Inediti di Gustavo Bit


GUDEA IL SUMERO

Scrissi sulle rocce inumidite dalla luna
in lettere cuneiformi
con una fioca fiaccola fra i denti
miliardi di parole,
mentre il resto di noi correva giù alle spiagge, rossi di vino,
a rubare ancora un po’ di sole
lungo le palpebre innamorate della notte,
o su cavalli madidi,
pelle seccata dal bagliore delle spade,
raggiungeva il corpo martoriato dell’Asia
-Bocche soltanto. Da capo a piedi-
Le ginocchia iniziano a dolermi anche la notte.
Non è più tempo di dormire.
Alla mia lingua di pietra, in realtà,
sarebbero bastati pochi sciocchi di scalpello
per urlare fino al vomito
“NON VOGLIAMO MORIRE MAI PIÙ”
Il resto
non conta.
Voglio che resti di me soltanto
questa palla di vetro scuro
che come una perla maligna
mi è cresciuta negli anni tra il fegato e lo stomaco.

Fui un battito di occhi impauriti
tra le dita dell’Assassino degli universi.

***

IL SAPORE DEL VENTO

Eravamo un pugno di bocche
luminose
rese miti dal vino di casa che sapeva di botte,
e dal sole che ci invadeva le campagne come un magma dorato
avvinghiato agli steli del grano.
Stracci senza ricamo,
appesi a un filo, ad asciugare:
ci lasciavamo accarezzare dal vento.

Noi bambini si giocava a impastare pizze di fango…
come se ve ne importasse qualcosa…
vi sarebbe venuto un tumore d’invidia
a vederci giocare in un tale spettacolo.

Poi
(avevo cinque o sei anni,
non ricordo più bene:
“una storia di catene,
bastonate,
e chirurgia sperimentale”)
il vento
si fece sottili fili di catrame
viscido;
i grilli, il fango, il grano,
si fecero cemento.
E così vidi mio padre accasciarsi sul bancone di una portineria.
Eserciti di condòmini grigi, dal viso gonfio,
avviluppati, incastrati, sfatti
dietro i loro “ciao, buongiorno!
E l’aria di periferia
iniziò a impastarsi alle mie vertebre.
E il cemento divenne il mio nido.
E amo,
amerò per sempre,
quel nido di cemento.
Ma a che prezzo?
Mia madre dovette imparare
tutti numeri degli autobus a memoria.
Il 118,
ancora oggi
ancora in questo momento
in cui mi concedo il lusso di stare scrivendo,
la porta a lavare i cessi di una vecchia arpia.
Dai suoi insulti, dalle sue prepotenze, dalla merda incrostata del suo gabinetto
(“perdio, Mariella, un po’ di delicatezza
con quelle mani da contadina, perdio, non mi graffi il muso di muflone francese”)
ne ricavavamo pane e fegato,
cipolle e un po’ di tonno in scatola.
Ma non credete si morisse di fame.
La retorica poetica spesso diventa ridicola
quando la si rimane troppo tempo ad osservare.

Ma la domenica,
come un gruppo di piccoli Heidi dalle facce paffute,
ritornavamo tra le montagne.
Tra quelle rocche di calcare millenario.
Tra gente un po’ più vera,
un po’ più scura.
E appena scesi dalla nostra Fiesta,
tutta bella sgarrupata,
spalancavamo come ossessi le labbra,
tiravamo fuori tutti i nostri centimetri di lingua
e ci mettevamo impazienti a rileccare
il sapore del vento.

***

Nelle orbite vuote dell’universo
un Occhio
si gonfiò come un tumore
(o un frutto
se preferite).

Divaricato nell’oscurità fino a sanguinare,
non credette a sé stesso
quando chinatosi sulla propria pupilla
si vide scolpito negli atomi,
come un qualsiasi sasso di fiume.
Si sentì
ripugnante al cospetto degli idoli.

Avvolto nel suo orgoglio squarciato
conficcò una ciminiera nel deserto
e prese a danzarci intorno.
Nel suo utero
soltanto un pulviscolo di asceti
raggrinziti nello sforzo di credersi ancora una larva del Cielo.

***

Quella sera, quando tornammo a casa,
ero sfinita, senza voce.

Il chirurgo aveva buttato le mie corde vocali dentro un cestino
insieme a un tumore grosso quanto una mela.

Bevemmo vodca fino alle due.
Ubriachi ricordammo le notti di Barcellona
e facemmo l’amore.

Di solito, poi, pregavamo insieme
prima di chiudere gli occhi.
Ero io a chiederglielo.
Quella notte
sul retro di una bolletta del telefono poggiata sul comodino
presi a scrivergli “scemo”
quando mi chiese se avessi il piacere di farlo.
E poi mi nascosi nel tempio delle Sue labbra.

***

DUE PENSIERI NOTTURNI DI UN VENDITORE DI AUDIOPROTESI A DOMICILIO (O DI UN BENZINAIO SE PREFERITE)

N.1

Ho sognato le mie ossa.
Luminose.
E il resto del mio corpo,
poggiato di fianco, sul legno marcio di uno steccato,
le fissava inebetito, afflosciato
sui suoi visceri ancora lerci di fame.
Poi, d’un tratto, quel mio scheletro cedeva
sotto il peso di un’insostenibile
l e g g e r e z z a
-un senso di vacuità
simile al pensiero della morte nei giorni di festa-
e prendeva a coagularsi con la matassa eburnea
di altre ossa mai viste prima, luminose
anch’esse: le ossa degli altri.
Dal coagulo emergeva un teschio pensante,
che non incuteva alcun terrore, soltanto
sconfinata tenerezza.
Fumava crack dentro al grembo gelido della Terra
e vedevo che coi denti scavava il cielo
come un forsennato
per giungere in qualche modo
al centro più vuoto e rotondo
della notte.
Cantava, urlava, la sua presenza
in miliardi di voci diverse,
e tuttavia
restava sempre così minuscolo dentro al silenzio attonito
attorno.

Ma adesso devo alzarmi
Le cinque del mattino.
Davanti ho l’inscalfibile superficie degli uomini,
della mia pelle;
e, me ne rendo conto,
il sogno è stato solo una scappatella notturna.

Carla. Carla,
adesso che ci penso.
Il resto del mondo si scioglie in una fanghiglia protozoica
lungo le rovine della sua assenza.
Eppure mi respira a fianco.

***

N.2

Seminerò di sillabe umidicce
la tomba nuda del mio petto
perché ne fiorisca un gregge
incollato
a leccare le ferite del mio culo
preso a calci dalla ruota dentata del mondo.
Pietrificata nel cavo delle loro gole
l’ombra dei miei dubbi
gli illuminerà i recinti,
divamperà in un “AVANTI!”
e il lezzo del mio Ego
arriverà in cielo.
Ti accorgerai nuovamente di me
allora,
Padre?

Invidio le vostre menti.
Le vostre menti immacolate
inarcate
a sgrovigliare le stelle.
Le vostre menti tese
nelle ore del meriggio
e sciolte nel tepore della sera.
Vi invidio senza pace.
Sono una lucertola che aspetta
sdraiata
di fronte alle bufere del pianeta.

****

Mi chiamo Gustavo Bit (anche se questo non è il mio vero nome) e sono nato nel 1990. Sono Siciliano e ho vissuto sei anni al Nord dove ho studiato Medicina (cosa che continuo a fare con scarsi risultati). Scrivo poesie da quando avevo 12 anni. Ho partecipato ad alcuni concorsi quando ero più giovane, per poi rendermi conto dell’inutilità della cosa:si scrive per sé stessi e per l’umanità, ma al di fuori della logica della competizione. Non ho ancora pubblicato un libro anche se sto lavorando a una raccolta poetica. I miei artisti preferiti sono Eliot e Majakovskij.
Nel 2014 ho avuto una frattura psicotica da cui mi sono quasi del tutto ripreso. Questo evento ha lasciato una traccia indelebile in me e molte delle mie poesie di questo ultimi anni parlano della malattia mentale come zavorra dell’anima ma anche come possibilità di riscatto. So perfettamente cosa vuol dire essere vittima dello stigma sociale a causa dell’essere un malato di mente ed è per questo che ci tengo al mio anonimato.
Sono tendenzialmente un anarchico e perciò abbastanza critico nei confronti della società capitalistica, anche se ne mangio i suoi frutti acerbi con grande soddisfazione. Dunque, oltre che essere anarchico sono anche un bugiardo e un ipocrita. Ma bisogna distinguere sempre colui che scrive dal personaggio che traspare dai suoi scritti e dunque spero perdonerete questa mia incoerenza.

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