Poesia Oltreconfine. Arthur Rimbaud


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La mia bohème

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
E anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!

I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.
Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo
Rime. La mia locanda era sull’Orsa Maggiore.
– Nel cielo le mie stelle facevano un dolce fru-fru

Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade
In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce
Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;

Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre,
Come lire tiravo gli elastici
Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

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Sara Iayafly Spano


 

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Nata a Sassari nel 1983 e dopo il diploma in grafica pubblicitaria e fotografia, all’età di 20 anni, frequenta il corso triennale di fumetti alla scuola Internazionale di Comics a Roma. Dopo alcuni primi tentativi di pubblicazione su Skorpio e su una piccola casa editrice americana “Yaoi press”, viene successivamente presa come storyboard artist, colorkey artist, character design in Rainbow CGI per i film “Winx-il segreto” del regno perduto e “Winx-Magica” avventura e per “I Gladiatori di Roma”, dove affina le capacità di illustratrice, e colorista. Subito dopo collaborerà anche con Mondadori per la realizzazione di alcune cover di libi per ragazzi, tra cui la trilogia di “Robin” dove creerà l’intera grafica della saga. Contemporaneamente lavora ad alcuni progetti di fumetto come colorista per la casa editrice francese Glénat e inizia la sua attuale collaborazione con De Agostini per la creazione delle collezioni de “I Magiki”. Attualmente, oltre a continuare le collezioni dei Magiki per De Agostini, lavora come colorista per Disney America e Disney Pixar su fumetti e libri illustrati per ragazzi di film come Inside Out e Frozen, oltre a lavorare a progetti personali come autore di fumetti completo, ancora in corso d’opera.

Benvenuta su WSF Sara
Grazie, è un piacere e un onore poter essere intervistata da voi.

Come Iayafly descriverebbe Sara Spano. Come donna, madre e artista?

Non la capirebbe granché, perché Sara è estremamente contradditoria come donna. Potrebbe giudicarla scostante, ma anche estremamente disciplinata, o molto insicura di sé e a tratti molto consapevole dei suoi pregi. Sicuramente la descriverebbe come ancora in cerca del suo equilibrio interiore e inspiegabilmente altalenante nell’umore.
Come madre direbbe che è una continua sorpresa, perché Iayafly, da quel poco che sapeva, era a conoscenza del suo totale rifiuto di volere figli. Sara immaginava di non essere portata a fare la mamma e che i bambini in generale non le piacevano granché. Accudire prole era un concetto troppo lontano da lei, insensato. E invece Sara non solo ha avuto un bellissimo bimbo di nome Icaro, ma si è rivelata una madre attenta, innamorata di suo figlio, e a suo agio con questo ruolo così dolcemente irreversibile.
Come artista è un dilemma, riesce a campare modestamente bene con questa sua passione per il disegno, è orgogliosa di poter lavorare in aziende in cui da ragazza non avrebbe nemmeno sognato, è fiera del traguardo che ha raggiunto e la fiducia che molte aziende importanti continuano a darle. Ma sente di non stare ascoltando attentamente la sua voce interiore, la fanciullina che smaniava per i fumetti, che avrebbe voluto raccontare le sue storie. Vedi, io vorrei aiutarla a realizzare finalmente un progetto suo, ma deve trovare il coraggio o l’incoscenza di fregarsene se non piacerà al fitto e severo mondo della “critica”del fumetto, perché questo mondo, da quando ha iniziato a frequentare la scuola internazionale di comics, la terrorizza. Ma ce la farò a farle capire che questo salto lo deve fare, che deve attraversare la sua paura e liberarsi.

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Quando e come nasce il tuo percorso artistico?

Fin da quando ero molto piccola, non ho mai smesso di disegnare. Non avevo molti amici perché non ero molto brava nelle relazioni sociali. Quindi preferivo rimanere a disegnare a casa, perché la compagnia della mia fantasia mi divertiva davvero molto di più che cercare un confronto col mondo reale. Dicevano che avevo talento, ma credo che oltre ad una predisposizione di base ci voglia molta solitudine per coltivare qualsiasi talento. Ovviamente divoravo fumetti, ma non potevo permettermente tanti, riuscivo a comprarli solo raccimolando i soldi della merenda di scuola. Il fumetto che più mi ha fomentato l’ho letto a 14 anni, mi regalò alcuni numeri il figlio di mia madrina, si tratta di Alita di Yukito Kishiro ( titolo originale “Gunmm” la prima serie, il seguito l’ho particolarmente disprezzato, non lo considero parte della storia). Ho avuto sempre una predilizione per questo genere di manga cyberpunk particolarmente cruenti, quindi ho allargando i miei orizzonti sempre nei limiti delle mie disponibilità economiche, successivamente con Akira di Katsuhiro Otomo, e la sua trasposizione cinematografica. E da qui anche Ghost in the shell il film, che mi ha dato modo di “sbavare” su animazioni da paura, tanto da farmi balenare l’idea di intraprendere la carriera di animatore. Ma i corsi erano pochi e sopratutto inaccessibili per chi non ha molte risorse economiche di famiglia, quindi sono rimasta nei ranghi del fumetto, che comunque adoravo, ma che a conti fatti avrei potuto accedere al corso pagandomelo da sola con dei lavori estivi.

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Che cos’è per te il fumetto e l’illustrazione?

Sono il mio mondo, la mia lingua e il mio pane.

Cos’ha dato e cos’ha tolto la colorazione digitale?

Ha dato tempo in più per altro, perché è molto più veloce e economica del “tradizionale”. Ha tolto la disciplina che ci vuole per cimentarsi tecniche antiche, complicate e dai tempi estremamente lunghi. Ma non credo che la colorazione digitale sia “facile”, solo più veloce per chi ha imparato ad usarla.

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Quali autori hanno maggiormente influenzato il tuo percorso artistico?

C’è una lista infinita, da Claire Wendling a Barbara Canepa. Da Marko Djurdjevic a Otto Schmidt… ma sono solo alcuni che adoro e studio in continuazione…

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Da dove trai ispirazione nella creazione dei tuoi lavori?

Dipende dai lavori. Se sono lavori richiesti da un cliente ben definito di solito mi da lui la direzione con ispirazioni generali forniti come reference. Altrimenti sono film, musica, pippe mentali su situazioni varie che non riesco bene a definire.

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A quale progetto ti senti più legata e perchè?

Gengis Khan edito da Glénat, dove ho esordito come colorista. A rivederlo adesso ci trovo una concezione molto claudicante del colore, ci rimetterei mano mille volte. Ma è stata la prima volta che ho fatto un lavoro del genere e mi sento molto affezionata a questo progetto.

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Quanto ti ha arricchito l’esperienza presso il Rainbow CGI e che ricordo ne hai?

Non mi ha arricchito, è stata una vera e propria svolta. Dico solo che prima di allora non avevo idea di come si interagisse in un team di persone, come si potesse mandare avanti qualcosa come uno storyboard, colorkey e compositing. Tutte cose che ho imparato in questa azienda, che mi ha fatto proprio da genitore. Ho un ricordo meraviglioso, nonostante le notti insonni cercando di consegnare scene del film, dei sacrifici che abbiamo fatto tutti per riuscire a fare qualcosa che ancora l’Italia si sogna, creare film con l’animazione 3D. Ho lasciato proprio un pezzo di cuore in quell’azienda.

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Secondo Orozco il murales “è la forma più alta, logica, pura e forte di pittura, è anche la più disinteressata, perché non può essere convertita in oggetto di lucro personale né nascosta a beneficio di alcuni privilegiati. Essa è per il popolo, è per tutti.” Che cos’è stato per te dipingerlo?

Dipingere murales è stato per me in passato un modo per raccimolare dei soldi per la scuola di fumetto, li realizzavo nelle case di chi me li commissionava. Non posso nascondervi che è solo per questo motivo che mi ha fatto avvicinare a questa arte e mi è capitato poche volte da adolesciente di crearli sui muri in per strada. Mi affascinava parecchio come modo di espressione artistica, ma non ne sapevo abbastanza per arrogarmi il diritto di filosofeggiarci troppo su. Conoscevo personalmente chi lo faceva per espressione di rivolta popolare e di sfogo artistico “pubblico”, ma non sono mai entrata veramente in questo mondo. Poi è anche capitato di farlo per una scuola elementare, con circa 150 piccoli aiutanti (gli alunni). Mi sono divertita parecchio. Solo questo posso dire…mi dispiace!

Poco tempo fa James O’Barr in un’intervista ha detto: “se a 40 anni ti frega ancora di cosa succede agli X-Men, forse dovresti farti vedere da un bravo psicanalista”, qual è la tua opinione in merito?

Che a me fregherà cosa succede agli X-Men anche a 40 anni. Ma sono ben altri i motivi per cui mi serve un bravo psicanalista…

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Cosa apprezzi e cosa cambieresti dell’attuale sistema fumetto?

Apprezzo il calore e l’amicizia che si instaura tra colleghi. Ma parallelamente vorrei far sparire la cattiveriache invece ne dimostrano altri, per fortuna molto pochi, anche se possono essere la spinta per migliorare. la sfida. Ma se potesse sparire la cattiveria non piangerei calde lacrime. Ma è utopia. Nella pratica forse molti più editor con l’occhio lungo sul talento, e non solo sul curricuuim di un fumettista.

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Cosa puoi anticiparci sui tuoi fumetti ancora in corso d’opera?

Che ci saranno almeno due miei progetti a fumetto personali in futuro, uno di questi concreato con la mia dolce metà Davide La Rosa. Non posso dire altro.

Grazie Sara

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All images are copyright protected and are property to Sara Spano

Christian Humouda

Poesie di Dimitri Ruggeri


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Dimitri Ruggeri (1976, Avezzano) è un poeta e performer membro permanente del World Poetry Movement che ha sede a Medellin (Colombia). Consegue la maturità presso il Liceo G.B. Benedetti di Venezia come allievo della Scuola Navale Militare “F. Morosini” e la laurea presso l’Università “La Sapienza” di Roma. È autore delle raccolte poetiche Parole di grano (2007), Status d’amore (2010), Carnem Levare, il Cammino (2008), Il Marinaio di Saigon (2013, Premio della critica Mioesordio 2014 – Gruppo Editoriale L’Espresso), Soda caustica (2014), del racconto-reportage Chiodi e Getsemani, versus Gerusalemme (2010) e del racconto La fuga (2015). È autore inoltre di diverse videopoesie e di un audiolibro. Ha partecipato a Poetry Slam nazionali, Festival di poesia e ai più importanti Festival Internazionali di videopoesia in Europa. È presente in antologie poetiche e siti web letterari; alcune poesie sono state tradotte lingua spagnola per il Periódico de poesía de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM). Nel 2006 è stato ospite al programma RAI (Futura) Miss Poesia. È ideatore e curatore progetti culturali sul web. Maggiori informazioni su http://www.dimitriruggeri.com.

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Giovani Prospettive. Omaggio di parole a Kylli Sparre


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Kylli Sparre giovane artista olandese che gioca con la manipolazione delle immagini.

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Natura di Angelica D’Alessandri

Cornucopia radiosa
Danzante nei boschi

Musica gelida scopre te stessa
Solchi giorni mai vissuti
E vite mai nate

Intrisa di saggezza
Riveli colori
E trasformi ricordi;
Nel presente fiorisci

Insinuandoti in me
Mi nutri di gioia.

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Immagino di Elina Miticocchio

parole dal cuore cadute a stendere teli azzurri
parole di vento. Parole di splendore

c’è polvere di rose nell’aria
un piccolo canto
desta la luce

scucita è la conchiglia del mattino
nell’intatto tessuto delle ore

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Novità Editoriali: Lettere a D – Alessandro Assiri (Lietocolle 2016)


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Nota dell’autore

D. (come iniziale di tutti i Destinatari) scandisce il tempo assoluto in una contemporaneità quotidiana, che sembra avere nella pratica delle manie e dei vizi l’unica via d’uscita dal banale.
Un testo imbrattato e sporco come solo può essere una scrittura contami-nata, una narrazione che usa la forma epistolare per rincorrere una se-quenza di atti emotivi che hanno potuto (e saputo) eccedere anche rispetto alle proprie illusioni, ai propri miraggi.
Tutte le volte che mi capita di ripensare a D., sento che – a forza di aspettare – le rivoluzioni accadono sempre senza di noi; forse è per questa ragione che ho provato a fermare “quella” energia vitale, perché non andasse dispersa nell’astratto delle figure che attraversano l’incompiuto del “mio/nostro” tempo comune.

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British Art Show 8 – Lo sconfinamento delle Percezioni (Edimburgo /13 Febbraio – 8 Maggio) di Nausica Hanz


Diciamolo chiaramente, senza timori, al giorno d’oggi entrare in un museo e vedere solo quadri è una routine a noi troppo famigliare, a cui siamo fortemente abituati. In quella passeggiata tra le opere esposte non ci aspettiamo nulla: camminiamo tranquilli, perché le nostre esperienze al museo non hanno mai riservato sorprese. In un museo non siamo mai stati vittima di un agguato.
Certo, nessuno mette in dubbio il potere catartico e allucinatorio che possiedono i quadri di alcuni artisti (penso ad esempio a Van Gogh, Bosch o a Escher, etc etc…) che ti permettono di entrare in un altro mondo solo attraverso il mezzo della vista, ma cercare negli artisti contemporanei viventi un livello altrettanto alto di energia manifestato soltanto (e sottolineo soltanto) attraverso la pittura è alquanto ingenuo … anche se sarebbe molto bello!
Oggi noi spettatori abbiamo bisogno di qualcosa di più. Abbiamo bisogno di toccare le opere, di sentirle, di fonderci con esse, di esserne invasi a 360°. In questa era super tecnologica in cui quasi ognuno di noi è stimolato più dal mondo digitale e virtuale che da quello reale, un’opera d’arte statica e silenziosa, per quanto seducente, non potrà mai competere con i mille stimoli che la tecnologia ci infonde ogni giorno, anzi ogni minuto. Ecco dunque che la maggior parte degli artisti ha sostituito la tavolozza e il pennello con dispositivi audio-video di ultima generazione,apparecchiature meccaniche e ultra sensoriali e creato ad doc ambienti immersivi in cui l’osservatore vive/prova fisicamente ciò che è esposto.

1(Sequencer/Benedict Drew)

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Recensione di Fernando Della Posta a “La pietà del bianco” di Antonella Taravella – Autoprodotto 2015


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Secondo la fisica il bianco è il colore a-cromatico, in quanto contiene in sé tutti i colori, così come la luce bianca contiene in sé tutte le altre luci. Esso quindi può essere paragonato ad una sorta di luce primigenia, da cui è possibile ricavare tutte le altre. Il bianco inoltre è il colore del sacro, è il “vestito” delle manifestazioni ultraterrene benevole. E se il bianco viene inteso come vestito, il nero lo è ancora di più. Il nero è nascondiglio, è chiusura totale. Il bianco allora può essere accostato alla nudità, a quella prima patina di rivestimento che avvolge le viscere o il corpo di ognuno di noi. E se corporalmente esso può essere assimilato alla pelle, spiritualmente e psichicamente esso può essere paragonato al primo rivestimento della nostra interiorità, in altri termini al rivestimento di quel qualcosa che linguisticamente etichettiamo come anima. Il bianco perciò può essere accostato alla purezza connessa alla nudità, sia fisica che spirituale.

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Poesie di Gianni Ruscio


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tratte da Respira, edito da Ensemble Edizioni nel febbraio 2016

Ognuno è ognuno. Troppo per essere qualcuno. Troppo poco per (non) essere nessuno

È una tragedia, la mia.
Un sentire isolato, il disperarsi cronico.
Dirsi una bugia.
L’amore è una feritoia per il nulla
dentro. Pienezza atmosferica.

Mi porti in braccio nella notte
da quando ero bambino. Piccolo amante
ero a te
già da allora.
Aprendo e chiudendo gli occhi
t’inghiottivo.

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Meshes of the Afternoon


Meshes of the Afternoon, lavoro non-narrativo del 1943,  è stato definito un esempio di “trance film”, nel quale la protagonista appare in uno stato surreale  e la cinepresa è lo strumento capace di mettere a fuoco la sua soggettività.

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Realizzato da Maya Deren (1917–1961) in collaborazione col marito Alexander Hammid, questo cortometraggio compare dal 1990 nel National Film Registry, l’archivio di film preservati,  ed è quindi da considerare come “film culturalmente, storicamente o esteticamente significativo”.
Meshes of the Afternoon ha ispirato i primi film di Kenneth Anger, Stan Brakhage, e altri importanti produttori del cinema d’avanguardia. Nel cortometraggio,  girato da Hammid, importante produttore di documentari e cineoperatore in Europa, con pochissimi mezzi e usando una cinepresa Bolex 16mm di seconda mano, si fa un uso sorprendente di tecniche cinematografiche come il montaggio e gli scatti opachi, l’esposizione multipla, il taglio, la sovrapposizione, il rallentamento delle scene, l’uso di spazi discontinui, abbandonando le nozioni di spazio fisico e tempo, con l’abilità di volgere la visione delle cose come in un flusso di coscienza.

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La figura centrale in Meshes of the Afternoon è una giovane donna, interpretata da Deren, sulle tracce di una misteriosa figura che si allontana, entra nella propria casa e si addormenta. In seguito la scena si ripete tre volte, moltiplicando le figure della protagonista. La donna insegue ora un’inquietante figura coperta da un mantello, con uno specchio al posto del viso, mentre nel finale compare anche una figura maschile, interpretata da Hammid. Oggetti simbolici, come una chiave e un coltello, compaiono in tutto il film; gli eventi sono indeterminati e interrotti.  Deren ha spiegato che lei voleva” inserire nel film il sentimento che una persona prova  in conseguenza di un incidente, piuttosto che registrare l’incidente accuratamente”. La donna in armonia con il suo inconscio, è  intrappolata in una rete di sogni che si traducono in realtà. Nel film si sente l’influenza che la lettura del The tibetan book of Dead ha esercitato sulla Deren, tanto da  determinare molte delle scelte stilistiche di Meshes of the Afternoon, come la famosa figura in nero con il volto di specchio o la “doppia soggettiva” dello specchio con Hammid. Infatti, l’osservare il mondo attraverso la realtà filtrata dello specchio, realtà e sua rappresentazione, è nota pratica buddhista di depersonalizzazione.

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Deren  si allontana dalla trama per mostrarci il suo punto di vista:  “Un film dovrebbe essere come una poesia, una ferita profonda di immagini atta a scandagliare  un umore  o a mostrarci le stranezze del mondo che ci circonda” e sembra voler dar ragione a Orson Welles quando asseriva che: “Il cinema è un nastro di sogni”

Un film è così usato come mezzo artistico piuttosto che veicolo per stelle del cinema, o storie o azioni. Deren sembra voler rifarsi alla prima avanguardia europea di  produttori cinematografici come  Germaine Dulac,  il quale credeva che un film sembrava più ad una forma astratta piuttosto che emozionale di musica. L’indagine psicologica dell’inconscio femminile rigetta esplicitamente la forma lineare del teatro e della letteratura in favore del  modello non-narrativo offerto dalla pittura, dalla musica, dalla scultura e dalla poesia.

Ma chi è Maya Deren?

Maya Deren è il nome d’arte di Eleanora Derenkovskaja, nata a Kiev nel 1917, pochi mesi prima dello scoppio della rivoluzione d’Ottobre, in una famiglia ebrea benestante. Il padre era discepolo di Pavlov e svolgeva la sua attività di psichiatra in chiave comportamentista. Molti sono i rimandi psicoanalitici che affiorano nelle opere di Maya Deren che, lei stessa,  definisce influenze paterne.
I Derenkovskij lasciano l’Unione Sovietica per timore di rappresaglie antisemite e per le simpatie trotskijste del padre. Si trasferiscono negli Stati Uniti, dove ottennero la cittadinanza statunitense nel 1928, adottando il cognome di Deren.
Alla Syracuse University, Maya studia giornalismo e scienze politiche e da subito inizia a frequentare i movimenti socialisti newyorkesi, sviluppando forti convinzioni femministe, e ad interessarsi al surrealismo francese. Contemporaneamente, si dedica alla danza e più tardi alla pratica Vudù che con il tempo si trasformò in una vera e propria adesione ai principi spirituali di questa religione. Ad Haiti, Deren partecipa attivamente alle cerimonie e le viene assegnato uno spirito guida, identificato nella dea dell’amore, Erzulie.
Tornata a New York, Deren prese a condurre una vita piuttosto precaria e la sua morte prematura si suppone sia stata dovuta allo stato di debilitazione in cui si trovava. Infatti, pare che la Darren, prima della morte, versasse in una grave situazione economica e di denutrizione e prostrazione psicologica dovute alle difficoltà incontrate durante la produzione dei suoi film, nonchè all’uso di psicofarmaci e amfetamine di cui era diventata dipendente.

 

Enza Armiento