ESTRATTO da “REICH E GURDJIEFF – La sessualità come strumento di evoluzione della coscienza”


Reich e Gurdjieff
di David Brahinsky
in corso di pubblicazione per Spazio Interiore
previsto per Dicembre 2014

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All’interno de I racconti di Belzebù a suo nipote, [1] a un certo punto il protagonista condanna l’uomo moderno e lo rimprovera duramente per non essere riuscito ad adempiere ai partk/dolg/doveri esserici, tanto da considerare questo fallimento come una malattia, dal momento che per lui il lavoro cosciente e la sofferenza volontaria costituivano la naturale e sola funzione che l’essere tricerebrale maturo manifestasse. Ma se sono così naturali, perché allora l’uomo odia tali pratiche? Perché odia intraprendere un percorso necessario all’evoluzione del proprio essere?
Lo studio di Reich fornisce una risposta alla questione di cui sopra: odiamo fare qualsiasi cosa sia necessaria per proseguire il nostro sviluppo perché sin dall’infanzia, e poi anche nell’adolescenza, proprio le funzioni primarie che ci contraddistinguono sono state represse. Ci è stato insegnato a temere l’evoluzione creativa, ad aver paura del libero fluire dell’energia orgonica all’interno del nostro corpo, e da queste paure è nata la corazza. Essa ci rende pigri, ci frammenta internamente in diversi “io” e ci impedisce di assimilare le impressioni legate all’evoluzione. Quando impressioni di tal genere, infatti, sono disponibili in un individuo molteplice, pigro, arrabbiato, frustrato, pauroso, represso, apatico, pieno di desideri infantili, che rigetta le idee del Lavoro, queste non possono essere assimilate in modo adeguato e pertanto si rivelano inutili. L’elemento alla base di questo processo, che è volto a reprimere la capacità di evolvere, consiste nella soppressione della sessualità, cioè di quella funzione base della creatività che sta all’origine dei processi creativi dell’evoluzione, prevista peraltro in ogni piano dell’esistenza.
Ora, se l’analisi sin qui condotta è esatta, il ripristino di questa funzione svilupperebbe nell’individuo la capacità di introdurre le impressioni tramite il secondo shock cosciente, impressioni che vengono registrate all’interno del centro emozionale superiore come “sentimento religioso”, “sacralità o divinità di ogni cosa che esiste” e, al contempo, “rimorso di coscienza”. Questa descrizione sottintende che le impressioni sono contraddistinte da un amore fortemente radicato nei confronti di tutti gli esseri, un sentimento così straordinario e onnicomprensivo che comporta il pieno sentire; pochi, oltre ai santi, sono in grado di provarlo. In effetti, c’è da chiedersi come possiamo noi, che ci lamentiamo continuamente per questioni riguardanti il tempo, i vicini, i politici, le tasse e via dicendo, giungere a provare un sentimento di tali proporzioni. Alcune religioni si fanno portatrici di tale messaggio, sebbene non sia poi automatico che esso venga incarnato da coloro che ne seguono i dettami.

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PLATONE, INTERNET E TOTH – di Andrea Colamedici e Maura Gancitano (SPAZIO INTERIORE)


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Confrontarsi con Platone mette in campo una certa dose di soggezione. Autore prolifico, che ha scritto pressoché su ogni aspetto della vita umana, su ogni sentimento, su ogni disciplina dello scibile e sulle cause prime dell’essere al mondo, nel corso dei millenni ha innescato riflessioni, critiche, discussioni, riscoperte.

Qualche decennio fa gli esponenti della scuola di Tubinga iniziarono a parlare di un Platone esoterico, riferendosi alle dottrine non scritte a cui in alcuni dialoghi si fa palese e celato riferimento. Tali dottrine avrebbero rappresentato la vetta e le fondamenta del pensiero platonico, eppure secondo il filosofo ateniese non potevano essere comunicate al di fuori dell’Accademia. Questa visione, in seguito diffusa e ampliata da Giovanni Reale e dalla scuola di Milano, se da un lato ha reso manifesta la necessità di un approccio nuovo, meno accademico e didascalico al pensiero di Platone, dall’altro si è appropriata di un concetto – quello di esoterismo – senza restituirne la portata e, anzi, depotenziandone enormemente il messaggio. L’idea, infatti, era che il pensiero di Platone si basasse su dei Principi Primi, cioè su informazioni e nozioni necessarie al raggiungimento della reale comprensione di ciò di cui i dialoghi parlavano. Tali Principi Primi, però, potrebbero riguardare qualcosa di diverso – di più profondo, di meno semplice e, di conseguenza, di davvero esoterico – rispetto all’idea degli esegeti di Tubinga e Milano.
Secondo questi ultimi, in altre parole, tali Principi riguardavano l’Uno, il Bene e la Diade, cioè delle idee facilmente identificabili e ricorrenti nella storia del pensiero occidentale. In Platone, come in altri filosofi precedenti e successivi, queste idee non si limitano, però, a essere filosofiche, ma attingono probabilmente a un’autentica tradizione esoterica.

Ecco cosa scrive nella VII Lettera: «Io non credo che quel che passa per una trattazione, a riguardo di questi argomenti, sia un beneficio per gli uomini, se non per quei pochi i quali da soli sono capaci di trovare il vero con poche indicazioni date loro, mentre gli altri si riempirebbero, alcuni, di un ingiusto disprezzo, per nulla conveniente, altri invece, di una superba e vuota presunzione, convinti di aver imparato cose magnifiche». Come risalire a queste idee fondamentali? Non bastano i pochi riferimenti degli allievi alle dottrine dei Principi Primi, non basta leggere in una manciata di righe che tali agrapha dogmata riguardavano l’Uno e la Diade per comprendere cosa fossero l’Uno e la Diade, perché, come si legge sempre nella VII Lettera: «la conoscenza di tali verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende allo scoccare di una scintilla, essa nasce dall’anima e da se stessa si alimenta».

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