ILLUSELFISMO – LA FRUSTRAZIONE ANATOMICA DELL’HOMO SELFIE


mondo selfie

Foto di WSF

“Io sono la forma – la cui conoscenza – è illusione” (da Petrolio, Pier Paolo Pasolini)

AVVERTENZE: L’articolo che segue non è un articolo, è una selfie alla selfie. Qualcosa di estremamente inutile ed utile allo stesso tempo. Pertanto si consiglia il pubblico che dovesse ritenersi senza selfie, di scagliare la prima posa, prima di continuare.

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Ai Weiwei su Instagram – ovvero l’importanza di chiamarsi Ai


Se non avete ancora seguito su Instagram Ai Weiwei, forse è arrivato il momento di farlo. Se non lo conoscete, sarebbe un ottimo modo per iniziare a conoscerlo. Dal 2011 continuamente posta foto della sua vita. E’ un artista eclettico, sembra voler sperimentare tutto, parola d’ordine Armonia e i social network ed internet devono farlo proprio impazzire. Tagliare i capelli, giocare col figlio, inquadrare i suoi gattoni rossi, farsi la doccia. Le instafoto quadrate, non hanno bisogno di tante parole, arrivano e le sue, sempre brillanti. Anche questa è social arte. Impossibile scambiarlo per un bimbominkia. Le autorità cinesi hanno chiuso il suo blog, lo hanno incarcerato per 81 giorni, lo hanno reso vittima di assalti della polizia notturni, libertà vigiliata, condannato a 12 milioni di yuan con revoca della licenza a commercializzare le proprie opere e bloccato in Cina… Ma lui continua, la sua vita, la sua arte, anche su instagram, su twitter, “imprigionandoci” un mistero. “Hey ci sono! Sono vivo! Non mi fermerete: La vita è inevitabile.” Devo dire che è un ottimo motivo per aprire Instagram almeno una volta al giorno. Domenica ha postato delle manette rosa con scritto Ai Weiwei e poi un ricordo di Lou Reed, appena scomparso, mentre faceva Tai Chi. Spesso mi capita di chiedermi, cosa starà facendo Ai? E’ davvero un simpaticone, credetemi, posta le sue pose con assoluta disinvoltura, il suo faccione è bello, scomodo, è fulcro della sua arte e lui lo sa. Ride e deride i suoi antagonisti. Usa qualsiasi canale popolare per raggiungere il suo scopo: arrivare a chiunque, testimoniare, trasformarsi lui stesso nel messaggio di cui si fa portatore, su tutti i canali possibili: si può fare. Si può denunciare. Nascondendosi dietro a un gatto… Si può essere individui e averne il diritto, si può vivere liberamente. Si può essere Arte. Fatelo con lui.

Nessuno snobismo da questo artista architetto cinese, potreste benissimo trovarvi un retweet da parte sua (@aiww)! In rete si trova davvero di tutto: lui che si riprende 24 ore su 24 stile grande fratello per denunciare il governo cinese che lo spia, la canzone con cui denuncia il suo arresto, o addirittura, se ve la ricordate, la parodia del tormentone Gangnam style, vestito di nero con una tshirt rosa, meglio di qualsiasi pop star, muovendo le mani a ritmo di manette… chiaramente subito bloccata dal regime cinese, ma troppo tardi per non essere vista… potete rivederla qui Poco dopo Anish Kapoor diffuse, in supporto al collega cinese, un’altra versione della stessa parodia il “Gangnam of freedom” in suo onore… ovvero quello dei diritti umani, eccolo (Durante la visione, si consiglia di muovere le mani allo stesso modo indicato nel video).

Si può fare arte a qualsiasi costo e riuscirci? Se ti chiami Ai Weiwei, hai un accesso ad internet ed un buon server…sembrerebbe proprio di sì. Nulla sembra in grado di fermarlo.

Insomma seguirlo ne vale davvero la pena, tutte le mattine mi ricorda lo sforzo dell’essere umano, verso qualsiasi essere umano, che si è come semi di girasole in un mare di semi di girasole, inevitabilmente diversi, uguali ed unici.

Ecco alcune foto da Aiww su instagram , seguilo!

GRAVITY – Ma dove si sogna? – Recensione del film


 Questa è la storia di un abbaglio. Si sa, nello spazio può capitare, tra un’aurora boreale e uno sciame di meteore, per chi ama le profondità dell’Universo è facile accecarsi. Come è successo a me quando ho visto il trailer di Gravity. Tra l’altro un bellissimo trailer, veloce e completamente aperto. Devo ridirlo, trailer bellissimo, tanto che sono corso a vederlo non appena uscito. In giro ho letto “come 2001 Odissea nello spazio” e altre minchiate simili, ma in realtà io avevo un altro pensiero fisso. Prima di vederlo. Pensavo a Major Tom di David Bowie, alla deriva nello spazio quando dice, perdendo per sempre il segnale radio con la torre di controllo:

 
 
Malgrado sia lontano più di centomila miglia,
mi sento molto tranquillo,
e penso che la mia astronave conosca quale strada prendere
dite a mia moglie che la amo moltissimo
lei lo sa
Torre di Controllo a Maggiore Tom
Il tuo circuito si è spento,
c’è qualcosa che non va
Puoi sentirmi, Maggiore Tom?
Puoi sentirmi, Maggiore Tom?
Puoi sentirmi, Maggiore Tom?
Puoi……
Sono qui che galleggio
attorno al mio barattolo di latta,
lontano sopra la Luna,
il pianeta Terra è blu
e non c’è niente che io possa fare
(ascolta Space Oddity di David Bowie qui)

Cosa passerà mai per la testa di Major Tom? Guardando il trailer di Gravity, quell’astronauta che viene scaraventato alla deriva da uno sciame di detriti, ho pensato che quel film avrebbe potuto mettermi in quella tuta, come un uomo qualunque che oltrepassa i propri limiti e scopre la sua interiorità. Una specie di Sisifo, un po’ meno astuto, che sfida se stesso e i suoi preziosissimi lontani ricordi. Mi sono illuso di poter vedere dove era andato a finire Major Tom.

Invece il trailer è tutto quello che succede nel film: durante una passeggiata spaziale in orbita intorno alla Terra, gli astronauti vengono colpiti da uno sciame di detriti, che provocano la distruzione dell’astronave e la deriva dei due sopravvissuti. Il film prosegue coi soli tentativi rocamboleschi dei due astronauti che cercano di salvarsi facendo su e giù tra le altre stazioni orbitanti e i detriti che arrivano piano piano come coriandoli e li colpiscono ogni 40 minuti. Scena degna di nota: Sandra Bullock che usa la spinta dell’estintore per muoversi nello spazio e raggiungere una fantomatica stazione cinese anch’essa prossima al collasso… Del 3d, a parte una lacrima furtiva che  usciva dallo schermo in una danza da lago dei cigni dei noantri, non mi sono accorto più di tanto,  perché la pellicola era davvero piatta… pare che Gravity (con sopra pure George e Sandra) galleggerebbe anche quaggiù a Terra, senza peso.

Una curiosità sull’alta tensione di cui si parla tanto: per tutto il film la faccia di George Clooney è sempre serena, stampata e distesa, come se stesse passeggiando col cane su Sunset Boulveard dopo aver bevuto un frappuccino. – Certo – direte voi – è un cane che tira parecchio il guinzaglio. Guardate.

Avvertenze: se vi piace sentirvi nello spazio, su youtube si trovano video anche più spettacolari, o seguendo su twitter @astro_luca (Luca Parmitano, l’Astronauta Italiano a bordo della Stazione orbitante Iss) si traggono più emozioni, soprattutto umane e in diretta con i suoi continui tweet di foto mozzafiato, di quanto siamo piccoli in un brodo infinito e meraviglioso. E sono gratis. Per i meno tecnologici un telescopio può essere più utile.

Insomma finisci il film ed è come quando vedi un superattico di 8mq compresa cucina e bagno, senza letto, ma con una finestra che guarda su un bel parco. Per carità, panoramico, ma dove si sogna?

Costo onesto del biglietto per vedere questo film sarebbe stato: 1 euro, solo perché il trailer e la locandina meritano.

«Houston, ho un brutto presentimento» (Il mantra di George Clooney nel film)

Che la Fantascienza è roba un po’ più seria…

Azioni frustrate, gesti futili. Ogni realtà è un inganno.


Frustrated Actions and Futile Gestures, Bill Viola

Ogni giorno si compiono migliaia di scelte, la somma di tutte queste con  la resistenza che la nostra mente gli pone, forma la realtà, una finzione indiscutibile e involontaria come l’aria. La domanda intrinseca in questo articolo, in cui mettiamo in evidenza alcuni artisti dal cinema al teatro, dalla videoarte alla poesia, è la seguente. Siamo tutte queste azioni tanto utili e futili allo stesso tempo? O è nel peso di questa fragilità che fuoriesce il sentimento inteso come tutti i sentimenti e il loro contrario? Insomma nell’era digitale, in cui abbiamo prova continuamente di quanto si possa creare dall’inesistenza e di quanto si possa attingere dall’esperienza non materiale e non spirituale, ha ancora senso porsi queste domande? E in che modo dovrebbero essere sviluppate per diventare arte? Questo percorso si muove dalla videoarte di Bill Viola, dove si mette sott’acqua proprio questa fragilità, passando per il teatro di Pirandello che diventa il mondo dove tutto si svolge, guardando con gli occhi innamorati di Cortazar, fino alla voce soffusa di un narratore che si chiama Realtà nel film di Godard, per terminare con la bellissima scena “Dia ancora qualche minuto agli uomini” del film di Kubrick.

Ancora qualche minuto Signore!

(tempo medio per fruire del seguente articolo, silenzi compresi, <10min)

Bill Viola, Frustrated Actions and Futile Gestures

“Conosco Tizio. Secondo la conoscenza che ne ho, gli do una realtà: per me. Ma Tizio lo conoscete anche voi, e certo quello che conoscete voi non è quello stesso che conosco io perché ciascuno di noi lo conosce a suo modo e gli dà a suo modo una realtà. Ora anche per se stesso Tizio ha tante realtà per quanti di noi conosce, perché in un modo si conosce con me e in un altro con voi e con un terzo, con un quarto e via dicendo. Il che vuol dire che Tizio è realmente uno con me, uno con voi, un altro con un terzo, un altro con un quarto e via dicendo, pur avendo l’illusione anche lui, anzi lui specialmente, d’esser uno per tutti. Il guajo è questo; o lo scherzo, se vi piace meglio chiamarlo cosí. Compiamo un atto. Crediamo in buona fede d’esser tutti in quell’atto. Ci accorgiamo purtroppo che non è cosí, e che l’atto è invece sempre e solamente dell’uno dei tanti che siamo o che possiamo essere, quando, per un caso sciaguratissimo, all’improvviso vi restiamo come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell’atto solo.
«Ma io sono anche questo, e quest’altro, e poi quest’altro!» ci mettiamo a gridare.
Tanti, eh già; tanti ch’erano fuori dell’atto di quell’uno, e che non avevano nulla o ben poco da vedere con esso. Non solo; ma quell’uno stesso, cioè quella realtà che in un momento ci siamo data e che in quel momento ha compiuto l’atto, spesso poco dopo è sparito del tutto; tanto vero che il ricordo dell’atto resta in noi, se pure resta, come un sogno angoscioso, inesplicabile. Un altro, dieci altri, tutti quegli altri che noi siamo o possiamo essere, sorgono a uno a uno in noi a domandarci come abbiamo potuto far questo; e non ce lo sappiamo piú spiegare.
Realtà passate.
Se i fatti non son tanto gravi, queste realtà passate le chiamiamo inganni. Sí, va bene; perché veramente ogni realtà è un inganno. Proprio quell’inganno per cui ora dico a voi che n’avete un altro davanti.”

Uno nessuno e centomila, Pirandello.

IL FUTURO,

E so molto bene che non ci sarai.
Non ci sarai nella strada,
non nel mormorio che sgorga di notte
dai pali che la illuminano,
neppure nel gesto di scegliere il menu,
o nel sorriso che alleggerisce il “tutto completo” delle sotterranee,
nei libri prestati e nell’arrivederci a domani.

Nei miei sogni non ci sarai,
nel destino originale delle parole,
né ci sarai in un numero di telefono
o nel colore di un paio di guanti, di una blusa.
Mi infurierò, amor mio, e non sarà per te,
e non per te comprerò dolci,
all’angolo della strada mi fermerò,
a quell’angolo a cui non svolterai,
e dirò le parole che si dicono
e mangerò le cose che si mangiano
e sognerò i sogni che si sognano
e so molto bene che non ci sarai,
né qui dentro, il carcere dove ancora ti detengo,
né là fuori, in quel fiume di strade e di ponti.
Non ci sarai per niente, non sarai neppure ricordo,
e quando ti penserò, penserò un pensiero
che oscuramente cerca di ricordarsi di te.

Julio Cortazar

Godard, Due o tre cose che so di lei

“Dia ancora qualche minuto agli uomini”

Stanley Kubrick, Orizzonti di Gloria

Ad Vivum – In anteprima per WSF, Giuseppe Lo Schiavo


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Ho immaginato questa serie fotografica come un viaggio temporale, un ponte tra i ritrattisti fiamminghi come Vermeer, Jan van Eyck, Robert Campin e la fotografia digitale. La contaminazione di un mezzo espressivo contemporaneo con un’estetica classica. Ritratti senza espliciti riferimenti temporali, cronologicamente incerti. Ho chiesto ai soggetti di imprigionare un emozione, ma di non rivelarla chiaramente, di essere emotivamente sfuggenti. Soggetti con un’identità da scoprire scrutando tra 3 filtri emotivi, l’espressività del soggetto, la reazione emotiva dell’artista che indirizza la visione e la riflessione dell’osservatore che cerca di individuare cosa del soggetto si voleva cogliere. Nelle immagini convivono luci calde e fredde diffuse e distribuite sui soggetti come nei ritratti fiamminghi. Sculture di ombre dolci, soggetti immobili, duri e lisci come il marmo. Il nome “ad vivum”viene dal latino ed è ripreso dalle incisioni che alcuni pittori inserivano sotto al ritratto per identificare che era stato dipinto dal vivo.

Giuseppe Lo Schiavo, nato nel 1986, fotografo. Una sua opera, Levitation, è attualmente esposta al secondo piano della Saatchi Gallery di Londra. Vanta numerosi premi fotografici ed esposizioni.

Andrea: – Ritratti. Giuseppe, la scorsa estate abbiamo presentato la tua serie “I stay here”, vincitrice della mostra Young at Art, brillante e diciamolo… con i piedi ben piantati a terra. Oggi siamo qui con Ad Vivum, un ritratto completamente diverso, sospeso e metafisico, che vive un tempo improvviso e sconvolto… non una mera sperimentazione, bensì il risultato di un’esperienza coinvolgente. La sensazione esterna è che qualcosa nell’artista si sia sradicato e purificato, verso la costruzione di una fotografia piena, scivolosa e con un linguaggio ruvido. Puoi confermarcelo? Cosa ha influenzato o come hai direzionato il tuo percorso artistico in quest’ultimo anno? –

Giuseppe: – In realtà io sono lo stesso di “I stay here” sempre con i piedi per terra, ma la testa sganciata dal corpo. Il mio percorso artistico non segue una via rettilinea, ma caotica e imprevedibile, cambio spesso, ma non so se si possa parlare sempre di evoluzione. Sicuramente nei primi lavori, come hai detto tu per “I Stay here”, avevo la necessità di una fotografia molto più diretta, univoca, con un messaggio chiaro e provocatorio. Ad Vivum ha un approccio più intimo, era un’idea che curavo da tempo dentro di me, era partita diversa, malata di confusione. Quindi ho aspettato, piano piano il tempo la curava, la rendeva snella e ad un certo punto me l’ha presentata pronta per essere sviluppata. Tecnicamente non è stato semplice anche se l’atto finale di fotografare è stato quello più veloce, solitamente quando arrivo al momento di scattare in mente io già sto scegliendo la texture della carta. –

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Andrea: – Quindi vuoi dirmi che anche nella fotografia digitale lo scattare la foto è solo l’inizio del processo creativo, che poi continua la sua trasformazione fino alla materia, diventando oggetto scolpito, reale e tangibile che deve soddisfare l’aspettativa di qualcuno…

Giuseppe: Nel mio caso si, inizia il processo che io definisco “pittorico” perché in base al carattere della fotografia scelgo la tecnica di stampa che più mi soddisfa, dalla stampa Giclèe a quella Lambda il gioco è scegliere l’inchiostro che segnerà la carta. È una fase che amo, perchè è l’unico momento dove puoi avere un confronto tangibile con quello che hai creato. Poi scelto il numero di esemplari da stampare della stessa foto, la tanto decantata edizione, si passa dal corniciaio. Mi sento come mastro Geppetto, ogni stampa finita è un oggetto con una sua vita propria e una sua personalità. Due settimane fa ho spedito una stampa compresa di cornice ad Istanbul alla galleria MixerArt, erano i giorni peggiori per gli scontri a Piazza Taksim, ho voluto renderla partecipe di quel momento storico scrivendo dopo la mia firma uno dei simboli che hanno aiutato la diffusione della protesta #OccupyGezi. La foto è arrivata in galleria completamente distrutta, sarà di sicuro un caso, ma mi piace pensare che sia stata vittima anche lei di quei giorni di attentati alla democrazia.

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Andrea: – Ti sembrerà assurdo, ma guardando le tue foto, la cosa che frastorna di più, è questo silenzio scolpito, che sembrano emanare, quasi muto, raffermo… inonda tutti i contorni. Ho provato un senso di pietà, assolutamente neutro, ma umano ed intimo. Come ci sei riuscito? –

Giuseppe: – La parte più delicata era proprio comunicare attraverso altre persone, sono stato più regista che fotografo, non era facile far capire gli stati d’animo che volevo cogliere. Avevo bisogno di sguardi vivi, intimi e sfuggenti e di lasciare molte finestre aperte a chi si confronta con questi ritratti. Ho mescolato le radici del ritratto con la tecnica della fotografia digitale intraprendendo un dialogo muto con il tempo. Volevo dei ritratti duri come il marmo, vivi e fragili come il legno e senza tempo come il rame. –

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Andrea: – Cosa ti ha portato a scegliere proprio i ritratti fiamminghi per contaminare i tuoi ritratti? Ho l’impressione che la scelta delle “Ragazze con l’orecchino di perla” non sia stata facile –

Giuseppe: – I ritratti fiamminghi hanno rivoluzionato l’arte del ritratto non soltanto perché hanno inserito nuovi modelli estetici, poi diventati canoni per quasi tutti i momenti artistici successivi, ma perché hanno portato l’arte del ritratto a tutti gli strati sociali, diventano laici, liberi ed estremamente espressivi. I ritrattisti fiamminghi sono stati i primi fotografi senza macchina fotografica, utilizzavano la camera oscura, basta guardare alcune opere di Vermeer dove è presente la profondità di campo con curiose sfocature tipiche del mezzo fotografico. La selezione delle ragazze è stata lunga, l’ho curata con la mia assistente e stylist Danizza della Vecchia e con l’aiuto di Giovambattista Scuticchio Foderaro, che ha creduto nel progetto e mi ha dato carta bianca sulla scelta delle ragazze nella sua agenzia. Ragazze diverse, dalla fiamminga vera alla ragazza albina di origini africane. –

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Andrea: – Una domanda che avresti voluto che io ti facessi? –

Giuseppe: – Cosa ci fai ancora in Italia se la maggior parte dei riconoscimenti li hai ricevuti all’estero? –

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AD VIVUM

L’intera serie fotografica si trova qui: http://www.giuseppeloschiavo.com/portfolio/uncategorized/advivum/

Fuori Menù 6: Diario di Viaggio – Dieci passi in Islanda


Vatnajökull

Vatnajökull Glacier

Primo passo #Islanda non ritorno

Quando Daniele mi disse “buon ritorno amico mio” sapevo a cosa si riferiva. Ritornare è un verbo spesso sottovalutato, soprattutto quando si tratta di un viaggio. Impossibile ritornare davvero da qualche parte, puoi crederci certo, ma non ci tornerai. Tu e quel posto non esistete più. Ritornare significa solo proseguire, riprendere un discorso interrotto, un viaggio di qualcun altro. Mi tuona in testa Saramago, nelle parole di Daniele, che voleva dirmi questo: “Buona fortuna”. Fortuna, per questa specie di vulcanesimo che esplode nell’islanda di tutti, con l’avvicendarsi di non luoghi e non persone e poi subito di luoghi, estremi e di persone, poche e giganti. Bisogna trovarcisi. Qui. E poi ero incollato al volante sbigottito, mentre “ritornavo”. La strada dall’aeroporto per Reykjavik è lunga un’ora di distese di lava nera, sulla destra e lingue di mare, sulla sinistra, che fortunatamente non parlano islandese. Takk. Ritornare è un verbo kitsch, qualcosa che ha più a che fare con il lessico familiare che con la letteratura. Qualcosa che non parla davvero. Ma stavolta parto soltanto da Reykjavik. Primo giorno è il giorno dei ricordi, “sono già stato qui, caro vecchio io, non mi tormentare, non esisti”, da domani, continuando verso nord, inizierò a ricordare in avanti. Ora spengo la luce, che qui, oggi, sembra incapace di morire.

Secondo passo #Dialogo di un italiano con il muschio. Dallo Snaelfness a Breidavik.

“Lo spirito viene dal corpo del mondo.O così pensava Mr. Homburg… La maniera della natura colta in uno specchio. E lì diventa la materia di uno spirito. Uno specchio pullulante di cose che vanno fin dove possono.” (Wallace Stevens)

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Breidavik

Quello che non bisogna volere nella propria Islanda è chiedersi chi o cosa stia conducendo questo viaggio. Voglio dire. Dopo chilometri e chilometri di sterrato lunare e nebbioso, a chi importa? Oggi camminando a piedi nudi sulla riva di Breidavik e poi tra i sassi e la tundra, mi sono ricordato che qui esistono due sole scelte. Quando arrivi nella tua Islanda, devi scegliere uno dei due sensi disponibili, orario od antiorario e poi dove dovranno finire ognuna di queste tue intramontabili giornate di luce.

“Era là, parola per parola, la poesia che prese il posto del monte” (Wallace Stevens)

Ore 22.40 la luce ancora mi cade giù dal costone altissimo sulla riva del mare, dalla riva alla spiaggia e dalla spiaggia alla mia finestra. La montagna di fronte sembra una cascata di sassi, perfettamente squadrata. Le montagne della tua islanda sono schiacciate ed in continuo movimento, mi chiedo se anche io non abbia quella stessa inesauribile fonte di pietre e pietriciattole da lasciar scivolare addosso…Ho scritto una cazzata:

Il giorno in cui non ero mai stato
camminavo senza scarpe,
senza piedi, senza gambe,
camminavo, stempiato
come un orologio su se stesso.

Oggi ho guidato la mia prima gravel road, ero come la superficie di un compact disk durante la cancellazione totale.
Sono stato di fronte ai quattro vulcani, io e loro. Muti. Il vento in un rispetto costante, scendeva amichevole a schiarire le nebbie, ero io il vulcano più pericoloso per la mia Islanda.

Sai.
Credo di essere questo fiordo, tutto silenzioso, senza anima viva, appena sotto il circolo polare, tutti i giorni ad aspettare la nebbia.

Terzo passo #Io, strapiombo sull’oceano. Presso Isafjordur.

C’è una sapienza innata nelle strade sterrate dei fiordi del nordovest, fai decine di chilometri per ritrovarti esattamente nello stesso punto, ma di fronte, nel lato opposto del fiordo. In un’altra Islanda faresti ironia sull’utilità dei ponti, ma non nella tua, dove strade di ciottoli a strapiombo su valli incantate, sono esattamente quel che ti aspetti: assenza del tempo e dei suoi effetti sulle tue scelte.

Ho avuto la stupida idea di chiedermi come fa l’oceano ad entrare con le sue lingue lunghestrette dentro la terra e a squarciarla, come fosse un amante che minaccia la solidità dell’amato, travolgendolo. Deve essere il pesce secco di cui continuo a cibarmi.

Devo ricordarti anche che quando sono arrivato ad Isafjordur, ho deciso che non sarà lei la capitale della tua Islanda. Troppo modesta , sul suo piccolo istmo, non vuole competere col paesaggio che la accerchia. Sarà solo un luogo di passaggio. Un momento di sopraffazione. Domattina ti alzo presto, vediamo se Akureyri è la tua città.

Quarto Passo #Ciò che non siamo ciò che non vogliamo. Da Isafjordur ad Husavik

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Dettifoss

“Non puoi percorrere la via prima di essere diventato la via stessa” (Gautama Buddha). Ok. Neanche Akureyri è la tua citta’. La strada percorsa da Isafjordur è stata interminabile, tanto quanto l’intensità del paesaggio con cui hai stancato gli occhi. Qualcuno guidava, forse io. Akureyri non era nessuno, è stata una sosta tecnica dell’Io. La mattina dopo la tua Islanda era di nuovo riposata e ad Husavik ho trovato la tua casa. Un cottage davanti ad un lago, l’oceano poco più in là che si confonde sotto una fascia di vette biancastre, tutto avvolto da questa coltre silenziosa che mi insegue. Senza ombra di dubbio entrambi eravamo quel luogo.
“Ma la nostra natura consiste nel movimento, la quiete assoluta è morte” (Pascal). Non sarà una casa da abitare, ma da ricordare di aver abitato. Dovrai protrarre questo ricordo all’infinito, il domicilio è una condizione mentale. Sarà il tuo miglior rifugio ed io ti aspetterò lì.

Quinto passo #Gli uomini sono silenzi. Geotermici. Presso Lake Myvatn e Krafla Volcano

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Krafla

Il mistero di un vulcano è che in esso non c’è alcun mistero. Siamo fatti della stessa pasta. Cenere, vapore, scoppi fuori, scoppi dentro, quiete, campi di lava, macerie. Abbiamo anche quello stesso strano condotto, quello interiore, che ci tiene profondamente a terra, quello che parte dalla camera cranica, correndo lungo la dorsale, fino a piantare i piedi. Oggi ho camminato i tuoi crateri fumobollenti, mi sono immerso in questa tua acqua primordiale, ho respirato quell’odore precario della Terra viva e mi sono sentito stanco, incapace di gestire tutta quel’energia.
Non riesco proprio a trovarla questa tua Islanda, ché quando me ne approprio, non è più tua.

“Vado, sebbene piano” (Proverbio Islandese)

Sesto passo – Tutti i nomi. Presso Seydisfjordur, East Iceland –

Soggiornare in un villaggio di 500 anime, di cui puoi percepirne solo una ventina, schiacciato al fondo di uno stretto fiordo lungo 17 km e dotato di nuvola perenne propria che, come programmata, si stende ogni giorno alla stessa ora, sulle strade e poi si rialza, fingendo di andarsene, ripiegando dietro la montagna, spiega l’idea dell’inutilità dei cognomi in questa Islanda. Qui ci sono solo nomi. Accanto ai nomi dei figli, i nomi dei padri. Ma solo nomi.
Nella tua Islanda non ci sono veri abitanti. Quelli che vedi sono prestati a questo luogo, come di fermo passaggio, non mettono radici, no dinastie o mafie. Solo una sopportazione, una calma lunare, la sublime bellezza dell’essere in balia di questo territorio così individuale, così intellettuale, da sembrare disumano e troppo umano.

Nella tua Islanda ci sono solo altre 300.000 solitudini.

Settimo passo #Il principio di scongelamento. Presso Vatnajokull, Iceland

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Jokursarlon

Oggi mentre scattavo una foto all’Alcoa, una fabbrica lunga due chilometri, serenamente adagiata in un fiordo dell’est, con la naturalezza di una cascata o di un banco di nebbia, ho riflettuto sulla cosa più sconvolgente di questo viaggio: continuo a darmi del tu. Parlo ad un me esterno, che seppur fabbricato, sta qui con la naturalezza del fiordo e della fabbrica. Devo ricordarmi di raccontarti della laguna che ho visto stasera, Jokulsarlon. Quella creata dall’incontro del ghiacciaio Vatnajokull con l’Oceano. Due masse che si combattono. Tu non sei l’oceano, bensì quei cento iceberg che mi frantumo per non diventare acqua. Il risultato è questo enorme lago pieno di sculture di ghiaccio multiformi, ognuna un Io. Ma forse tu sei anche altro. Il problema è la contemporaneità. Se tu sei me, mentre io sono te, avremo sempre delle difficoltà di comunicazione. Eppure una cosa è certa, senza di me non ci sarebbe la tua Islanda, mentre la mia, la mia continuerebbe a perdere iceberg nell’oceano, credendola un’arte.

Ottavo passo #Segretolando. Presso Skaftafell, South Iceland
Sotto di me, enorme e sordo il ghiacciaio Vatnajokull. Sono diverse ore che cammino, ma questa vista mi riposa. Lingue che sembrano fiumi fermati da un patto col tempo e quel senso di segretolamento. Un giorno di camminata nella tua Islanda è una scalata in me stesso. Ho paura che tutti i sentieri della mia vita siano circolari, anche se cerco di percorrerli fuori strada.
Sento che questa mia Islanda è di nuovo quel non luogo che tendo ad abitare quando sono in tutti i luoghi. Sento. E non voglio più farla tua.

“I viaggi sono i viaggiatori. Quello che vediamo non è quel che vediamo, bensì quel che siamo” (Pessoa) o quel che resta, tentando di essere, a imbellettare il paesaggio.

Nono passo #Sono il raggio di un cerchio. Presso Reykjavik
Se qui non si ritorna mai, tantomeno si torna dalla tua Islanda. Anche dopo oltre 3000 km di strade in buona parte sterrate. Non si torna. Resterai a percorrere questo cerchio di vie da Reykjavik ai Fiordi Occidentali, fino a quelli orientali, passando per il grande nord per poi riscendere a sud, se qui esiste un sud, a frantumarti come i ghiacciai e a sentirti un po’ come uno di quei vulcani che di tanto in tanto si devasta intorno e poi di nuovo. Piste e piste nude come la terra che le circonda. Reykjavik, fiordi, nord, sud. Non si torna.
“Il viaggio non finisce mai” ma caro Saramago, questo viaggiatore non è ancora finito. Il viaggio ricomincia sempre.
Lo dicevo oggi, affacciato sulla faglia Eurasia/America. Io, solo, forse, torna, e Reykjavik stasera è una festa.

Decimo passo #Data Sconosciuta. Presso Nowhere. La tua Islanda. Giorno Zero.

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Statale 1

Ho ricominciato il giro. Stavolta non posso che raccontarti subito delle strade della tua Islanda, quando diventano improvvisamente sterrate, a volte appena battute. C’era da aspettarselo, sai, le vie sono quel margine umano che ti infastidisce, qui. Dove la nebbia è l’incapacità di ricordare indietro. Objects in mirror are closer than they appear. Ti ripete lo specchietto.
Sulle piste a fondo quasi naturale, si va in prima, a volte in seconda; non guidi davvero tu, è la strada che guida, tu correggi solo, quell’andare caotico, cerchi di umanizzarlo. Quando l’islanda ti dice che stai correndo, è lei che, tra mille tremolii, ti toglie la marcia, lasciandoti in folle, acceleri a vuoto, ti fermi. Rimetti la prima, superi quel momento ondulatorio, spinto, dello sterrato, tremoli un po’ anche tu, ti sistemi il sedile. Ti guardi intorno. Sei quel paesaggio lunare.
E poi riparti.
Non hai mai guidato così bene.

Non passo #Contenuti speciali

Soundtrack indigena consigliata in Islanda:

– Of Monster and Men

– Sigur Ros

– Seabear

– Amiina

– Mum

Per le foto presenti nell’articolo si fa espresso riferimento alla licenza di WSF

VIVA LA LIBERTÀ di Roberto Andò – RECENSIONE


Viva la libertà

CAST: Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Valeria Bruni Tedeschi, Michela Cescon, Anna Bonaiuto, Eric Trung Nguyen, Judith Davis, Andrea Renzi, Gianrico Tedeschi, Massimo De Francovich.

Mentre l’Italia si arrovella, più o meno consapevolmente, nelle elezioni più importanti degli ultimi 20 anni, questo film silenzia di fatto l’intera campagna elettorale a cui abbiamo assistito in questi mesi. Imu, Irpef, Iva, Pil, sigle che cambiano la vita delle persone, affrontate senza alcun tipo di ritegno, passione o contenuto, sbandierate come fossero prive di sacrificio. No. Ci voleva il pazzo shakesperiano, ideato da Roberto Andò, con la meravigliosa (doppia) faccia di Toni Servillo a riabituarci ad un vocabolario accessibile del linguaggio politico (purtroppo è solo Cinema…ragazzi), a fornirgli quello slancio di speranza e di cultura di cui i cittadini avrebbero davvero bisogno. Parole tanto lontane dal populismo, quanto a loro modo vicine, nella semplicità colta di un linguaggio che è l’appartenenza, che è stato spazzato via e si rifugia indifeso, ora, complice, nell’antipolitica. Nello stomaco dell’anti-se-stesso. Viva la libertà suona infatti quasi come un eufemismo. “Lo sai com’è fatto questo paese” “Alla gente piace anche la merda, ma non per questo bisogna dargliela” “Se i politici sono mediocri, i loro elettori sono mediocri, se i politici sono ladri, i loro elettori sono ladri” (dal film).

La scena si apre teatrale, grigia, con Servillo nei panni di Enrico Olivieri, leader dell’opposizione, che si prepara all’ennesima contestazione pubblica. I sondaggi lo danno per spacciato e anche nel partito i malumori crescono, sempre più decisi a spodestarlo. Enrico, ormai depresso, decide quindi di scomparire. Se ne va di notte in gran segreto a Parigi, da una donna conosciuta vent’anni prima. A Roma, mentre il partito si interroga sulla misteriosa scomparsa del segretario, il suo assistente personale, Andrea Bottini, rintraccia Giovanni, il fratello gemello (sempre magistralmente interpretato da Toni Servillo) che in maniera casuale e divertente, diventa la soluzione al problema spacciandosi per Enrico, senza che nessuno si accorga della differenza, perlomeno fisica. Già perché il fratello è un filosofo, folle e bipolare, appena uscito dal manicomio, autore di un libro intitolato “L’Illusione della realtà”, talmente geniale ed ironico da riuscire a diventare quel leader platonico e poetico che Enrico non sarebbe mai stato, risvegliando anche gli elettori più intorpiditi e conquistando tutti, persino la moglie e le persone più intime. Ve lo immaginate un leader che recita, appassionato, Bertolt Brecht alla sua piazza San Giovanni gremita, commuovendola? Ecco andate a vedere il film per averne idea.

A chi esita. (la Poesia di Bertolt Brecht usata come comizio nel Film)

Dici:/per noi va male. Il buio/cresce. Le forze scemano./Dopo che si è lavorato tanti anni/noi siamo ora in una condizione/più difficile di quando si era appena cominciato./ E il nemico ci sta innanzi/ più potente che mai./Sembra gli siano cresciute le forze, ha preso/una apparenza invincibile. E noi abbiamo commesso degli errori,/non si può più mentire./Siamo sempre di meno. Le nostre/parole d’ordine sono confuse. Una parte/delle nostre parole/le ha stravolte il nemico fino a renderle/irriconoscibili./ Che cosa è ora falso di quel che abbiamo detto?/Qualcosa o tutto?/Su chi contiamo ancora?/Siamo dei sopravvissuti, respinti/via dalla corrente? Resteremo indietro, senza/comprendere più/nessuno e da nessuno compresi?/O contare sulla buona sorte?/ Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta/oltre la tua.

I tempi di questo film sono veloci e vagamente onirici: arrivato alla scena finale speravo dentro di me che fosse effettivamente la conclusione, era il momento giusto per tagliare netto e la doppia interpretazione di Toni Servillo, mediata dal bravo Valerio Mastandrea, ne ha tagliato la pellicola in maniera ancora più precisa, in un sorriso caustico come di chi non ha più identità.

Un viaggio escavatore nella depressione dell’uomo? Forse in una più grande, in una depressione collettiva. La metafora è chiara, agisce per contrappasso, nemmeno tanto velato. L’opposizione in Italia si è flagellata nell’inseguimento della dialettica dell’avversario carismatico, senza mai averne le “doti”, perdendo sul terreno tutti quelli che erano i valori progressisti sul quale era fondata la propria aderenza con la vita delle persone, anzi facendo sì che l’avversario se ne impossessasse, rafforzandosi e li restituisse al panorama politico, svuotati di significato, sminuiti, inutilizzabili. La foto appesa di un altro Enrico, Berlinguer, quasi accusatorio, nella sede del partito, era quel poco che ne rimaneva, come un mito inerte. Cambi di segretari, cambi di nome, cambio di colori, cambio di alleati. La credibilità si è persa nel continuo battibecco pirandelliano (magari) tra la realtà e la finzione con cui abbiamo, tutti, trascinato il Paese in un limbo. Voglio dire che in Italia si è spesso parlato dell’assenza di un “Berlusconi” di sinistra, come fosse una necessità. Per carità. Ecco paradossalmente Giovanni, il fratello di Enrico, pur vestito in maniera assolutamente positiva, veste per un attimo questo sogno aberrante passato per la testa di ognuno di noi e alla fine lo supera! Perché quello che ci era sembrato folle, durante tutto il film, non era un folle, era un politico ideale, anzi erano due, era anche un uomo. I folli siamo noi ed Enrico a non essercene accorti prima.

«Il mio è un messaggio agli italiani: siate onesti, smettete di tingervi» (dal film)

Buon voto.

L’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale. (Pier Paolo Pasolini)

Prospettive: “L’Occhio di Parigi” – Brassai


4x5 originalQuesta è la storia di Brassai, un nottambulo che, nella grande insonnia della Parigi degli anni 30, decise di fotografare quel che accadeva di notte per le Rue. Il suo vero nome era Gyula Halasz, figlio di un docente di letteratura ungherese e di madre armena, nacque in Transilvania, tra le fredde e boscose montagne di Brasov, insieme al Novecento, nel 1899. Studiò a Budapest pittura e scultura, prima di essere chiamato, giovanissimo, nell’esercito Austroungarico per combattere la Prima Guerra Mondiale. Archiviata la Grande Guerra e dopo una breve parentesi a Berlino, nel 1925 emigrò verso il fronte opposto: Parigi. Una città ancora orgogliosa della Bella Epoque, che aveva sventato una invasione ed era pure sopravvissuta ai bombardamenti tedeschi. Fiera e vittoriosa, era adagiata in un tempo sospeso, a cullare nelle sue brasserie, nell’arrondissement di Montparnasse, gli artisti del surrealismo.

Una città illuminata, dove già da molti anni i lampioni non erano più una novità, dove cominciava a risuonare nei vivaci e ambigui locali notturni qualche nota jazz, migrata da oltreoceano nella terzaclasse di una nave arrugginita. Una città  dove partivano deboli i primi segnali televisivi e venivano addiruttura installati i semafori. Brassai, pionere della fotografia notturna, ci ha lasciato una testimonianza unica di queste strade della notte parigina, ed era difficile, all’epoca,  spiegare a qualcuno che uscivi di notte per fare delle foto…Figuriamoci riuscire a farlo diventare un lavoro e un’arte. All’inizio fu infatti vittima di diverse disavventure come scippi, aggressioni e più volte, per scappare, mandò in mille pezzi la macchina fotografica, ma piano piano imparò a muoversi disinvolto e sicuro, tra le vie secondarie e oscure della Bella Paris, come uno di quei signorotti usciti dal balletto, o quel ladruncolo o quel pappone che andava fotografando dopo il tramonto.  La notte di Parigi era tutt’altro che dormiente, animata da prostitute, clochard, amanti, operai al lavoro, forze dell’ordine e gangster, ed i suoi occhi stranieri avevano fatto un patto con questi nottambuli:  inquadrarli tutti nell’eternità.

“Sono stato ispirato a diventare un fotografo, dal mio desiderio di tradurre tutte le cose che mi incantarono, nella Parigi notturna che stavo scoprendo”

E fu proprio a Montparnasse che ampliò le sue conoscenze artistiche fino a trovare lavoro come fotogiornalista presso la rivista Minotaure (avamposto del surrealismo) , dove illustrò un articolo di Salvador Dalì dal titolo: “La bellezza terrificante e commestibile dell’architettura dell’Art Nouveau” e si affermò in breve tempo come  ritrattista ufficiale degli artisti legati alla rivista come Breton, Dalì, Giacometti, Picasso, ecc (in basso)

Senza nome

Era il 1933, stesso anno in cui pubblicò una raccolta di foto, scattate nei suoi viaggi al termine della notte con la sua Voigtlander Bergheil: “PARIS DE NUIT” che gli fece guadagnare il soprannome “L’occhio di Parigi” e destò l’interesse di molti artisti dell’epoca. Un occhio ungherese, immigrato e vinto. A guardarle una ad una,  non sembra difficile capirne il perché.

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“Parigi è come una puttana. Da lontano pare incantevole, non vedi l’ora di averla tra le braccia. E cinque minuti dopo ti senti vuoto, schifato di te stesso. Ti senti truffato.”

Diceva contemporaneamente il suo amico e scrittore Henri Miller, appena trasferitosi a Parigi, in Tropico del Cancro.

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“Mi piacciono gli esseri viventi; mi piace la vita, ma preferisco catturarla in modo che la foto non si muova.”

Lo scopo della fotografia di Brassai è quello di intensificare la vita in qualsiasi forma essa si presenti davanti ai nostri occhi, per quanto depravata, nascosta ed inaccettabile essa ci possa sembrare. Una dichiarazione d’amore alle infinite realtà soggettive, che influenzerà i flash di un certo tipo di fotografia fino ai giorni nostri.
“La Fotografia, nel nostro tempo, ci lascia una pesante responsabilità. Mentre stiamo giocando nei nostri studi coi vasi di fiori rotti, con le arance, mentre studiamo i nudi e le nature morte, un giorno sappiamo che saremo chiamati a pagarne il conto: la vita sta passando davanti ai nostri occhi senza essere guardata”

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“Per me la fotografia deve suggerire, non insistere o spiegare”

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“Tutto quello che volevo esprimere era la realtà, perché nulla è più surreale”

Nonostante le frequentazioni surrealiste, Brassai mantenne sempre una certa distanza critica dal movimento e dai suoi automatismi.  Distanza che si conferma nelle sue foto, dove due sono gli elementi principali e intrinsechi che si occupano di creare delle visioni del reale nel reale, come degli spazi rubati, dei riflessi, delle duplicazioni:

1) la luce notturna artificiale, libera o distorta dalla nebbia, una specie di occhio di bue che cade sulla scena realizzandola, senza inventare nulla

2) gli specchi, con il loro inquadrare fisso e inopportuno l’inesistente

Il soggetto deve restare la realtà e il genio al massimo deve avere la pazienza di catturarla e ritagliarla, aspettando i lunghi tempi di esposizione in notturna, mai riplasmarla o esasperarla. Un vero e proprio realismo poetico.

“Il surrealismo delle mie immagini non è altro che il reale reso fantastico da una visione particolare”.

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Quando nel 1940 l’esercito tedesco occupò Parigi, Brassai inzialmente fuggito a Sud,  tornò in città per recuperare e salvare i negativi che aveva nascosto, ma il divieto di scattare foto in pubblico imposto dall’esercito occupante, lo spinse verso altre forme di espressione come la poesia, il disegno e la scultura, già praticati prima dell’arrivo a Parigi. Solo con la Liberazione, nel 1945, tornò alla fotografia proseguendo il percorso già intrapreso, ma forse, la guerra, quelle notti giovanili, curiose ed affamate, le aveva offuscate.

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“Dopo venti anni si può iniziare a essere sicuri di ciò che la fotocamera farà”

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Nella sua continua ricerca di forme di espressione figurativa, nel 1956 arrivò addirittura un successo cinematografico: fu premiato il suo film “Tant qu’il y aura des bêtes” (As long as there are beasts) a Cannes come il più originale e fu menzionato, ovviamente, anche per la fotografia. Oltretutto va ricordato che Brassai scrisse ben 17 libri, il più tradotto:  “Conversazioni con Picasso” nel 1964. Considerato uno dei più grandi fotografi del ‘900, ottenne il primo riconoscimento a Parigi nel 1974 come Cavaliere all’Ordine delle Arti e della Letteratura e dopo quttro anni vinse il Grand Prix National de la Photographie. Morì dieci anni dopo e fu seppellito a Montparnasse, luogo dove nacque la sua prima foto.

CADERE DALLA BICI A LISBONA – TENHO QUEDA PARA A BICICLETA


C’è un giovane personaggio misterioso a Lisbona che sembra cadere continuamente dalla bici, al momento e nel posto giusto, ma non preoccupatevi, lui ci ha assicurato che si diverte e non ha nessuna intenzione di restare in sella: su facebook è già partito il tam tam. Potete seguire queste “cadute in stile” su “Tenho queda para a bicicleta”

“Queda” significa appunto caduta, ma il personaggio misterioso, spiega a noi di WSF che l’abbiamo contattato, come in portoghese “Tenho queda” sia un gioco di parole per dire “essere proprio bravi a cadere” diciamo “professionisti di cadute”, in questo caso con la bicicletta. A guardare le foto, che gentilmente ha condiviso con noi, direi che non ci sono dubbi. Per ora non vuole svelarci altro, ci chiede di non rivelare la sua identità e dice: “Chissà se presto potremo avere qualche amico che inizi a cadere anche in italia!”, insomma preferisce lasciar parlare i suoi incidenti, da cui non può sfuggire il denominatore dell’ironia nella dinamica e nella scelta del luogo. La prima foto (qui sopra)  è una caduta durante una manifestazione di cittadini portoghesi contro i tagli del governo dovuti dalla crisi, una (in basso) è sotto uno dei famosi e oramai carissimi tram di Lisbona, e l’ultima una foto dice di averla dedicata proprio a noi italiani…

Il risultato è una vera e propria serie fotografica che ironizza sulla caduta nei luoghi sacri e profani in cui si svolge una città e proprio in Portogallo, cuore della crisi del debito già dal 2009, che come l’Italia si trova ancora in bilico nel domino dell’Unione Europea, sotto il fuoco “amico” della mitragliatrice dell’austerity. Come dire, facciamo vedere al mondo che ci vuole lo stile e la scenografia giusta anche per cadere? Per scherzo, si intende. Non stiamo mica cadendo così in basso… Intanto rialziamoci per la prossima foto, prima o poi impareremo a mentenere l’equilibrio.

L’Italia del Kitsch – Recensione del film “Reality” di Matteo Garrone


Cari Italiani, andate a vedere questo film, per noi è importante almeno quanto “Quarto Potere” di Orson Wells. Tutti ci rendiamo conto del potere che la televisione ha avuto in questi decenni, non propriamente gloriosi, insediandosi nei gangli nervosi più profondi delle nostre teste, cercando di colmare alla “meno peggio” il vuoto identitario generale derivato dal consumo della società dei consumi e poi, al peggio non c’è mai limite, dalla sua inarrestabile crisi. Ma cosa ha prodotto?

Messe da parte le Vele di Scampia, Garrone porta abilmente la telecamera, con la meravigliosa ripresa panoramica iniziale, su una Napoli vulcanica, distesa e dorata, zoomma pian piano verso la vita di Luciano Ciotola, un padre di famiglia che si divide tra un’attraente pescheria nei quartieri spagnoli e qualche piccola truffa per sbarcare il lunario. L’attore è il bravissimo Aniello Arena, ergastolano presso il carcere di Volterra, dove pare che Garrone lo abbia visto recitare proprio in eventi teatrali organizzati dal carcere. Senza nulla togliere al regista, è guardando all’autenticità e alla bravura degli attori interpreti della famiglia Ciotola, che ritorna in mente la frase del grande Orson quando disse: “In Italia basta prendere una macchina da presa e metterci delle persone davanti per far credere che si è registi”. Oltretutto Napoli in particolare, come città dei contrasti antropologici, della variegata bellezza e della decadenza, è una scenografia decisamente fertile e pronta per raccontare dell’Io collettivo, minimizzando di fatto anche l’azione dello scenografo.

Luciano, affascinato dalla facilità con cui un incapace uscito dal Grande Fratello diventa un “eroe” osannato, si lascia convincere dai figli a fare il provino, perché lui è davvero il “personaggio” dei personaggi ed è sicuro che verrà preso. Con questa convinzione e in maniera misera e impietosa, ma al contempo leggera e in un riuscito equilibrismo tra il dramma e la commedia, il bel condominio maledetto della famiglia Ciotola, che un po’ ricorda le atmosfere domestiche e la cornice del teatro di De Filippo, andrà sgretolandosi in una forsennata ossessione verso il successo, visto come “l’opportunità della vita che capita una volta sola”, fino a perdere totalmente il controllo della Realtà. Parola fondamentale nel film. Reality è un’aberrazione cromatica della realtà, qualcosa di talmente controllato da risultare tecnicamente incontrollabile, muovendosi in maniera persecutoria tra l’esistenza e l’illusione.

Il ruolo del Kitsch non è trascurabile in questo film, questi dettagli costruiscono una sonora visione d’insieme di quella realtà che il reality show vorrebbe scimmiottare, essenzialmente vuota, che sguazza nella soddisfazione di carrozze d’oro coi cavalli, matrimoni sfavillanti, improbabili vestiti sbrilluccicosi, marchingegni da cucina costosissimi e di dubbia utilità o tra gli arredi alla “Arancia Meccanica” della casa del Grande Fratello. L’apparire. Il reality è il più futile Kitsch che ci siamo concessi.

Il finale è sospeso e umiliante e si smorza in una risata amara, lo zoom indietro nel cielo nero disperde i sempre più piccoli e irrilevanti riflettori… È una storia vera, dice Garrone, anche se i protagonisti preferiscono rimanere anonimi. È forse La Storia degli anni zero, esasperata e vista dagli occhi di uno spettatore che è illuso cittadino. E per la seconda volta Garrone si prende il Premio Speciale della giuria di Cannes. What’s the next?