La leggerezza spiegata con l’idraulica. Sulla poesia di Daniela D’Angelo – Roberto Carvelli


Scrive Emanuele Trevi in bandella a saluto di questo Catalogo dei giorni felici – prima prova poetica organica in volume di Daniela D’Angelo – che la silloge possiede “due qualità: l’intensità e l’originalità”. Ed è sull’intensità che viene volentieri di ragionare. Per capirne e apprezzarne la tipologiaoriginale. Un lavoro che ci impone la definizione di un pensiero, una poetica. Facciamo salva la parola “catalogo” che già è marca esplicita di una selezione esemplare. È su quel “felici” che si innesca il pensiero. Che tipo di felicità descrivono questi giorni? In che termini vengono definite “felici” queste campionature esistenziali?
La leggerezza concentrata dei versi di Daniela D’Angelo (“Come si chiama la leggerezza del cuore/ il brivido che assomiglia a un segreto?”) costruisce il piccolo miracolo dell’estinzione,consunzione della pena nella sua esplosione. I giorni sono (diventano) felici nella (dopo la) deflagrazione del dolore che possono trattenere fino al loro punto di massimo contenimento. I versi nascono un momento dopo: quando “il dolore/si fa piccolo, discreto”. È proprio in questa poesia – la numero 12 – che troviamo i versi-guida della raccolta. È qui che l’autrice nasconde il “segreto” della “felicità” del titolo. La sua soluzione.
Ma un volume di poesie ha una sua organizzazione interna, un filo che segue e qui il filo va da una dichiarazione di intenti e di poetica (“ho appreso la calma: a riempire/ e a svuotare, a caso, il cuore”) a un funerale (“Ti confeziono/ bello ripulitino – tutto perfettino/ come un morto” dove a morire è un nome – “il tuo nome da vivo” – e con la rimozione del nome la cancellazione definitiva). Riempire e svuotare il cuore: ecco l’idraulica casuale del lavoro di Daniela D’Angelo. Eccolo il segreto per il contenimento del dolore: una valvola di sicurezza. Quando la pressione gonfia una valvola svuota. Succede in meccanica. Succede anche in questa raccolta ma per la strada di una sceltatalvolta accidentale. Una scelta di cui siamo il termine terzo del caso perfino di quei desideri di cui pensiamo di essere gli unici baricentrici attori (“poi si finisce/ per fare l’amore/ come capita”).
Ma dicevamo del dolore. E del dolore un attimo dopo. In quel dopo che significa superamento. Perché il dolore (“Mi mordo le labbra/ uno spasmo/ poi un crampo (…)  Lo sguardo s’infiamma./ La ferita azzanna/ le reti e i puntelli” e altrove “Sono bestia colpita a morte,/ carne da macello”)di cui scrive l’autricesi vince dopo un attraversamento. Spesso inconsapevole: “Ci devono essere stati:/ una curva della voce/ un andare slegati per mano/ un battito di ciglia a destra/ mentre io stavo a sinistra/ un respiro spezzato –/ qualcosa che non ho capito”. L’onniscienza dell’io di queste poesie non ha la liturgia – parola che non usiamo a caso e che poi spiegheremo – della scienza, non quello della logica ma quella del finire: ed è in questo mossa da un panta rei in tutto e per tutto reincarnante. Chi porta a finire le cose, chi arriva alla conclusione dell’esperienza sa, capisce e nel capire rinasce. In termini più alti della conoscenza rinasce leggero, felice. È per questo che viene da pensare a un piccola mistica del (superamento del) dolore. Una via – ecco la liturgia – per la felicità assoluta più che per la felicità relativa. E infatti la prima passa spesso per una strada tortuosa e contraria alla seconda. Ma è in questa opposizione, in questa non causalità tra un bene immediato e il bene ulteriore che la speranza si rafforza. Nella casualità si fortifica: “Ho (…) un passo, in fine, perfetto alla fuga…/ invece mi ritrovo di sotto, in una buca!”. Il dolore è una specie di abilità olimpica (nelle due accezioni). Una gara di pace che sfida le prove successive e in complicazione dell’esistenza per giungere al traguardo medagliato della felicità. Una felicità in tutto simile a quella dell’animale simbolo di questa raccolta: la capra. L’essere-guida all’attraversamento del dolore della condizione umana:

“Sono bellissime, le capre:
si tengono strette tra loro
il belato è simile a un canto.
Caprette ignare della sorte
caprette ignare dallo sguardo vuoto.
Vorrei essere una capra anch’io,
brucare l’erba senza fretta,
al massimo, belare.
Avvertire solo una piccola pena
e un istante dopo dimenticarla”.

Nella liturgia del superamento del dolore, verso la fine serve l’ignara calma attesa in cui tutto si compie. E un attimo dopo è tutto passato. Anche la vita e i giorni del dolore. Che ora sappiamo essere stati, in ultimo, felici.

Di Roberto Carvelli

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