Il giardino delle delizie di Mia Mäkilä – The garden of earthly delights to Mia Mäkilä


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“Caroline and the Snow Grump”, 2012

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Thank you! / Grazie!

“Come ti sei avvicinata all’arte? Ricordi i tuoi primi passi ed il momento in cui hai deciso di diventare un’artista? / How did you get near art? Do you remember your firs steps and the moment you settled to become an artist?”

E: I have always known that my destiny was to be an artist. I was only five years old when I told my parents that I wanted to become an artist. I was always creating my own little worlds, through stories and drawings. When I was a teenager I went to art school but it was hard because I was self taught and I couldn’t stand to follow the basic rules of art – I have never been interested in depicting the world, I want to express myself and what’s inside myself. So I was an art rebel in art school, I always wanted to go my own way. But the price has been high – I have always been independent in my creativity, but also very lonely as an artist, it’s been a hard balance. At least I can say that I did it ‘My Way’, to quote Frank Sinatra.

I: Ho sempre saputo che il mio destino era quello di essere un’artista. Avevo solo 5 anni quando dissi ai miei genitori che volevo diventare un’artista. Io creavo continuamente i miei piccoli mondi personali, attraverso storie e disegni. Da adolescente ho frequentato la scuola d’arte ma era dura perchè da autodidatta non mi adattavo a seguire le regole base dell’arte – non sono mai stata interessata a rappresentare il mondo, io voglio esprimere me stessa e ciò che c’è dentro me stessa. Così ero una ribelle dell’arte in una scuola d’arte, ho sempre voluto andare dritta per la mia strada. Ma il prezzo è stato alto – sono sempre stata indipendente riguardo alla mia creatività, ma anche molto sola come artista, è davvero un difficile bilancio. Alla fine posso dire che “I did it my way” (l’ho fatto a modo mio), per citare Frank Sinatra.

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Alex Prager di Bizzarro Bazar


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Nata a Los Angeles nel 1979, la fotografa Alex Prager si sta affermando come una delle voci più originali della scena artistica californiana. Le sue fotografie, estremamente ricercate, fanno di sicuro la felicità di semiotici e critici, ma riescono a provocare forti emozioni anche nel pubblico meno “dotto”. E questo perché contengono riferimenti a un certo tipo di cultura popolare, o meglio “pop”, che tutti conosciamo bene.

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Nonostante la splendida fattura e la maniacale ossessione per i dettagli, l’arte di Alex Prager è infatti interessante proprio in virtù di ciò che non mostra, per i rimandi esterni che chiama in causa. I suoi scatti sembrano provenire direttamente dagli anni ’60, dalle patinate riviste di moda, piene di belle modelle vestite di colori sgargianti, con stravaganti acconciature e che spesso esibiscono la gioiosa e liberatoria indipendenza delle donne di quegli anni. La cura nel ricostruire il look e i piccoli particolari d’epoca è notevole, ma il tutto non si esaurisce in un vuoto esercizio di stile.

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Talvolta la drammaticità di alcune fotografie le fa sembrare dei veri e propri fotogrammi tratti da film che non vedremo mai… e che, allo stesso tempo, abbiamo la sensazione di aver visto centinaia di volte. Così un volto dal trucco rétro, gli occhi arrossati colmi di lacrime, è talmente potente da risvegliare in noi una fantasia narrativa. Lo spettatore si ritrova, inconsciamente, a ricostruire un prima e un dopo, a inventare un personale e immaginario film, è cioè chiamato a usare tutti i referenti “cotestuali” che ha per completare il senso dell’immagine.

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Le migliori opere della Prager sono quindi rivolte a un pubblico cinefilo, e non a caso l’artista californiana ha anche diretto un paio di cortometraggi utilizzando alcune amiche modelle come attrici. I toni mélo e la drammaticità dell’illuminazione riportano direttamente a un immaginario cinematografico, che scopriamo essere molto più che un bagaglio culturale: in questo caso si tratta di un vero e proprio filtro inconscio, attraverso il quale guardiamo e interpretiamo gli stimoli visivi che ci arrivano dalle fotografie. Le riconosciamo istantaneamente come probabili fotogrammi di film anche se, a rifletterci, faremmo fatica a spiegare il perché di questa immediata “interpretazione”.

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E, infine, parliamo dell’aspetto più “politico” dell’opera di Alex Prager. Forse stiamo leggendo un po’ troppo fra le righe, ma donne, sempre donne sono le protagoniste di queste foto. Donne disperate, liberate, spregiudicate o misteriose. Talvolta, donne che sembrano in gabbia. Come se il vero senso di ribellione di quell’epoca d’oro, gli anni Sessanta, fosse racchiuso in un universo esclusivamente femminile – e, allo stesso tempo, al di là dell’emancipazione, la donna continuasse ad essere un personaggio, stereotipato nelle sue pose melodrammatiche e fissato per sempre in un mondo dai colori accesi e dalle mille passioni incontrollabili. Ma, al di là delle interpretazioni, quello che rimane inconfutabile è la stupefacente potenza di alcune di queste foto, che giocano in maniera postmoderna con l’immaginario di una controcultura ormai metabolizzata e addomesticata. E ci spingono a interagire, a integrare attivamente ciò che vediamo con ciò che abbiamo vissuto come spettatori.

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Alex Prager sito: http://www.alexprager.com/

articolo a cura di Bizzarro Bazar