Fuori Menù 15: cosa beve? – il cinema e l’alcool


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Se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare; se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare; e se non succede niente si beve per far succedere qualcosa.
(Charles Bukowski)

Il cinema non ha solo legato con il cibo, come abbiamo già dato assaggio qui, ma anche all’alcool sia come accompagnamento o segno distintivo, che come dipendenza.
Unione presente da molto nelle sale buie di tutto il mondo, soprattutto perché non si conoscevano bene ancora gli effetti, era normale che i protagonisti ne facessero uso e poi era anche un modo efficace per “pubblicizzare” certi prodotti in un film senza introdurli negli spot. In moltissimi film è presente l’alcool (tipo James Bond interpretato da Sean Connery o il più recente Iron Man).
Il veder bere nei film influenza moltissimo i giovani, infatti, alcune ricerche fatte a tal proposito, rivelano che gli adolescenti, anche i più salutisti, sono più invogliati a fare uso di alcolici.

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Cinquanta sfumature di grigio


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La trilogia di 50 sfumature di grigio ha venduto più di 100 milioni di copie nel mondo e viene attualmente distribuita in 37 paesi, tra cui l’Italia (quando si tratta di porcherie non ci facciamo mai mancare nulla).

La storia é quella ormai arcinota di Anastasia Steel, una studentessa di letteratura inglese che intervista per puro caso Mr. Christian Grey. L’incontro tra i due darà vita alla più classica delle storie Harmony con l’aggiunta concettuale della cultura BDSM.

Cosa funziona in questa pellicola? Una cosa sola, Anastasia e la sua fisicità, che supera di gran lunga le sue doti di attrice. Il suo personaggio così come tutti gli altri, sono relegati in altrettanti ruoli privi di sfumature in un insieme di ammiccamenti virginali iper costruiti che poco rientrano nella sfera dell’erotico e sfociano nel ridicolo.

Il mondo di cinquanta sfumature di grigio è troppo clinico per poter essere considerato sensuale e già dopo pochi minuti pare di assistere ad un episodio di Ugly Betty più che a una pellicola che ha la superbia di creare scandalo.

La banale storia di fondo, si disperde in una stanza dei giochi abbastanza scevra di attrezzi e in un insieme di situazioni grottesche che si mischiano ad un bondage che non sa distinguere tra un Karada e un nodo di Prusik mentre ad insaporire il tutto la fa da padrona una fotografia piatta e una regia standard che fa crollare ogni barlume di credibilità.

Il percorso narrativo altro non é che l’estremizzazione dell’impostazione trita del format televisivo, in cui una ragazza ingenua scopre la fama attraverso l’omologazione, per poi allontanarsi e ritrovare se stessa. Tale evoluzione si è già vista in pellicole come Il diavolo veste Prada o come il sopra citato Ugly Betty, privato però di quella bravura attoriale che é invece intrinseca all’interno di questi prodotti.

La mia digressione critica non colpisce solamente il film, che non é altro che una trovata commerciale per altrettanti palati commerciali, ma a tutto quel mondo femminista che s’indigna a vedere Nymphomaniac e non dice nulla quando assiste a pellicole di questo livello, in cui la donna è una cretina senza capo ne coda.hr_Nymphomaniac-_Volume_I_47

Nel film di Von Trier infatti, viene mostrata in maniera esplicita ogni pratica sessuale e la sua relativa deviazione all’interno di una dipendenza che si ciba della solitudine di colei che la vive.

Uno spunto non approfondito questo che poteva rendere la figura di Mr. Grey maggiormente variegata. Il protagonista nel libro viene abusato in età adolescenziale da una donna molto più grande, che lo sottopone a sedute non di BDSM, ma di tortura vera e propria. L’uomo però non potendo per ragioni di copione diventare un serial killer si trasforma in un dominatore non sadico. In questo caso la sfumatura è importante perché nella parafilia sadica il soggetto prova piacere nell’infliggere dolore fisico o mutilazioni, qui invece il dominus si pone in una posizione di superiorità nei confronti dello schiavo. Altro punto non a favore del film é la non spiegazione del concetto di dominio, che é nelle mani chi subisce non in chi provoca la punizione. In questo film la donna viene sottomessa con la forza e non sapendo poi bene cosa fare, finisce con il prenderci gusto. Insomma tutto é sbagliato già sotto il profilo concettuale di base.

1331658980-4772-9La seconda pellicola, distrutta dalla critica, ma che sarebbe bene riscoprire è Baise Moi (Scopami) delle francesi Virginie Despentes e Coralie Trinh Tie. La storia altro non è che la rivolta assoluta della donna nei confronti del “sesso forte” in una rivisitazione del film “Telma e Louise”, che narra in una chiave devastante e devastata la fuga di due donne allo sbando. Due entità antitetice eppure simili che riscoprono la loro libertà attraverso il dominio sessuale e fisico sulla figura maschile; qui rappresentata come emblema massimo del brutalismo.

I motivi per cui la critica ha distrutto questi film sono tra i più diversi, ma il loro focus d’indagine, più o meno riuscito, si situa nel combattere l’ancora oggi troppo spesso malsana idea di limitare il percorso sperimentativo e sessuale della donna, non ponendola in una situazione di parità ma in uno stato di reciproco perpetuo vittimismo.

In breve 50 sfumature è uno dei film più brutti dell’anno. Il successo al botteghino non è colpa dei produttori, che meritano un dieci e lode, ma di chi lo va a vedere e si eccita guardando una storia in cui si scopa senza fare rumore, si ammicca di continuo ed alla fine ci si annoia mortalmente.

Christian Humouda

La donna, la natura, l’Antichristo


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Lascia ch’io pianga, mia cruda sorte e che sospiri la mia libertà”.

Antichrist è tutto qui, nell’aria del Rinaldo che apre il prologo e chiude l’epilogo. Un’aria disperata in verità, ma anche l’unica vera carezza, presente nel film.

La storia seppur limitata nel numero dei personaggi, é altresì ricchissima di tutti quei simbolismi nordici e medievali che hanno reso grande il regista danese. I due protagonisti sono Willem Defoe, psicoterapeuta e Charlotte Gainsboug, sua moglie.

L’incipit del film narra della morte accidentale del figlio della coppia, avvenuta in una notte d’inverno. Durante un amplesso, i due non si accorgono dell’uscita dal box del bambino che attirato dalla neve che cade, mentre si allunga per toccarla scivola nel vuoto.

Dopo un lungo ricovero in ospedale, la madre appare sempre più incapace di elaborare il lutto, imprigionata in quell’intricato groviglio di sensi di colpa e disperazione e rimorso. Così il marito, affermato psicoterapeuta, ormai stanco dei continui fallimenti della medicina tradizionale, decide di portarla “nell’Eden”. Un piccolo chalet, sperduto tra le colline. Il processo di guarigione però, non si risolverà come previsto.

Il film si suddivide in capitoli. Quasi fosse un testo già scritto, pronto a ridefinire il concetto stesso di dogma 95, dipanando su celluloide tutto il mondo privato di Von Trier.

Le “crepe” della terapia analitica si allargano in sintonia con il vorticoso ondeggiare nell’aria di ghiande e zecche, di natura e Clito. Due elementi antitetici, ma sostanzialmente complementari. L’assalto notturno delle zecche é un preludio, che incarna il primo gesto fisico d’intolleranza verso la figura del maschio, un evento violento seguito dall’ingresso in scena, di tre piccoli mendicanti con il loro obolo di dolore e autolesionismo. Tre minuscole stelle splendenti, appese nello spazio, con puntine da disegno. Briciole di costellazioni unite tra loro da fili invisibili; il passaggio finale verso quella parcellizzazione dell’Io che accompagna l’odio. 

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Il primo mendico, che appare solamente all’uomo, é rappresentato dalla cerva partoriente, emblema del dolore.

Seguono il corvo, novello Mercurio portatore di disperazione e la volpe. L’uroboro peloso si manifesta sotto le sembianze di una volpe parlante che proclama l’imminente Regno del Caos.

Tutto consapevolmente predisposto per far capire che la malattia appartiene all’uomo. Quel male oscuro di vivere che s’annida nel silenzio dell’atto copulativo, mischiando indissolubilmente Eros e Thanatos.
Protagonista principale del film è la Natura: madre matrigna e spietata genitrice, che spaventa e schiavizza l’uomo, rendendolo incapace e fragile.

Per questo, l’albero sotto cui Charlotte si masturba é l’omega dell’alfabeto, l’ultimo anello della catena verso l’ipotetica ed irrealizzabile osmosi fisica con la madre terra.

Il clito, non é altro che un ambiente ostile dunque; nell’ugual misura in cui lo sono gli alberi, il vento, il ponte, il fiume. Un Eden carnale in cui i due novelli Adamo ed Eva profanano la loro psiche e il loro corpo, in una ricerca non più redentiva, ma coattiva. In una compenetrazione di sudore e terra, sperma e sangue che disegna un’ Apocalisse di San Giovanni costruita sulle convulse architetture pittoriche di Bosch.
Il viaggio interiore é però duplice. Quello di Defoe é un percorso di rinascita inverso. Un ritorno nel nascondiglio uterino fatto di terriccio e pietre. Una serie di “dodici passi” verso una conclusione già scritta. Nell’epilogo l’odio verso la figura femminile pare dissolversi, lasciando spazio a quel silenzio insondabile che solo il feminino é in grado di gestire.

L’Eros scompare, ormai svuotato della sua funzione procreativa cedendo il passo al gynocidio.

La dedica ad Andrej Tarkovsky chiude il cerchio come fosse un passaggio obbligato attraverso le pellicole del maestro russo. Ma mentre Stalker, si conclude con l’“Inno alla gioia” di Beethoveen, Antichrist implode nella sua stessa spirale di disperazione ed odio.

Defoe ormai impotente e spoglio, non può che ritornare alla terra diventando egli stesso il clitoride mutilato della natura.

Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi dunque.

Sarà proprio l’immagine dei tre questuanti ad incarnare la Belva Pavesiana, quel silenzio sordo e muto che accompagna inspiegabilmente l’uomo nel vizio assurdo di vivere.

Ma prima che “l’inno alla tristezza”, riempia nuovamente la quiete. L’orizzonte si ripopola di figure femminili senza volto. Le donne, le streghe, le vittime sacrificali, che rivivono memori, nell’antico universo chiamato “uomo”.

Mentre a noi, “come buoi canuti nella radura”, non resta che cedere il testimone e piangere.

Christian Humouda