor abbiamo già parlato in questo articolo: la sua crudeltà, spesso paragonata a quella di Sade, è in realtà attraversata da uno humor disperato e da un senso del corpo davvero unico. Ci concentreremo qui sugli altri due artefici del Panico.

Alejandro Jodorowsky, ispirato dall’esperienza panica, si butta a capofitto e senza risparmiarsi in tutte le sfaccettature della sua variopinta personalità: diventa apprezzato regista, elabora tesi eretiche sui tarocchi e sulla cabala, studia il buddismo zen in Giappone, sceneggia alcuni meravigliosi fumetti illustrati da Moebius, e infine si reinventa romanziere e psicomago prestato alla new-age. Ma la ricerca spirituale per lui non è certo tutta “luce” ed “energie positive”, anzi… Il suo percorso iniziatico non ha mai avuto mezzi termini, è sempre passato per il deforme, il sangue, la morte; e allo stesso tempo la sua formazione di clown e di mimo lo ha costantemente tenuto legato ad un amore per la baracconata, per lo spettacolo circense.

“Jodo”, l’imbonitore sacro, ha firmato negli anni almeno tre film fondamentali: El Topo (1970), western esoterico e anomalo; La Montagna Sacra (1973), perla di misticismo e simbolismi capovolti; Santa Sangre (1989), storia di un amore edipico e omicida dalle infinite invenzioni poetiche e sorprendenti. Ecco il trailer internazionale de La Montagna Sacra.

Nella Montagna Sacra, il tono allegorico del film è chiaro fin dall’inizio: tarocchi, misticismo, spiritualità. Per entrare nel film bisogna spogliarsi di ogni identità (il rituale della rasatura dei capelli). Anche il Cristo replicato ci parla di identità negata (nella riproducibilità infinita c’è la perdita della singolarità, dell’identità), e il protagonista dovrà lasciare cadere ogni velo di illusione fino al finale metafilmico, in cui si scoprirà il set stesso, con tanto di regista e assistenti dietro la macchina da presa. La “montagna sacra” è la pietra filosofale, il luogo ascetico in cui tutte le nostre illusioni vengono a cadere: la storia dell’uomo, a cui diamo tanta importanza, è visualizzata come uno scontro fra animali; i simboli sacri sono sbeffeggiati; il corpo è al centro della riflessione metafisica.

Santa Sangre affronta invece temi diversi: il circo, la morte, la crescita e l’impossibilità di liberarsi della sudditanza dalla figura materna.
Da quest’ultimo film vi presentiamo tre estratti che testimoniano il talento visionario e fantasioso del regista cileno.



Fernando Arrabal è innanzitutto poeta. La sua raccolta di poesia “panica” più celebre è La pietra della follia (1963), una serie di strane e misteriose variazioni, piuttosto ossessive, rivolte all’interno della mente e dei suoi fantasmi. Al cinema, Arrabal è ancora più estremo di Jodorowsky. J’irai comme un cheval fou (1973) narra dello strano incontro fra un matricida e un eremita dai poteri soprannaturali (capace di far venire la notte battendo le mani, di nutrirsi di sabbia, e di volare) che vive nel deserto. La tematica edipica, fondamentale per Arrabal, era già stata esplorata nel suo primo film, Viva la muerte! (1971): il bambino protagonista ha appena appreso della fucilazione di suo padre ad opera del regime franchista, e in una sequenza onirica di rara violenza vede se stesso e sua madre – di cui è segretamente innamorato – all’interno di un macello. Un toro viene sgozzato, e la madre imbrattata di sangue taglia i testicoli dell’animale, incitando suo figlio a “evirare” suo padre per divenire uomo, di fronte a una banda al completo che suona una marcia di paese. Si tratta di una sequenza davvero estrema, e ne sconsigliamo VIVAMENTE la visione ai lettori impressionabili, e agli animalisti. (A questo proposito, ricordiamo che si tratta di un film realizzato in un’epoca in cui i diritti per gli animali erano ancora agli albori; e che probabilmete il toro sarebbe stato macellato comunque).

Al di là dell’efferatezza visiva e delle questioni morali più moderne, è innegabile la potenza simbolica di questo rituale di passaggio: ogni viaggio spirituale è intriso di dolore e deve scontare una quota di necessaria crudeltà, di (auto)immolazione, di distruzione catartica. Tutto il film si snoda su due livelli paralleli, la vita reale del ragazzino e le visioni del suo inconscio, forse ancora più vere: come scriveva Alberto Moravia, “l’inconscio è pieno di mostri che Arrabal ha evocato con esattezza in un contesto che li giustifica. L’avere stabilito un rapporto dialettico tra i mostri dell’inconscio e la vita morale mi pare uno dei meriti principali di questo film eccezionale”.

In fondo, forse il tema costante di tutti i racconti panici è proprio il viaggio alla scoperta di se stessi. L’intero corpus creativo di questi autori – al di là delle evidenti intenzioni anarchiche e iconoclaste – passa per la ricognizione e l’accettazione dei lati più oscuri dell’esistenza. Per loro le pulsioni edipiche, la coprofilia, il sadismo, la morte, il cannibalismo sono archetipi potenti in grado di parlarci anche oggi, e paradossalmente di curare l’anima.
L’essenza del movimento panico ha proprio questo scopo: liberare l’uomo moderno dalle catene emotive che lo ingabbiano, ricercando una trance euforica infantile, ribelle, estrema.

articolo di Bizzarro Bazar

Racism is only a madness di MariaGrazia Patanìa


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È sabato mattina presto. Per i corridoi della scuola non c’è quasi nessuno.

I pochi assonnati che incontro mi sorridono e chiedo di aiutarmi ad allestire la nostra lezione improvvisata. Reagiscono con l’entusiasmo che li caratterizza. Sorrido mentre porto nel giardino della mia scuola elementare quelle sedioline su cui ho imparato a leggere, scrivere e contare. Sorrido quando le vedo in mano a questi giganti colorati. E soprattutto sorrido quando ce li vedo seduti sopra con le ginocchia che arrivano al mento.

Ho paura che sia un flop. Che non venga nessuno. E mi sento in colpa per non aver organizzato meglio la cosa. Intanto arrivano mio padre e mia madre. Lui emozionato come se stesse parlando di fronte a dei capi di stato. Lei fiera al suo braccio.

Vado su e giù a chiamarli e quelli che conosco meglio mi rassicurano che stanno chiamando i loro amici. Esco di nuovo in giardino e ne trovo alcuni già seduti e sorridenti. Prima ancora di cominciare sono in dieci ad aspettare. E alla fine siamo tanti. Un successo.

Comincia la lezione. Tema del giorno: libertà e dignità umana.

Mio padre comincia con delle domanda: Cosa significa essere liberi. Qual è il valore della libertà. A cosa si accompagna la libertà. Cosa la caratterizza.

E comincia a distinguere le tre categorie fondamentali dei diritti: civili, sociali e politici. Spiega che nessuno può essere perseguitato per le sue idee religiose, politiche e per le sue convinzioni. Spiega il valore fondamentale delle costituzioni nazionali come strumento per garantire questi diritti. E l’introduzione al loro interno di pene per che le viola.

Parliamo della Nazioni Unite e della Carta dei diritti dell’uomo e del cittadino. Tutti annuiscono quando chiedo se conoscono le Nazioni Unite. La voce ferma di mio padre aumenta di tono quando parla della colpa occidentale in merito alla catastrofe africana. È il suo modo di chiedere scusa a questi figli della terra che noi abbiamo violentato e impoverito per arricchire le nostre vite arroganti. Per alimentare la perversione di un mondo ingiusto e sterile di Amore.

E loro annuiscono. Vedo lo stupore di questi ragazzi –gli occhi lucidi- che ascoltano un bianco parlar loro di diritti, rivendicazioni, dignità umana. Un padre che spiega che tutti hanno diritto ad essere amati e loro lo meritano ancora di piu´ per via delle loro storie. Quel padre li ringrazia per essere venuti ad aprire i nostri occhi volutamente miopi. Quel padre li incita adimostrare al „civilizzatissimo“ mondo occidentale -tramite le loro azioni e il loro comportamento- come siano un dono e un prezioso contributo al progesso di ognuno.

I loro occhi sono uno spettacolo di emozione, commozione e dolcezza. E´ la prima volta che scoprono di avere DIRITTO a essere istruiti e curati, a essere trattati con rispetto e avere accesso a una libera informazione. Le catene della tortura non potranno mai privarli della loro anima e della loro dignita´ di esseri umani.

Qualcuno si commuove e si asciuga una lacrima. Ma cio´ che domina e´ lo stupore. E da quello stupore arrivano le parole di Mohammed. Un adolescente del Gambia che supera la vergogna e parla davanti ai suoi fratelli africani. Ci ringrazia per questo incontro e dice che finalmente conoscono la Pace e non hanno paura per la loro vita. Ci racconta come in Libia la vita non valga nulla e di come per la prima volta abbia sentito parlare di diritti. Mohammed conclude dicendo che il loro compito e´migliorarsi in Italia per poi tornare nei paesi di provenienza a insegnare la liberta´ nella loro terra. Per educare ai diritti i fratelli e le sorelle africane.

L´incontro finisce con un applauso e tanti ringraziamenti. Io termino dicendo che la mia personale speranza e´ che il prossimo presidente del Consiglio delle NU sia proprio in mezzo a loro. Dentro di me spero che fra loro ci siano i Mandela, i Luther King, i Ghandi e i Che Guevara del futuro. Dei combattenti per l´Amore e la Libertà.

di MariaGrazia Patanìa

L’ultima guerra


La donna sapeva che lui non sarebbe tornato. Cinque minuti. Dieci minuti. Come tutte le mattine lo attendeva alla finestra, la stessa che aveva fatto da cornice alla sua partenza. Tredici minuti. Le sue spalle in lontananza, i passi lenti, il fucile in spalla, e con lui gli altri ribelli. La donna non sapeva a cosa si stessero ribellando perché, a conti fatti, non c’era più niente da combattere; sapeva solo che se n’era andato e non sarebbe più tornato.

Nonostante questo, ogni mattina la donna si affacciava alla finestra e aspettava. Quindici minuti. Contava le provviste nella dispensa. Guardava le persone indicarla col dito. Lei, la donna incinta alla finestra. Quindici giorni. L’ultima gravida del mondo. Diciotto giorni. L’assenza di lui cresceva come la sua pancia.

All’inizio, prima che partisse, c’era stato un piccolo rigonfiamento – una pallottola; poi una pallina, una palla, una piccola sacca. Una sacca appena gonfia, sempre più gonfia. Poi lui era partito e lei aveva aspettato.

Trentacinque giorni. Si affacciava per farsi vedere. Se lui fosse tornato, l’avrebbe vista subito e avrebbe saputo che il suo passato era rimasto ad aspettarlo. La sacca sfiorava il davanzale gelido e alla donna venivano i brividi quando si affacciava ad aspettarlo. Sono brividi di freddo, si diceva, non ho paura.

No, non aveva paura, anche se sapeva che avrebbe dovuto. Lui non sarebbe tornato e la sua mancanza era nei movimenti della sacca che la donna sentiva da sola. Avrebbe potuto essere con lui, e lui avrebbe potuto accarezzarle la pancia, sorriderle, baciarle l’ombelico prominente, dire parole dolci al bambino – o, a seconda delle posizioni, al suo fegato – se non fosse stato per la Guerra, l’Ultima Guerra, la più orribile e la più inutile di tutte. Lei avrebbe dovuto avere paura, davvero, e lo sapeva, ma non le riusciva. A volte ci provava. Si affacciava alla finestra e, invece di guardare chi la guardava, fissava il cielo fuligginoso e la cenere trasportata dal vento come neve nera e calda. Tutto era caldo, soffocato da uno spesso strato di morte. Erano ancora vivi quindi il mondo era ancora abitabile, in un qualche modo assurdo e miracoloso – o incredibilmente sadico, pensava lei – ma era solo questione di tempo. Tutti lo sapevano. Quelli che la guardavano alla finestra. Forse anche lui. 

La data della fine del mondo era stata annunciata. La fine del mondo degli uomini, correggeva lei a mente quando i catastrofici profeti, politici e guaritori di turno prendevano posto al microfono della radio. La fine di ogni cosa, dicevano, e lei scuoteva la testa. Non era la fine di niente. Era la fine sua, delle giornate passate alla finestra ad aspettare che lui tornasse, la fine degli alti palazzi, delle bombe, delle catastrofi, della musica, delle chiese, ma niente di serio. Prima o poi sarebbe successo comunque, pensava. Si rammaricava solo del fatto che la fine del mondo degli uomini sarebbe coincisa con quella di suo figlio. Le sarebbe morto dentro, un cordone ombelicale a tenerli stretti fino all’ultima cellula decomposta, e per giorni avrebbero nutrito le fiamme invece di nutrirsi uno dell’altra.

La donna sapeva anche che non era giusto, ma non poteva farci niente. Il mondo era semplicemente impazzito. Secondo gli esperti tutto sarebbe esploso, diventando fuoco e fiamme. Immaginate il mondo immerso nella lava, aveva detto l’esperto alla radio, immaginate la terra come un grande tizzone ardente fino al nucleo. Poi gli avevano tolto il microfono. La donna si immaginava cenere come quella che sfrecciava fuori dalla finestra – lei e il suo bambino, entrambi cenere – fiocchi di neve nera e calda, a correre insieme per cercare il papà nel vento. Si sarebbero trovati, prima o poi? Si sarebbero riuniti?

Si chiedeva questo ogni mattina, affacciata alla finestra, a guardare chi la guardava. Forse, se si fossero riuniti, non se ne sarebbe accorta. La cenere non può abbracciarsi. E se si fossero sfiorati senza vedersi? Se si fossero addirittura scontrati senza che lei lo sapesse, perché non aveva più idea di chi fosse? La morte aveva questo potere – cancellava i ricordi? Erano l’unica cosa che la donna avrebbe voluto avere per sempre, e perderli era la sua unica paura. Non la morte, ma quello che avrebbe preso con sé.

Fuori dalla finestra c’erano ancora persone che correvano chissà dove con le macchine cariche, trasbordanti di cose che sarebbero diventate cenere con loro. Eppure c’erano ancora persone che scappavano, ce n’erano, tante. Persone che la guardavano alla finestra e scappavano. Persone che urlavano, la guardavano alla finestra, lei e il suo pancione, e scappavano. Si chiedeva spesso se le persone stessero scappando dalla guerra, o da lei.

Durante l’Esodo la donna non era uscita di casa per paura di sentirsi male nella folla, di venir calpestata, di perdere il bambino. Poi c’era stata La Grande Esplosione, la Conferma, la Data della Fine. Era tutto già scritto e deciso. L’umanità aveva l’ultima occasione di comportarsi con dignità. Invece era scoppiata, inaspettata e ridicola, l’Ultima Guerra.

A quanto pare un tale “esperto” si era lasciato sfuggire che forse qualche posto del pianeta sarebbe stato ancora sicuro, che c’era ancora speranza di vivere in qualche luogo sperduto della terra. Che il Fuoco non avrebbe preso tutto. Lo aveva detto senza cognizione di causa, senza criterio né titoli; solo perché qualcuno gli aveva s
chiaffato un microfono davanti al naso, e per ricevere un po’ di attenzione, aveva scatenato tutto. Quel poco tempo rimasto agli uomini sarebbe stato flagellato dalla guerra a causa di un guizzo di vanità.

Il “posto sicuro”, per di più, cambiava di continuo. Una volta era l’Oceania, poi l’America del Sud, poi il Canada, il Polo Nord. E l’Ultima Guerra si spostava di conseguenza, senza un filo logico.

Lui era partito con i Ribelli, un gruppo di anarchici dalle idee utopistiche che voleva difendere i posti sicuri dalle invasioni distruttive dei governi ufficiali dei paesi più potenti del globo. Il posto sicuro sarebbe stato scelto da Dio, dicevano: quindi il popolo eletto era quello autoctono, non quello impiantato con la violenza. Loro sarebbero stati eletti grazie alla proprietà transitiva, per aver aiutato il popolo eletto a salvarsi, e quindi anche loro sarebbero stati salvi. Lui, per qualche istante, era sembrato davvero convincente. Lo sto facendo per te, aveva detto stringendole le mani, li salveremo e tornerò a prenderti, così saremo al sicuro. Poi era scappato senza voltarsi indietro. Il punto era questo: era scappato. I Ribelli forse credevano davvero alla loro missione, ma per lui era stata solo una scusa per allontanarsi. Lui non aveva mai creduto in Dio, avrebbe dovuto crederci ora che stava per morire? Per trovare un posto dove essere salvo? Nessuno di loro era salvo né lo sarebbe mai stato, e lo sapevano entrambi: ma per lui sarebbe stato meglio morire con un fucile in mano, combattendo contro un altro isterico visionario, piuttosto che rimanere a casa e guardare la pancia di sua moglie crescere di un figlio che non avrebbe mai visto.

La sua pancia era un’inutile vergogna, un’aberrazione divina. Un lampo di vita dove stava finendo, un’offesa che saettava di fronte agli occhi dei folli solo per aizzarli uno contro l’altro. Nessuno voleva più sentir parlare di vita, anche se tutti improvvisamente non ne avevano mai abbastanza. Non ci avevano fatto niente per tanti anni e tutt’a un tratto eccoli lì, pronti a difenderla con le unghie e con i denti. Ridicoli. Le sue ceneri e quelle del suo prezioso bambino si sarebbero mischiate a quelle dei ridicoli.

Quarantadue giorni, tre ore, dodici minuti. Lui non era ancora tornato. La guerra si preannunciava lunga, ma il mondo sarebbe finito prima. Lei viveva nella parte disastrata del mondo, quindi destinata a morte certa e quasi completamente, meravigliosamente sola, nella sua casa piena di provviste. Pancia piena, paesaggio di cenere e la compagnia silente della sua gravidanza, lo schiaffo morale a tutto ciò che l’umanità era diventata: un branco di bifolchi assetati di sangue che avrebbero voluto tanto, tanto, tantissimo, far qualcosa prima che fosse troppo tardi, senza capire che avevano trasceso quel “tardi” da troppo tempo e che nessuno di loro sarebbe mai tornato indietro.

Lei e il suo bambino erano l’ultima offesa ad ogni cosa. Era felice di poter sopravvivere fino alla fine, solo per ricordare ad ognuno ogni cosa che aveva perso. Sapere che chiunque l’avrebbe vista alla finestra avrebbe ricordato quello che stava perdendo, avrebbe sentito il tempo scivolare via e sarebbe diventato isterico, folle o suicida dal panico. Era un gioco crudele, il suo modo di abbandonare la vita. Non la divertiva più ma non avrebbe smesso di farsi vedere, fino all’ultimo.

La donna sospirò e tornò a stendersi sul letto sporco e sfatto, in attesa dell’esplosione finale. Sapeva che era solo questione di giorni, ma non aveva ancora perso le speranze. Magari, con un po’ di fortuna, il mondo sarebbe finito anche domani.

Daniela Montella

Disobbedire agli incauti acquisti (Pier Marrone) – Maintenant


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Disobbedire significa trasgredire a un’obbligazione imposta da un’autorità, sia questa quella della legge, oppure, ancora, di un imperativo morale o di un precetto religioso o di quello che passa come il conformismo del senso comune. Degli altri casi non mi occuperò, mentre vorrei invece interessarmi dell’ultimo e di alcune sue trappole.

Per noi questo dovrebbe essere un caso particolarmente interessante, poiché, a meno che tu non viva in uno stato dove le libertà politiche e civile siano completamente assenti e la gente venga fatta sparire nei campi di concentramento, credo che la possibilità di disobbedire sia tra i principali obblighi che qualsiasi mente critica dovrebbe coltivare.

Messa giù così, la cosa rischia di essere troppo aulica e alta e puzza di tromboneggiamento moralistico, che poi è la cosa di cui vorrei, in realtà, occuparmi. È anche un’affermazione imprecisa a dire il vero, perché presuppone che ognuno di noi possa essere una mente, sempre quella, costante nel tempo e nella sua capacità di ricostruire la sua biografia. Non è così naturalmente. L’unità della nostra personalità (la nostra identità personale, come si dice) è una finzione, ossia una costruzione, che parte dalla memoria e senza la memoria crolla.

Con una metafora fortunata, David Hume descriveva il nostro io come il protagonista di una rappresentazione teatrale, il raccoglitore disordinato delle sensazioni che ci abitano (bundle of perceptions, la bella espressione che usa). Nulla di sostanziale oltre a questo, non certamente un io e una personalità che permangono dietro questo fascio, a dirigere questo wild bunch.

Tutto questo per dire che non esiste una mente critica, perché ognuno di noi, anche il filosofo più scafato, disincantato, cinico, ha numerosi momenti in cui il suo senso critico latita, le sue capacità di distinguere sonnecchiano nel dormiveglia, nel quale domina l’opinione prevalente e il conformismo che si indossa come l’abito comodo, al quale siamo affezionati.

Tutto questo potrebbe suonare come una excusatio non petita, ed infatti lo è, perché voglio farvi partecipe di due mie momenti di incapacità di disobbedire.

Il primo mi è capitato qualche anno fa. Stavo facendo le pulizie a casa, ascoltando la radio. Intervistavano Umberto Galimberti sull’amore (solo perché ci aveva scritto un libro, non perché passi, per quel che ne ho sentito, come un grande amatore). Ho letto qualcosa di Galimberti quando ero più giovane ed inesperto. Mi sembrava, allora, noiosissimo, sia per la prosopopea moralistica sia per come costruisce i suoi libri: collezioni enormi di citazioni di testi altrui e spesso di testi propri, con un uso disinvolto delle fonti, per il quale subì un affettuoso buffetto dalla sua università, che aveva aperto un’indagine, a pochi mesi dalla pensione e senza nessuna conseguenza. Se non un copione, un pigro che fatica a usare il proprio cervello (è per questo, temo, che continua a imperversare sui giornali, nonostante le accuse che gli sono piovute addosso).

Bene: tutte cose che sapevo, eppure l’intervista di Galimberti mi catturò. L’argomento del suo nuovo libro era l’amore (Le cose dell’amore, il titolo) e Galimberti svolse il suo discorso sulla seduzione e l’irresponsabilità che ci cattura quando siamo, disgraziatamente, innamorati e posseduti, quindi, da una forza che ci fa fare quanto normalmente non faremmo, mostrando perciò che l’io è una parola e una maschera, proprio come diceva Hume.

Galimberti è spesso tutt’altro che sciocco (anche se è stato sciocco a pensare che nessuno si accorgesse del suo uso disinvolto delle fonti, a riprova del fatto che è sempre meglio coltivare la credenza che i nostri interlocutori siano più intelligenti di noi, se non altro per non mettersi automaticamente in una posizione di debolezza) e sicuramente non lo fu in quella circostanza. La mia reazione, che pure sapevo di Galimberti e della disistima che lo circonda in ambienti non marginali del mondo intellettuale, fu quella di pensare che avevo trovato uno che sull’amore la pensava come me: una forza proteiforme che fa sì che l’amore possa essere qualsiasi cosa, al punto che si può amare odiando.

Forte di questa conferma, solamente immaginata, alle mie elucubrazioni mi recai fiducioso a comprare il volume per scoprire, naturalmente, che si trattava sempre e comunque del solito Galimberti, pieno di citazioni risultanti in un centone raffazzonato nel quale tromboneggiare con il paravento di nomi illustri, senza l’ombra di una elaborazione personale.

Avrei fatto meglio a disobbedire al mio stesso io che mi suggeriva di aderire al conformismo della seduzione verbale di Galimberti, del quale ridicolizzavo spesso la fotografia che campeggiava nella rubrica che tiene sul settimanale D, il magazine femminile de La Repubblica. Il viso barbuto sorretto da due manone a deformare le guance in un atteggiamento pensoso. Non so se questa foto ci sia ancora, ma è bella anche quella che campeggia in alto a sinistra del suo sito ufficiale. La mano sinistra sorregge il volto appesantito da profondi pensieri, da troppi pensieri, di solito non suoi, che la sua alluvionale bibliografia minaccia di elargirci in altri libri. Anni fa, la sua casa editrice (Feltrinelli) aveva addirittura varato una collana dedicata alle sue opere. Non so che fine abbia fatto ,dopo le accuse di plagio che gli sono state ripetutamente rivolte e dalle quali si è maldestramente difeso.

Insomma, il caso Galimberti mi insegnava, che disobbedire significa il più delle volte, almeno per noi che viviamo in paesi dove le libertà sono giuridicamente assicurate, disobbedire a se stessi, e non fidarsi di se stessi contenendo il nostro narcisismo, soprattutto quando viene esaltato da qualcuno che abilmente dice le cose che noi vogliamo sentirci dire. Con l’acquisto incauto del libro di Galimberti deve essere accaduto a me quello che è accaduto anche a tante (troppe) altre persone, alle quali Galimberti è stato capace di parlare in termini talmente vaghi da far sì che ognuna di loro leggesse nelle sue parole quello che a lei piaceva.

L’altro episodio di mancata disobbedienza è ancora più significativo, secondo me, perché incorpora una beffarda nemesi. Navigavo sul sito della casa editrice Adelphi per vedere le novità. Mi imbatto in un libro di Goffredo Parise, scrittore che non conosco affatto, ma il titolo mi fa lo stesso effetto che mi aveva fatto sentire l’intervista di Galimberti. Difficile resistere a un titolo come Dobbiamo disobbedire, che coltiva in maniera così evidente il nostro narcisismo, che ci fa credere unici, irripetibili perché capaci di dire la nostra, andare controcorrente, pensare oltre la massa, disobbedendo alle opinioni ricevute. Ci vuole del coraggio per acquistare un libro che incita alla disobbedienza ed io questo coraggio ce l’ho!

Infatti, non ho resistito e mi sono ritrovato vittima del marketing. Quello che ho tra le mani (anzi: sul mio ereader; almeno mi sono risparmiato la fatica di fare la strada per andare in libreria) è un insieme di sconcertanti idiozie passatiste, che lo scrittore compose tra il 1974 e il 1975 per il Corriere della Sera, che si confermava Corriere della Sciura ben prima che Dagospia coniasse questa calzante declinazione del suo stile.

Alcuni di questi pezzi sono esempi di comicità involontaria, come l’irraggiungibile articolo Il rimedio è la povertà (il mio preferito), nel quale sembra di leggere tante delle banalità contemporanee sulla decrescita, oltre che le insopportabili litanie anti-moderne di Pasolini.

Tutte cose insopportabili, non tanto perché sbagliate, quanto perché fatte da chi ha il culo pieno. È un atteggiamento che Nieztsche ridicolizzava quando scriveva (non ricordo più dove, ma spero di non essere accusato di uso disinvolto delle fonti) “sempre i semidei sono vissuti prima. Sempre l’epoca presente è quella degenerata che sospira al cadere delle foglie”.

Dopo aver tuonato che “Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile.” (ma perché specie in provincia? Perché gli rovinava l’estetica bucolica la vista di masse di bifolchi morti di fame?), Parise ci informa che “Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è ‘comunismo’, come credono i miei rozzi obiettori di destra. Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua.”

Insomma: la povertà è bella soprattutto se è godimento dei beni minimi. Penso si possa tranquillamente dire che qui è il cretino che parla, immerso nella sua debolezza intellettuale e incapace di vedere che non c’è nessuna grandezza nella povertà, nessuna bellezza nelle case che cadono a pezzi, nessuna riscossa sociale nell’essere costretti a comprare il cibo in superofferta perché sta per scadere, nessuna dignità nella camicia con il collo liso, bensì solo tristezza e minorità. E poi, ognuno di noi capisce che ‘beni minimi’ non significa nulla.

Nella sua miopia Parise non riuscì a vedere oltre la sua mente e ad immaginare che il minimo sarebbe potuto diventare il minimal e uno stile costoso, perché viveva nell’epoca dei beni materiali, dove la ricchezza si misurava nel possesso, mentre ora si misura sempre di più nell’accesso a servizi. Era, insomma, preda della falsa credenza che il capitalismo (sì, proprio il capitalismo, proprio quello che gli permetteva di scrivere sul Corriere della Sciura) sia materialismo, anziché il più potente movimento spirituale si sia mai presentato sulla scena della storia umana (spirituale perché capace di ridurre tutto a merce, creando dei bisogni, che sono prodotti dello spirito, per ciò che prima non esisteva). Parise avrebbe voluto esistere e scrivere nella Vita dell’Italia dei più (titolo di un altro insopportabile pezzo), ma dal momento che i più affollano ristoranti, vogliono andare in vacanza d’estate, e altre cose tenacemente volgari, i suoi lamenti rimangono, ancora oggi, insopportabilmente snob. Oggi me lo vedrei facilmente lamentarsi che tutti hanno una connessione e che i prezzi dei servizi telefonici sono crollati e sollevare le sue lamentele su come è volgare tutta quella gente che telefona in strada, anziché sfondarsi le tasche di gettoni telefonici alla ricerca di una cabina libera, magari per chiamare il pronto soccorso perché ha un micidiale attacco d’asma.

Poi però scopro Parise è stato uno che si è appassionato ai viaggi, che girava il mondo, che ha scritto dei reportage (raccolti in un altro volume, che non leggerò). E allora? Viaggiare andava bene solo se lo faceva lui e i suoi compagni di merenda, ma se lo fa il povero cristo con la morosa per andare in un resort sul Mar Rosso oppure per visitare uno sconosciuto fiordo in Norvegia oppure per andare a vedere una mostra a Parigi, approfittando di un’offerta low cost (come feci io anni fa, trascinando una morosa riluttante a vedere una mostra di Francis Bacon, vero pessimista senza redenzione) allora è una cosa di massa, contaminata da perversioni consumistiche e dannazioni morali. Sentenza: regrediscano alla povertà!

Hanno qualcosa in comune questi due esempi? Be’… per prima cosa hanno in comune che gli autori, uno da vivo, l’altro da morto, ma con la complicità dell’abile marketing della casa editrice, hanno esibito la loro capacità di manipolazione, poiché sono riusciti a precipitarmi nel vortice della debolezza intellettuale e della coazione all’acquisto di un bene che pensavo mi descrivesse quello che credevo di pensare sull’amore e sulla disobbedienza; in secondo luogo, credo abbiano in comune la malafede. Nel primo caso, quella di spacciare pensieri altrui come proprie rarefatte profondità; nel secondo, di mascherare il proprio desiderio di superiorità sulla folla (che evidentemente lo terrorizzava), elargendo un desiderio di povertà, soprattutto se realizzato dagli altri, così che lo scrittore possa elucubrare i suo abissali pensieri in un qualche raffinato ristorante senza la massa volgare e consumista tra i piedi, che però nell’un caso e nell’altro farebbe in ogni caso bene a spendere qualche euro per comprare i loro prodotti, anziché andare in un ristorante etnico, comprare un tablet, prenotare una vacanza.

Entrambi penso siano stati incauti acquisti in un senso prossimo a quello giuridico, proprio perché non avevo accertato la qualità del bene che avevo ricevuto, sebbene avrei dovuto esserne avvertito dalla qualità di chi me lo offriva nel primo caso e non avrei dovuto fidarmi ciecamente nel secondo, solo perché sedotto da un titolo. L’articolo 712 del codice penale infatti recita: “Chiunque, senza averne prima accertata la legittima provenienza, acquista o riceve a qualsiasi titolo cose, che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per la entità del prezzo, si abbia motivo di sospettare che provengano da reato, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda non inferiore a dieci euro. Alla stessa pena soggiace chi si adopera per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza.”

Almeno sono sicuro, per quanto riesca a ricostruire della mia memoria, di non averli consigliati a nessuno e di non essere incorso nella fattispecie dell’ultimo comma.

di Pier Marrone

RITMO E QUOTIDIANITA’ di Antonio Limoncelli


LA DIFFICOLTA’ DI COMUNICARE
Il mezzo ci accomoda in poltrona in attesa degli eventi
e intanto pigiamo pulsanti per vedere, capire, volare, credere

La motivazione emotiva sotto la spinta teleomonica formalizza in un aspetto perfettamente integrato all’atteso, peculiare della specie. Si realizza, cioè, una sequenza d’azioni (rituale) che ripercorre, talvolta, l’intera filogenesi. Gesti, posture, espressioni mutano la loro condizione strettamente fisiologica per acquisirne una nuova legata alla comunicazione.
L’atto si elabora come esigenza di confronto, supera la soglia istintiva propriamente detta e giunge nello spazio precognitivo.
L’inconscio prima elabora una valutazione storica del vivere poi rielabora il gesto causato dallo stimolo interno in gesto programmato da un’idea archetipa che si evolve in sequenza. Si demarca il confine tra istinto e ragione e si percorre questa linea fino all’intento.
La meccanica del gesto finalizzato si sovrappone alla dinamica impulsiva acasuale generando orientamenti nuovi la cui funzione spinge ad una problematica più complessa; si finalizza l’intento ad uno scopo oggettivo parallelo a quello di specie; una forma di riflesso incondizionato che oltre all’attrazione per l’accoppiamento necessario (motivazione oggettiva) esprime delle esigenze individuali.
Il movimento, a questo punto, è nell’intenzione che precede l’azione, cioè, si opera nell’autonomia propria di chi sceglie.

In qualche frangente, funzioni antitetiche possono generare risposte confuse, non pertinenti al contesto; nello stesso attimo, emozioni contrastanti motivano azioni collaterali che trasformano il comportamento atteso nell’inattesa anomalia. La forte tensione emotiva che ne deriva produce un’eccitazione esagerata per cui le frequenze gestuali si alterano in tremiti e scosse, in tendenze ambivalenti. L’ambiguità scuote l’abitudine ricombinando le relazioni e sviluppa strutture e moduli di comportamento in sintonia con i meccanismi di comunicazione.
Il rapporto che si sviluppa da comportamenti inequivocabili si evolve nella linearità gestuale della semplice reciprocità e con il tempo, grazie all’esperienza e ad una maggiore semplificazione, si possa ambire ad una corrispondenza simbolica quasi concettuale.

L’astrazione nel mondo animale è conseguenza dell’ambiguità, cioè, il prodotto dalla funzione di strutture orientabili. Tale struttura nelle componenti più rigide può uniformarsi allo schema ordinario anche se le alterità congetturali possono variarne le corrispondenze. I riferimenti inutili vengono spesso eliminati per liberare le sequenze originarie dalle coerenze seriali. E’ tipico dei processi in sequenza giungere alla semplificazione stereotipata per una lettura immediata del contesto. Tale processo viene definito necessario per argomentare con efficienza la risposta inerente. Tra visione e funzione dev’esserci una sottile lamina estremamente duttile per operare senza fraintendimenti.
La sintesi animale nasce da un’analisi congelata nell’irreversibilità, da una risposta che non giunge mai perché la domanda è troppo evasiva. In altre parole tale sintesi non è collocabile nell’infinitesimo, non è l’insieme di cardini simbolici inerenti ma, la ripetizione semplificata d’un modulo di comportamento coerente allo stereotipo e funzionalmente inadeguato all’esperienza acquisita. E’ solo una forma di timidezza inespressa, configurata alla transizione inalienabile delle varianti emotive originarie. Siamo al teatro di attori esagerati che percorrono spazi ristretti per non lasciare dubbi. In ampie distese ci vuole un regista! Siamo animali che vogliono chiarezza nell’ambiguità, che corrono sulle linee sgraziate del caos, che si perdono nel divenire doppio d’una scelta logica e naturale. Dovremmo essere la variante per un distinguo inevitabile, il chiaro intento individuale di predare ed amare.
La primaria necessità di scambiare riconoscendosi le reciproche intenzioni risponde immediatamente e in misura adeguata, soddisfa appieno le esigenze di tutti. Ecco che l’ambiguità diminuisce compensando lo sdoppiamento interno che lo sforzo causa e l’idea d’essere anche l’altro nel predare e nell’accoppiarsi evolve il contesto alla realtà, alla verità fenomenica. La natura si realizza.

Esagerazione, ripetizione, semplificazione, comunicazione. Prendiamo una figura conosciuta, un oggetto che adoperiamo giornalmente. Tale oggetto è collocato nella funzione che ha. Estrapoliamone i contenuti senza alterarne le motivazioni. Quest’oggetto resta rappresentato dalla configurazione opportuna. Vediamo l’oggetto e lo usiamo. Nulla sembra più normale di questa combinazione.
Riconsideriamo l’oggetto alterandone la conformazione. L’oggetto può non essere riconosciuto e abbandonato alla sua collocazione incongruente oppure può essere riconosciuto come variante e quindi variarne la sua funzione.
L’arte di scombinare la configurazione si esplica con una sequenza di nuovi nessi capaci di generare funzioni nuove. L’arte di trasformare l’oggetto si propone ricomponendo un oggetto nuovo privo di funzione o un oggetto avente la funzione di novità concettuale nell’ambito delle conformazioni.
Oggettivamente le risposte possono essere dunque variabili alla variante di partenza innescando innumerevoli funzioni ed effetti.
La visione dell’oggetto trasformato induce all’opera d’arte mentre l’uso dello stesso ne implica una funzione di sostituzione che può essere più o meno inerente a quella primitiva.
Se l’oggetto subisce una variazione armonica cristallizza nella programmazione precedente divenendo visione gradevole con funzione nulla. Se invece, l’oggetto subisce una variazione asimmetrica diviene funzione tangente alla precedente alterando il comportamento sia di chi lo guarda sia di chi lo usa.
L’aberrazione dell’oggetto può indurre alla follia chi lo guarda per regolarne il limite e chi lo usa per raggiungere obbiettivi identici a quelli dell’oggetto non aberrato.

Consideriamo una variante qualsiasi e valutiamo quali stimoli può essa produrre in un fruitore.
La sorpresa di non riconoscere immediatamente un oggetto molto comune alterato da una variante scatena emozioni contrapposte generando risposte conflittuali. Chi guarda si osserva per interpretare se stesso, in funzione dell’oggetto imprevisto, per valutare quale delle risposte è più coerente all’equilibrio tra visione e funzione.
L’arte di credere all’apparenza manifesta nuove tendenze e l’azione in torsione spiralizza espressioni elicoidali, la spirale abissale in cui può perdersi la mente che insegue gli effetti che l’oggetto in variante produce.
L’invarianza funzionale potenziale prevista per una variazione minima si contrappone alla trasformazione completa di un’aberrazione programmata dalla volontà di cambiare completamente l’oggetto. Le motivazioni possono essere significative solo se la risposta suscitata dalla variante evolve l’individuo e la specie, anche se, il contesto, nella totalità, assume grande importanza, potrebbe addirittura generare l’idea che l’animale inutile vada confezionato come prodotto di scarto. L’oggetto non è funzione e la visione è illusione per cui la variazione non è realmente avvenuta.
Se invece l’animale è il vero referente funzionale, l’oggetto variato potrebbe ricombinare le idee e produrre una nuova realtà.
La risposta del contesto non risolve i nostri quesiti. Quel che noi vogliamo, tra l’altro, è capire quale risposta da’ l’animale alla variante sorprendente, all’inatteso che penetra i luoghi comuni.
L’oggetto in questione denota una motivazione ambigua e il fruitore deve chiarire il dubbio, riconoscere con certezza la funzione che scaturisce dalla variante senza confondersi nella ricerca d’identificarne il precedente. Il referente, dunque, deve scoprire come operare nel contesto per utilizzare il mezzo più adeguato alla funzione e al seguito della nuova spinta emotiva alterare il contesto stesso secondo i bisogni.

L’artista sfrutta l’imprevisto disegno per argomentare nuove opere e la funzione, collocata nella voglia di sorprendere, esplica l’originale valutazione asservendola al godimento creativo. Non può nutrirsi ma respira profondamente.
La pelle si allontana disarcionata dal muscolo e l’osso, senza più pretese, vaga nudo ai confini del vivente, materia repellente per ataviche paure. Pretestuoso è il disegno che risale all’evidenza, riflesso distorto dell’intimo umano. L’arte è inconscio! Che coscienza può avere l’artista se non può nutrirsi della funzione e deve operare nel vuoto respirando profondamente?

Il portento come variante attrattiva scardina la struttura portante, scuote le basi della verità con apparizioni concrete, vere illusioni, fantasmi di carne!
Il miracolo cambia il corso degli eventi, evento esso stesso, si piega alla volontà di potenza, Dio stesso che opera!
L’oggetto variato da Dio inscena parvenze attanagliate dal rimorso d’avere dubbi!
La funzione è teatro!
Raccontiamo l’oggetto che oramai non esiste! Valutiamo la variazione come incompletezza e cerchiamo nell’incongruenza l’inferno, il terribile abisso in cui ci smarriamo perché non riconosciamo i nessi funzionali del nuovo contesto.
Lasciamo l’arte della variante oggettiva per proporre, adesso, quella dell’uomo, funzione del vivere che alterna visioni e varianti inespresse.
Se l’oggetto quale funzione potenziale si esplica nella valutazione noi possiamo operare variando in relazione al contesto.
L’uomo si nutre e respira profondamente.

Tra le maglie della trama odierna spesso gli oggetti si trasformano nella funzione. In molti casi non esiste più distinzione tra oggetto e funzione. Il mezzo di cui ci serviamo è infatti oggetto e funzione.
L’animale capace di utilizzare un mezzo per giungere all’obbiettivo non valuta più la variante che altera l’oggetto ma il variare dell’efficacia del mezzo ch’è oggetto e funzione.
L’aberrazione è nell’uso d’un mezzo in cui non si distingue l’oggetto dalla funzione e la tecnologia spinge le masse all’ignoranza affinchè questo distinguo divenga impossibile e il mezzo si avvicini a Dio.
Il portento è un mezzo capace di scardinare una struttura portante, quella variante che scuote le basi della verità, un’apparizione concreta, la vera illusione, un Dio che ha fede nei nostri bisogni.
Il miracolo non cambia il corso degli eventi anzi ne uniforma il contesto piegando il volere alla volontà di servire, non Dio, ma chi ci fornisce il mezzo adeguato.
Tutto ruota come in teatro!
Il mezzo, baricentro dell’esistenza ci accomoda in un angolo, in attesa d’un nuovo evento e, intanto, pigiamo pulsanti per vedere, capire, volare, credere.
Raccontiamo l’uomo che oramai non esiste! Una variante attinente al precedente. Un oggetto senza funzioni.

di Antonio Limoncelli dal libro “SCIENZA DELL’ESISTENZA IRRAZIONALISMI RAGIONATI”

Phurpa – Il suono che purifica dalle profondità


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Nel 1990 a Mosca, guidati da Alexei Tegin, un gruppo di artisti e musicisti si avvicinava allo studio della musica rituale; l’obbiettivo era quello di allontanarsi dalla musica che stava spopolando in quel periodo e recuperare le radici musicali nelle antiche culture Egizie, Iraniane e Tibetane.
Nel 2003 la lineup definitiva del progetto assumerà il nome di “Phurpa”. I membri che compongono questo gruppo sono accomunati dalle individuali ricerche nelle liturgie Bon e Buddhiste.

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Il tipo di canto utilizzato (Gyer) e gli strumenti tipici della tradizione Bon generano un sound inconfondibile e differente da altri prodotti simili. I brani che possiamo ascoltare dai loro CD non sono semplici canzoni ma vere e proprie tracce sonore di rituali e di preghiere utilizzate dai monaci Tibetani.
L’armonia si diffonde a partire dal canto delle sillabe magiche (che cioè generano una modificazione sulla realtà) che compongono i mantra, e viene poi integrata dagli strumenti rituali che il Leader del gruppo più avanti ci esporrà. Non ci sono sintetizzatori e soprattutto non vengono usati strumenti che non abbiano componenti organiche (molti strumenti sono ricavati da ossa umane).
Il sound può risultare spesso oscuro ma il contenuto dei brani è sempre dei più puri, e forse, anche in questo, risiede l’affascinante bellezza di queste preghiere tradizionali Buddhiste.

Il 7 Giugno del 2014 è stato rilasciato, presso la Zoharum, la nuova raccolta dei Phurpa che porta come titolo “Mantras of Bon”.

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Prima di lasciarvi all’intervista credo sia d’obbligo concentrarci brevemente sulla corrente religiosa che prende il nome di Bon.

IL BUDDHISMO IN TIBET
In Tibet non esiste una parola che significa “Buddhismo” [1], o ci si definisce Chos-pa (coloro che seguono il Chos) o Bon-po (coloro che seguono il Bon). [2]

IL BÖN
Il Bon è una religione pre-Buddhista che si è sviluppata principalmente nel Tibet e nel Nepal (anche se è arrivata a contaminare alcune zone dell’India e della Cina). I Bonpo riconoscono nella propria religione tre fasi importanti.
La prima fase viene denominata Jola-bon (Bon manifesto). In questo periodo erano venerate divinità che rappresentavano i principi maschili e femminili, diffusi erano inoltre i culti delle Divinità locali. Il Sacrificio rituale era una pratica quasi consueta per propiziare la benevolenza delle divinità; per stringere un patto; per inaugurare o occupare una casa la prima volta. [3] Un altro elemento caratteristico era l’estasi oracolare.
Nella seconda fase Kyar-bon (Bon differente) il Bon-Chos subisce il contatto con l’India e con le tradizioni Buddhiste e Brahaminiche (v. Induismo). In questa fase l’escatologia, l’etica e la metafisica Bon risultano molto simili a quelle del Buddhismo e il profeta Senrab Mibo viene identificato come un’incarnazione del Buddha. Le divinità Induiste trovano posto nella dottrina del Bon-chos: vengono considerate come entità luminose che hanno la capacità di influenzare i fenomeni. Esempi classici sono l’adattamento della dottrina Tantrica della Shakti e il culto della Yoni, oppure “Il Dio della Montagna” che è una trasposizione di Rudra.[4]
Nella terza e ultima fase, chiamata Gyur-Bon (Bon trasformato), la religione viene accettata ed in parte assorbita dal Buddhismo. Il periodo corrisponde a quello della Prima Epoca del Buddhismo in Tibet. Da questo momento le divinità del Bon verranno assorbite e inglobate dal Buddhismo Tibetano.
Ancora oggi il Bon sopravvive in Tibet e in altri luoghi.

Le pratiche più importanti della Tradizione Bon coinvolgono i Chakra e quindi il Tantra. L’obbiettivo principale di questa pratica è di ottenere uno stato di beatitudine e di liberazione dalla condizione negativa (la “realtà” è un’illusione), assumendo il controllo della percezione e della cognizione.
A questo fine la ritualità Bon prevede la recitazione di specifici Mantra con un tipo di canto che viene definito tantrico: in questa direzione sono orientati i Phurpa.
Tra gli strumenti che vengono utilizzati in queste pratiche, il gruppo ha deciso di rendere onore ad uno in particolare: il Phurba.

IL PUGNALE RITUALE

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Esempi di Phurba usati dal gruppo durante le performance.

Il Phurba è un pugnale rituale utilizzato in varie correnti del Buddhismo Tibetano. Può essere costituito di elementi naturali come il legno o vari metalli. È formato verticalmente da una testa (che è solitamente quella di una divinità), da un manico e infine da una lama (di tre lati, a forma piramidale). La sua struttura è studiata per assorbire, trasformare e dirigere le energie negative. Il simbolismo del Phurba può essere interpretato in vari modi: la testa può rappresentare sia il capo dell’uomo che il mondo superiore nella costituzione sciamanica dell’universo; il manico rappresenta il busto e il mondo di mezzo; la lama rappresenta le gambe e il mondo inferiore. [5] L1050370Ma un pugnale rituale non è solo uno strumento o un immagine che simbolizza una determinata divinità (come avviene con la Croce nella religione Cristiana), bensì è un essere Divino che porta lo stesso nome: Phurpa. [6] La divinità e l’oggetto, quindi, combaciano perfettamente. Nella pratica il Phurba è un’arma usata contro i Demoni. I Demoni nel Buddhismo sono entità che rallentano il percorso spirituale dell’uomo impedendogli di raggiungere la Buddhità, ovvero, lo stato di Illuminazione. Apparentemente questo potrebbe essere in contrasto con la dottrina della “compassione” (che consiste nel non nuocere a nessun Essere Senziente), ma in realtà, il Demone viene “ucciso” per compassione, liberandolo dunque dalle sue qualità negative (infatti nei testi Tibetani la parola utilizzata è “sgrol” (liberare) e non “bsad” (uccidere)).[7]

Dopo questa essenziale introduzione, vi lascio all’intervista fatta al leader dei Phurpa: Alexei Tegin.

Come nascono i Phurpa?
Non ho inventato i Phurpa, li ho solo ereditati. Phurpa (il divino) rappresenta l’elemento dell’attività e dell’azione.
Tegin in Iraniano antico significa principe; Shenrab Miwo è il fondatore del Bon ed era nato nell’antica Iran. L’ho quindi semplicemente ricordato.

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Come registrate i vostri album?
Tutti gli album più recenti sono registrati da performance live. Non scriviamo musica, registriamo soltanto ciò che succede nella realtà. Questo a prova che nulla può essere migliorato. Penso che le registrazioni in studio siano una menzogna. La nostra prima registrazione era stata fatta in studio; poi ci siamo avvicinati alla celebrazione e l’abbiamo abbandonata. Ora con la richiesta di Stephen O’Malley abbiamo iniziato a scrivere canti rituali nello stile Gyer [8]. Le registrazioni vengono fatte con un magnetofono Brown. Vengono usati microfoni a nastro (ribbon).
Chi esegue il rito usa il Canone (Buddhista n.d.T.) [9] come strumento di massima effettività. Non c’è posto per l’improvvisazione perché non è l’interprete ma è la forza che detta la realizzazione.
Nell’essenza e nel principio del Bon c’è la forza. Questa forza si manifesta in modi differenti. Non ci sono transizioni, solo il potere detta la forma. La manifestazione arriva attraverso la forza ed è come entrare in contatto con lei.
Quindi chi realizza il rito non sceglie la forma, ma semplicemente mette in atto il lavoro.
L’esecutore del rito non apprezza il risultato (non lo considera neanche come una vittoria personale, una sua capacità o un punto d’arrivo) che deve essere concluso ed assoluto.

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Quali sono gli strumenti che usate e come?

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Nga: largo tamburo con doppio lato. Il diametro varia dai 50 cm ai 180 cm. Cantando si creano vibrazioni della voce a bassa frequenza. Spesso usiamo due tamburi che sono diversi di un semitono o di tre semitoni.

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Dung-chen: tromba tibetana in bronzo lunga dai 2 m ai 3 m, rappresentano la voce degli Yidam [10]. Vengono usate sempre in coppia.

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Bup e silnyen: piatti in bronzo.

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Shang: una campana appiattita.

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Poi anche rgya-ling: una specie di oboe.

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Kanling: un piffero ricavato da una tibia umana, usato per evocare.

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In che modo usate il canto?
Mentre cantiamo la nota varia in altezza, volume e timbro. Nello schema usato sono 15-17 semitoni. La melodia risuona all’unisono e si adatta meglio al canto recitativo. La configurazione ritmica recitativa è 5, 7, 9, 11.

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Dove e come ascoltare la vostra musica?
Il testo dei mantra è parte del Canone. La melodia arriva nel sogno. Quando puoi unire insieme un’intenzione molto importante, volontà e forza interiore, il suono materializza un luogo magico. La Musica Sacra è un altro mondo e quest’altro mondo può alterare la coscienza. Se decidi di cambiare, inizia ad ascoltare. Per noi il luogo non ha importanza, il suono cambia il luogo.
Gyer e Gyu-ke sono due tipi di canto. Gyu [si traduce come] Tantra, kye [si traduce come] cantare; penso che le radici di entrambi siano profondamente radicate nel passato. I suoni della voce magica sono messi in pratica dai tempi più antichi, e questi suoni cambiano la mente (con cui si altera la realtà). Nel Bon il suono di base è la principale via di manipolazione magica.

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Cosa puoi dirci riguardo al vostro album di più recente pubblicazione: “Mantras of Bon”?
In questo CD sono riportati insieme frammenti di performance live lungo gli anni, ed altre in cui canta Alissa Nicolai. Mi piace il fatto che noi siamo fissi e che non ci muoviamo.

Phurpa live at Extreme Rituals : A Schimpfluch Carnival: http://vimeo.com/59409081

NOTE
Per la traduzione di alcune parti dal Russo si ringrazia Carolina Miron.
[1] In occidente questo termine accomuna una serie di tradizioni che seguono l’insegnamento di Siddhārtha Gautama.
[2] Cfr. “The Nine Ways of Bon: Excerpts from Gzi-brjid” edito e tradotto da D.L. Snellgrove per London Oriental Series , Vol. 18, Oxford University Press 1968.
[3] Cfr. Omacanda Hāṇḍā, “Buddhist Western Himalaya: A politico-religious history”, ed. M.L. Gidwani, New Delhi, 2001; pag. 257 a seguire.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. “Himalayan thunder nails” di Peggy Malnati, presente nella rivista “Sacred Hoop”, n° 41, 2003; pag. 12 a seguire.
[6] Cfr. Thomas Marcotty, “Dagger Blessing, The Tibetan Phurpa Cult: Reflections and Materials”, ed. B.R. Publishing Corporation, 1987, Delhi; pag. 29.
[7] Ibidem; pag. 5.
[8] Gyer è uno stile di canto.
[9] Alla richiesta di ulteriori chiarimenti riguardo alla parola “canone”, l’artista ci risponde così: “il Canone è una struttura immutabile, il più assoluto insieme di elementi che servono per arrivare allo scopo”. I Canoni Buddhisti principali sono tre: il Canone pāli (o Pāli Tipitaka), il Canone cinese (Dàzàng jīng), e il Canone tibetano (composto dal Kangyur e dal Tenjur).
[10] Gli Yidam sono esseri perfettamente realizzati ma non (necessariamente) dotati di reale esistenza. Sono oggetto di meditazione soprattutto nel Buddhismo Vajrayana, e hanno come fine quello di provocare un cambiamento nella coscienza del praticante.

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LINKS
http://www.phurpa.ru/
http://phurpa.bandcamp.com/
http://zoharum.bandcamp.com/album/mantras-of-b-n
http://www.discogs.com/marketplace?artist_id=1644117&ev=ab
https://www.youtube.com/channel/UCkTp8XHDA54ru1-LRhUdP5w
https://www.facebook.com/alexey.tegin

Fuori Menù 12: la Svezia turistica, la cucina gustosa e il progressive death metal degli Opeth


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La Svezia ha in sè il fascino del grande nord, con numerosi luoghi da vedere e attrazioni turistiche sparse ovunque: antichi monumenti megalitici, siti vichinghi, castelli, navi da guerra ed eleganti città come Stoccolma. La capitale è nota per gli eleganti palazzi, i canali navigabili dove perdersi coi pensieri, i musei, i vecchi quartieri dove fare passeggiate tutte da scoprire.

Ma la Svezia non è solo monumenti ed edifici, è anche natura, vera anima del Paese. La Lapponia, per esempio, oltre il circolo polare artico o le isole di Koster ad occidente al confine con la Norvegia, costituiscono vanto e orgoglio della nazione.

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A circa una trentina di km da Malmö, in Svezia, in una cornice di grande suggestione naturalistica, sorge il castello di Häckeberga, un grande ed elegante edificio del 1875. Il castello è situato in un piccolissimo isolotto nel lago di Häckeberga, inizialmente costruito come una fortezza nella prima metà del XVI secol da Holger Ulfstand (lo stesso del castello di Glimmingehus) per poi essere demolito e fare posto alla presente struttura. La sua bellezza architettonica è dovuta all’architetto Helgo Zetterwall, responsabile anch’egli di molti lavori nella città di Lund (la cattedrale, la chiesa di Tutti i Santi e dell’Università di Lund).
Oggi il castello è di proprietà della famiglia Tham, al suo interno è situato un elgante hotel, un raffinato ristorante gestito da Gunilla e Bo Madsen e una sala congressi. L’edificio è anche aperto al pubblico per una visita di carattere storico-culturale; da non perdere il periodo pasquale, quando il tour si arricchisce della tradizionale mostra d’arte. Per piacere o per business, visita o soggiorno, il castello di Häckeberga è un luogo da visitare, anche solo per le belle passeggiate e le tante attività che è possibile fare nella sua campagna.

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Potete scegliere questa bella campagna anche solo per un’escursione fuori porta, a soli 4 km dalla città di Uppsala, sappiate tuttavia che a Gamla Uppsala l’aria che si respira, oltre ad essere buona, è anche intrisa di antichi misteri e magie. I vostri piedi andranno a calpestare uno dei più importanti luoghi di sepoltura di tutta la scandinavia pagana: sono 2000-3000 le tombe dell’area, di cui 250 visibili tumuli. I più grandi, sono conosciuti come i tumuli dei re Kungshögarna (Aun, Egils e Adils della dinastia di Ynglinge, antenati del primo re di Norvegia Harald il Chiaro) datati VI secolo e risalgono all’era dei vichinghi, periodo nel quale la mitologia svedese vi fa risalire anche le dimore di Odino, Thor e Frey.
Secondo quanto afferma lo storico Adamo di Brema, vissuto nella seconda metà del XI secolo, Gamla Uppsala è il luogo dell’antico Tempio di Uppsala, uno dei più grandi tempi pagani del nord Europa. Un luogo creato per venerare gli dei norreni in tempi ancora più antichi, poi soppiantato dall’arrivo del cristianesimo. Tale culto è tuttavia scarsamente documentato, non fosse per gli scritti delle saghe norrene, come appunto il Gesta Danorum di Brema. In anni recenti, diversi studiosi come Neil Price e Magnus Alkarp, in alcuni scavi archeologici, trovarono importanti reperti nelle fondamenta dell’attuale chiesa medievale di Gamla Uppsala; ricerche continuano a tutt’oggi. L’antica Uppsala è un luogo da non perdere nella vostra visita in Svezia, lo stesso Papa Giovanni Paolo II nel 1989 ha fatto visita alla caratteristica chiesa di Gamla Uppsala.

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La Svezia è una delle terre più antiche del mondo e in quanto tale conserva una moltitudine di testimonianze storiche. Tra queste le pietre di Åle (in svedese, Ales Stenar) nella regione meridionale della Scania, sono sicuramente le più ricche di suggestione: 59 pietre verticali vanno a formare uno dei più grandi monumenti megalitici della Scandinavia, risalente probabilmente al periodo della fine dell’età del ferro.

Mito e leggenda trovano qui il proprio profilo intriso di mistero: ciascuna pietra è posizionata in modo preciso e tale da formare nel complesso una sorta di ovale ben definito, nelle cui estremità è sita una pietra madre, più alta delle altre. La forma ricorda con molta accuratezza una nave vichinga di dimensione 67×19 metri, tant’è vero che la collina nella quale esse sono situate si rivolge verso il mare. La monumentale formazione megalitica sorge in prossimità di un villaggio di pescatori, Kåseberga, a circa 18 km dalla cittadina di Ystad ed è situata in una verde collina a prato piana. La vista è appunto quella che dà sulle spiagge del Mar Baltico, 180º gradi di perfetto orizzonte marino e 180º di altrettanto perfetto orizzonte di terra, nient’altro è posto nel mezzo. Non sono pochi coloro che come accade per Stonehenge attribuiscono alle Pietre di Ale una funzione astronomica.

Secondo alcuni, il nome Åle (o Als) significa ‘santuario’ in lingua nordica, mentre secondo altri il suo significato va riferito alla particolare conformazione della costa, altri ancora riferiscono il nome ad un capo vichingo vissuto nel periodo delle grandi esplorazioni degli uomini norreni. Nel complesso, gli studiosi sono inclini alla conclusione che vuole questo luogo un monumento in onore dei vichinghi, che al mare diedero la loro vita morendo nei viaggi di conquista (è il caso per esempio dello studioso Oskar Monelius, vissuto tra il 1843 e il 1921). Di certo c’è che le pietre di Ale erano già conosciute nel 1624 quando vennero descritte dal viaggiatore Niels Ipsens e da altri dopo lui, ma fu solo nel 1919 che il monumento venne inizialmente restaurato e portato ad antico splendore. Alla fine degli anni Ottanta, furono ritrovati dagli archeologi dei resti umani bruciati e custoditi in un’antica pentola di creta, e accompagnati da diversi altri oggetti antichi.

Oggi, la grande incertezza rimane, non esistono nomi su chi innalzò questo grande monumento, come non esistono neanche certezze circa la data esatta di edificazione. L’Università di Lund e l’Università di Göteborg sono al momento le uniche che portano avanti gli studi, guidati dal team del Professor Märta Strömberg.

Passando alla cucina, possiamo dire che in Svezia la cucina tradizionale, ”husmanskost” in svedese, è semplice ma non per questo poco gustosa e sostanziosa. Affonda le sue radici in un’economia di altri tempi en nel clima temperato della Scandinavia. All’origine di molte delle abitudini alimentari c’era proprio la necesita di conservare per il resto dell’anno quei prodotti che altrimenti avrebbero avuto una durata molto limitata, per esempio le carni, il pesce, prodotti della terra ed il latte, che nel nord si poteva bere solo d’estate, quando le mucche pascolavano in libertà. Anche il pane secco (knäckebröd, tipo wasa) risale al tempo quando il regime idrico dei corsi d’acqua consentiva la macinazione solo in primavera e in autumno.

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Involtini di Cavolo – ”Kåldolmar”

Ingredienti per 6 persone

1 cavolo cappuccio (1 chilo circa)

Per il ripieno:
400 g di carne macinata
50 g di riso
2 dl di acqua
1 uovo
½-1 dl di latte
3 pizzichi di sale
1 pizzico di pepe

Per la cottura :
2-3 cucchiai di burro
2 cucchiai di melassa

Per il sughetto :
acqua
½ dado
sale
pepe
(3 dl di panna da montare, soia)

Tolte le foglie esterne e il torsolo del cavolo, fatelo cuocere in acqua leggermente salata che conserverete poi per la salsina. Togliete le foglie appena sono pronte (non devono cuocere troppo).
Ripieno : Fate un impasto con la carne macinata, l’uovo, il sale, il pepe, e infine il riso che avrete cotto e fatto raffreddare. L’impasto dovrà risultare ben morbido.
Mettete adesso un po’ del ripieno in ogni foglia, che avvolgerete come un pachetto. Fate scaldare il burro in una padella, aggiungendo poi anche una cucchiaia di melassa, e mettetevi gli involtini che farete colorire tenendoli con la piegatura rivolta verso il basso.
Trasferite poi gli involtini (sempre senza girarli) in una teglia imburrata. Mescolate un goccio d’acqua al fondo di cottura della padella e versate il tutto sugli involtini.
Cuocete gli involtini in forno a 225º per circa tre quarti d’ora, irrorandoli ogni tanto, e se necessario aggiungendo un po’ dell’acqua di cottura del cavolo. Disponete gli involtini su un piatto di portata. Mescolate un po’ d’acqua al fondo Della teglia, aggiungete il dado, sale, pepe e fate addensare. Se si desidera una salsa più consistente, aggiungere 3 dl di panna e un goccio di soia.
Si accompagnano con patate bollite e marmelatina di mirtilli rossi.

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Biscottini speziati – ”pepparkakor”

Dose per 300-400 biscotti

350 g di burro
350 g di zucchero
2 dl di melassa
1,5 cucchiai di polvere di zenzero
1,5 cucchiai di polvere di cardamono
1,5 cucchiai di polvere di cannella
1 cucchiaio di chiodi di garofano in polvere
3 dl di panna da montare
1 cucchiaio di lievito per dolci
900 g di farina bianca

In una ciotola mescolate bene burro, zucchero, melassa e spezie, sino ad ottenere un composto cremoso, al quale aggiungerete la panna montata a neve. Mischiate il lievito a metà della farina, e inglobatela al composto, aggiungendo oi il resto della farina un po’ per volta. Rovesciate la pasta su una tavola infarinata, tiratela ben liscia, e rimettetela nella ciotola che terete coperta in frigo fino al giorno dopo.
Preriscaldate il forno a 200º. Spinate un pezzo di pasta per volta, direttamente su un foglio di carta da forno, tiorandola il più sottile che potrete e ricavandone le varie figurine natalizie (stelle, cuori, maialini ecc.) con gli appositi stampini. Togliete poi la pasta in eccesso ed infornate per circa 5 minuti, finché i biscottini abbiano assunto un bel colore dorato. Allora sfornateli e posate il foglio così com’è su una retina finché siano freddi.
I biscottini si possono anche decorare con una glassa che si pepara sbattendo bene una chiara d’uovo con un cucchiaio di aceto bianco e due bicchieri di zucchero a velo. Mettete il composto in una siringa (o cono di carta) dal foro sottile, e decorate i biscottini. Si possono anche usare mandorle spellate, che si mettono sui biscotti prima delle cottura.

Concludo l’excursus dentro questa splendida Svezia con la musica, con un gruppo a me caro, gli Opeth, gruppo progressive death metal svedese, formatosi a Stoccolma nel 1990.
Dal punto di vista stilistico, gli Opeth nascono come una band death metal, affondando le proprie radici nelle classiche sonorità del genere, ispirandosi a gruppi quali Morbid Angel, Death e Bathory. L’ascolto di una band svedese, i Mefisto, che aveva inciso una sola demo, cambia però le vedute del gruppo sul metal estremo: l’accostamento di sonorità death con elementi melodici ed acustici adottato in questa demo (intitolata The Puzzle) porta gli Opeth a riconsiderare altri generi diversi dal death metal. Questa riconsiderazione non si risolve però nel cambiamento radicale di genere, ma in un’approfondimento e nella fusione di più generi diversi.
Al death metal vengono accostate influenze progressive rock anni settanta (sul genere di Camel, Pink Floyd e Genesis) ed una gran quantità di spunti e contaminazioni blues, jazz e soprattutto gothic metal, uno stile gotico che spesso fa da background a molte loro composizioni. Il risultato è un tipo di musica molto originale, difficile da classificare, che ha ricevuto molti appellativi tra cui “progressive death metal”, che probabilmente è quello che più gli si addice.
È comunque più corretto dire che gli Opeth hanno creato un genere a sé stante (oggi ci sono band, come gli italiani Novembre, che si ispirano in parte agli Opeth), originato dalla loro fantasia e dalla fusione di tanti generi differenti.

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Proposte d’ascolto:


Prospettive. I fotografi che hanno fatto la storia: Omaggio di parole a Hellen van Meene


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Le immagini della fotografa olandese Hellen van Meene sono l’incarnazione della fragilità, della bellezza e della solitudine. Nata nel 1972 ad Alkmaar (Paesi Bassi), Hellen studia fotografia presso la Gerrit Rietveld Academie di Amsterdam.
Le sue ragazze sembrano vivere in una dimensione atemporale, immerse in una luce naturale che mette in rilievo la vulnerabilità e il dilemma di un’età ancora acerba.
Dove i cammini sembrano ancora aperti, dove la maturità convive con atteggiamenti gioiosi e freschi. La fotografa olandese riesce a catturare splendidamente ogni imperfezione, ansia, isolamento di questo gioco tra il reale e l’immaginato.
Naturalezza e artificio si mescolano dando vita a minuziosi scenari dove lo sguardo introspettivo dei modelli evita la fotocamera. La sensibilità formale di Hellen van Meene si arricchisce di una illuminazione parzialmente ispirata alla pittura classica olandese.
Immagini poetiche, ma anche inquietanti, dove le giovani donne mostrate in contesti quotidiani, appaiono quasi come fantasmi senza vita, come corpi prosciugati dalla linfa vitale.

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Interno con preghiera n°

scivola il giorno
nei suoni diafani della parte lesa
accatastati – regoli – come fervide tossine cerebrali

Susette ha un segreto, lo mormora all’ora
– tre volte –
davanti al crocino areatorio sulla porta di tenebra blu

una nenia iniziata dall’alba, luce rosa che muore
per brama di un’estasi rorida, predata sul pube
ghirlanda adornata con trine caduche

Susette ha un segreto, lo spinge nell’ora
– tre volte –
lo nomina piano, lo attende, nel blu

(Doris Emilia Bragagnini – inedito per WSF)

enzo

Fossi
ancora quel gheriglio
per accovacciarmi
di luce diagonale

Sollevato dentro un pugno
di tiepido embrionale

Avanzerei – aliti- alla tenebra

liquefatto su un sofà
d’amniotico stupore

ma
c’è troppo scuro
da scontare
troppo cuore
da abbandonare
troppa mente
da dimenticare

L’uscio invano
mi resta al palmo

ad un solo passo
distante luce
dalle mie
gambe

(Enzo Lomanno – inedito per WSF)

Sylvia-Hellen van Meene

entra
nella cucina che ti racconta
i vecchi giochi
della bambina senza soluzione
e le corse dei suoi occhi dietro i cespugli
fitti di denti sbucati dalle mani
per accanirsi dove saltava fuori il capezzolo
avvizzito che le destinò la fame

di Sylvia Pallaracci

Voci Nuove: Vandemars


Internet è da sempre un mondo e in questo mondo è possibile incontrare e rimanere folgorati da certe cose, per me la folgorazione è avvenuta con i Vandemars, amore al primo ascolto, avvenuto nel più semplice dei modi, un link nel profilo di un amico su fb e da lì volerne sapere di più il passo diventa breve.

Un saluto ai Vandemars da WSF

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Come nascono i Vandemars? Parlateci di voi e del nome del gruppo.

Il nostro progetto nasce nel 2005 dall’incontro di cinque anime diverse unite dall’amore per la musica. Dopo un lungo percorso di crescita ed un’intensa attività live, fortificata dalla partecipazione a vari contests regionali e nazionali, nel 2011 arriva il nostro primo lavoro in studio, Blaze che vede la produzione artistica di Paolo Benvegnù e Stefano Bechini. Il 2012 è un anno ricco di cambiamenti , la nostra formazione si rinnova e con l’ingresso del batterista Cris Bottai ci trasformiamo definitivamente in un quartetto. Nell’Aprile del 2013 mettiamo subito alla prova questa nuova line-up con la pubblicazione dell’album live Back to Mars, che ripropone i brani di Blaze vestiti di un nuovo sound ed alcuni remix a cura di Cris Bottai. Ad agosto 2013 torniamo all’Entropya Studio di Gabriele Ballabio (PG), dove avevamo già inciso Blaze, per la registrazione del nostro secondo album di inediti, che vede la luce lo scorso 1°Aprile, con il nome di Secret of Gravity.
Il nome Vandemars è un gioco fonetico di inglese e francese che significa “Avanguardia di Marte”. E’ arrivato un giorno per caso, ma suonava così bene alle nostre orecchie che l’abbiamo sentito nostro all’istante. Solo con il tempo abbiamo capito quanto il suo significato c’appartenesse e quanto definisse la nostra identità di gruppo. Delle avanguardie sentiamo di avere una piena libertà di espressione, al di là dei limiti imposti dalle definizioni di genere e da tutto ciò che è predefinito e precostituito. E “provenienti da Marte” o più semplicemente “alieni”, perché pur provando un profondo senso di attaccamento a questa Terra che amiamo profondamente, ci sentiamo distaccati e lontani dalla realtà umana che la contraddistingue, una realtà che poco ci libera e mai sa contenerci.

Quali sono i principali modelli che ispirano la vostra musica?

Sicuramente sono molti i modelli e gli artisti che ci hanno ispirato, ma la nostra principale fonte di ispirazione è l’incontro e la condivisione dei nostri singoli e diversi background culturali ed esperienze di vita. Ognuno di noi ha nutrito il sound del nostro progetto con le proprie influenze musicali fino a crearne un’amalgama Vandemarsiana. Potremmo nominare alcuni artisti ai quali siamo particolarmente affezionati come Patti Smith, PJ Harvey, Sonic Youth, Tool, Queens of the Stone Age, Nine Inch Nails e poi tutto il Blues del mondo, il Noise … Il Silenzio

La vostra musica nasce più “dal cuore” o “dalla testa”?

Nasce dalle curve del cuore, dalle cicatrici, dai neuroni specchio e da tutto ciò che il nostro corpo, inestricabilmente connesso con il Mondo, ci permette di sentire ed esprimere. Sicuramente la nostra musica non nasce da calcoli razionali, né tantomeno da scommesse progettuali fatte a tavolino. Quando creiamo ci facciamo mezzo per la musica, la lasciamo fluire per poi, solo in un secondo momento, plasmarla con un nostro messaggio.

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E’ molto difficile proporre qualcosa di originale nell’ambiente italiano moderno?

E’ difficile proporre qualcosa di originale tanto quanto è diffusa la mancanza di ascolto e di curiosità che caratterizza ormai da anni l’ambiente italiano; per cui è sempre più esteso e meno rischioso il ricorso a formule già sperimentate e di sicuro gradimento.

Com’è stato collaborare con Paolo Benvegnù in Blaze?

E’ stata un’esperienza costruttiva e fruttuosa di cui faremo sempre tesoro.

Tour?

Dopo alcuni showcase di presentazione di Secret of Gravity ad Aprile , il 7 Maggio abbiamo inaugurato un mini tour in radio che terminerà a fine Giugno, nel quale proponiamo alcuni brani del nostro nuovo album in versione acustica. Abbiamo dei live in programma per l’estate principalmente in Centro e Sud Italia, sui quali potete rimanere aggiornati tramite il nostro sito ufficiale http://www.vandemars.it/. Mentre in autunno ci auguriamo di partire per un breve ed intenso tour Europeo, che stiamo organizzando.

Un ringraziamento ai Vandemars tutti per la disponibilità, un grazie a Niccolò della Libellula Music da tutto lo staff di WSF.

Poeti (Ri)Trovati: Izet Sarajlić


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Eredità

a Josip Osti

I nostri avi ci hanno lasciato in eredità
degli Schonbrunn, dei Palazzi d’Inverno,
dei Ponts Charles,
delle Piazza San Marco,
senza menzionare
i Westminster
che rappresentano
i drammi di Shakespeare,
i romanzi di Tolstoi
o la “suite n. 3” di Bach.

E noi altri,
cosa lasceremo in eredità
ai nostri discendenti?

Degli snack-bar,
delle stazioni di servizio,
dei garages,
e qualche anti-romanzo.

1977

***

Un’altra volta saprei

Troppo poco ho goduto gli scrosci primaverili e i tramonti del sole

Troppo poco mi sono dilettato della bellezza delle vecchie canzoni e
delle passeggiate al chiaro di luna

Troppo poco mi sono inebriato del vino dell’amicizia
anche se al mondo quasi non c’è paese dove non avevo almeno due
amici.

Troppo poco tempo ho dedicato al mio amore
io che all’amore avevo consacrato tutto il mio tempo.

Un’altra volta saprei incomparabilmente di più godere la vita.

Un’altra volta saprei.

1987

***

Un lavoro terribile

ai giovani poeti

Per me voi tutti siete come figli.
Spero però che non mi riconosciate mai
come padre.

Per me
sarebbe fatale uccidere l’alunno che ho dentro.
Anche a voi raccomando
di diventare maestri il più tardi possibile.

È un lavoro terribile portare a termine la propria opera.
Un lavoro terribile.

1988

***

La fortuna alla maniera di Sarajevo

A Sarajevo
in questa primavera 1992,
tutto è possibile;
fai la coda per comprare il pane
e ti ritrovi al Servizio di traumatologia
con una gamba amputata.

E dopo asserisci
d’aver avuto anche fortuna.

1992

***

Confesso

Neruda dice: “Confesso che ho vissuto.”

Io confesso,
che spesso nei versi morivo.

Cercavo forse col verso
di ingraziarmi
la morte
per farla venire, quando sarebbe venuta, prima della tua.

Ahimè,
è successo il contrario.

2001

Biografia:

Considerato uno dei principali poeti dell’est europeo, membro del circolo 99 di Sarajevo e testimone della grande tragedia della Bosnia, Izet Sarajlić (Dolboj, 1930) si laurea in Lettere alla facoltà di Filosofia di Sarajevo. Nel 1954 fonda il Gruppo 54 che dà inizio alle nuove correnti di poesia moderna in Bosnia Erzegovina. È autore di una trentina di raccolte poetiche, alcune delle quali pubblicate anche in Italia: Il libro degli adii; Magma, 1996; 30 febbraio, San Marco dei Giustiniani, 1999; Qualcuno ha suonato, Multimedia Edizioni, 2001; Un’altra volta saprei, Multimedia edizioni, 2004.
Grande conoscitore e traduttore della poesia russa, Sarajlić è stato a sua volta tradotto in numerose lingue. Fino alla morte, avvenuta nel 2002, ha sempre lottato per il mantenimento della cultura laica, della pluralità e della convivenza.