Nota di lettura di Alessandro Assiri a Le persone di Roberto Carvelli – Kolibris Edizioni


le persone

Assolve bene il compito di testimoniare che la poesia è porre sguardo al servizio questa raccolta di Carvelli edita per Kolibris nel Giugno del 2014. Uno sguardo che pacatamente potrebbe dire in prosa, si frammenta in verso diventando nervoso, ruvido e decisamente più spietato, come spietata e senza assoluzione è la realtà che racconta il quotidiano gesto che osserva. Perchè è l’occhio il vero protagonista di questo lavoro anche se a volte è il suono ad essere evocato”la prima tappa dell’educazione musicale si celebra nell’auditorium della casa”. Un libro dove finalmente non c’è nessuno, dove le cose si danno per come emergono e per dove si posano:raccontandosi anche se sembrano persone, sono circoscritte da una relazione oggettuale che solo l’estraneità dello sguardo attento può porrre in essere. Finalmente soli, dicevo, ma con l’onesta intellettuale di non sentirsi in balia di un tu travestito al quale raccontare storielle di un io che esce dalla porta per rientrare dalla finestra. Una sottile e raffinata ironia modula diversi passaggi del lavoro di Carvelli che nell’ironia non si rifugia ne se ne fa scudo, ma intuisce perfettamente che solo dicendo il disicanto si avvera.”in amore chi butta ha uno slot di vantaggio su chi conserva”si legge in un verso e ritengo che proprio in questo buttare o conservare stia la cifra di tutto il lavoro che in questo registro di soppesazione si offre in lettura, perchè tutto avviene lì operando quelle scelte di gettare o trattenere, dimenticare o ricordare.”trovare una parola bella bella per dire il guasto” non è di certo compito della poesia alla quale a volte basterebbe solo trovarla la parola, farla emergere da un silenzio per lasciarla dire il male delle cose.

di Alessandro Assiri

Desiderare figli è un’attività anaerobica

Desiderare figli è un’attività anaerobica:
si fa da fermo,
lì dove sei.
Un sollevamento pesi
preparato con generosa
inconsapevolezza evoluzionistica.
A volte serve
una premeditazione
molto scientifica
e un calendario.
Altre volte
una leggerezza
impenitente e svagata,
una dispensa tecnica,
l’amore assopito o attardato.
Sarà bene recuperare
il concetto di predestinazione
per avere conto
delle disilluse speranze
delle fiaccanti ripetizioni
e, alla fine, il nulla del ritenta.

***

L’amore è un ufficio postale

Se ami soffri
se non ami non soffri.
Un codice binario,
scienza esatta
che piace ai cinici,
agli atterriti,
agli informatici.
Ognuno ama qualcuno
che corrisponde qualcun altro.
Viaggia il cuore
lungo stradari lacunosi,
mappe imprecise
disegnate da cartografi
medievali.
L’amore è un ufficio postale.
Finiamola
con il biasimo dei postini:
la corrispondenza d’amorosi sensi
è destinata a non corrispondere.
Lettere, pacchi, cartoline
si perdono
tra numeri inesistenti,
grafie illeggibili,
trasferimenti.
Finiscono impilati
in un dimenticatoio
in cui continua a lavorare
l’attesa
vana,
l’intesa
solitaria,
la speranza
indirettamente proporzionale
al risultato.
La pratica non si chiude
se non con la restituzione al mittente
e questo rende la corrispondenza
ardua e spesso dolorosa.
Ma è solo una questione scientifica:
entropia e magnetismo
le due leggi che regolano
i destini umani.
E per concludere,
qualche consiglio:
prima di amare
verificare bene l’indirizzo,
scriverlo in modo chiaro,
ricordarsi di spedire,
attendere la ricevuta di ritorno.

***

Tecniche di ragionamento provvisorio

Non dire mai
per me,
secondo me.
Non dire 1, 2, 3
o A, B, C.
Non usare troppi
punti di domanda.
Non fare troppe affermazioni
presentandole come inconfutabili.
Non iniziare con l’idea
con cui si vuole concludere.
Dire spesso
“sei d’accordo?”
ma non troppo spesso.
Non fissare le proprie mani
né mulinarle.
Non alzare il tono della voce
né attenuarlo alle conclusioni,
alle definizioni.
Non prenderla alla lontana,
non elidere,
saltare passaggi,
rinviare a un futuro discorso.
Ricordarsi di respirare.
Bere molta acqua.

Novità Editoriale – Le persone di Roberto Carvelli (Kolibris Edizioni 2014)


Vi proponiamo alcuni estratti dalla nuova fatica letteraria di Roberto Carvelli, una silloge poetica pubblicata con i tipi della Kolibris Edizioni, un invito nemmeno troppo occulto a leggere e se vi scoprite interessati alla sua scrittura di acquistarlo, che la poesia deve girare, non rimanere negli scaffali più nascosti di certe librerie…Buona Lettura!

le persone

Dalla prefazione di Claudio Damiani:

La scrittura di Roberto Carvelli è anzitutto osservazione di cose vicine, molto concrete e tangibili, luoghi che viviamo e amiamo, che ci circondano e contengono, su cui poggiamo, cose che tocchiamo, su cui rimane la nostra orma. Un suo libro si intitola Letti, e racconta uno per uno i letti su cui l’autore ha dormito, dalla culla in poi. È come se Carvelli potesse parlare di noi solo attraverso le impronte che lasciamo, come se la sua fosse un’archeologia del presente. Come se così veloce scorresse il presente, e così poveri, così fragili noi, che altro non si potesse che attaccarsi alle cose, come a tronchi o pietre che anche loro rotoleranno nella corrente della vita.
Così Carvelli ci conduce per mano per i nostri luoghi, tra le nostre cose[…]

Memento mori

Dopo staremo tutti lì
con un memento
cesellato da un marmista
dalle mani diafane e arse.
Le lettere non saranno
cancellate ab aeterno
ma non sarà responsabilità
di nessuno
la coerenza del rilievo
con la vita irrilevante,
né la foto troppo statica
per un ricordo dinamico.
Un peso diverso
assumeranno
le frasi d’altri
affidate ad annunci
sui giornali
un tanto a parole
o in righe vergate
su biglietti di addio
recapitati a famigliari,
contriti o sollevati,
dalla fine di un dolore,
all’inizio di un precipizio
in bordi listati.
L’atlante delle piante spontanee
racconterà il tutto si trasforma
per via compendiata.
Tarassaco, malva, portulaca
bucheranno il telo verde
e spunteranno dalla ghiaia,
occhieggiando ai fiori finti
infilzati a sbiadire nei vasi
tra marroni di tributi
più antichi e vivi.
L’eternità apparirà
un concetto sopravvalutato.
Converrà ricordare
il punto in cui tutto
è nato.
Quel tempo comandato
all’attesa
nell’ansia
del divenire,
libero dalla furia
della ricerca.
Vivo dell’invisibile.
La posizione più complessa
e vera dell’esistenza:
la latenza.

***

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La leggerezza spiegata con l’idraulica. Sulla poesia di Daniela D’Angelo – Roberto Carvelli


Scrive Emanuele Trevi in bandella a saluto di questo Catalogo dei giorni felici – prima prova poetica organica in volume di Daniela D’Angelo – che la silloge possiede “due qualità: l’intensità e l’originalità”. Ed è sull’intensità che viene volentieri di ragionare. Per capirne e apprezzarne la tipologiaoriginale. Un lavoro che ci impone la definizione di un pensiero, una poetica. Facciamo salva la parola “catalogo” che già è marca esplicita di una selezione esemplare. È su quel “felici” che si innesca il pensiero. Che tipo di felicità descrivono questi giorni? In che termini vengono definite “felici” queste campionature esistenziali?
La leggerezza concentrata dei versi di Daniela D’Angelo (“Come si chiama la leggerezza del cuore/ il brivido che assomiglia a un segreto?”) costruisce il piccolo miracolo dell’estinzione,consunzione della pena nella sua esplosione. I giorni sono (diventano) felici nella (dopo la) deflagrazione del dolore che possono trattenere fino al loro punto di massimo contenimento. I versi nascono un momento dopo: quando “il dolore/si fa piccolo, discreto”. È proprio in questa poesia – la numero 12 – che troviamo i versi-guida della raccolta. È qui che l’autrice nasconde il “segreto” della “felicità” del titolo. La sua soluzione.
Ma un volume di poesie ha una sua organizzazione interna, un filo che segue e qui il filo va da una dichiarazione di intenti e di poetica (“ho appreso la calma: a riempire/ e a svuotare, a caso, il cuore”) a un funerale (“Ti confeziono/ bello ripulitino – tutto perfettino/ come un morto” dove a morire è un nome – “il tuo nome da vivo” – e con la rimozione del nome la cancellazione definitiva). Riempire e svuotare il cuore: ecco l’idraulica casuale del lavoro di Daniela D’Angelo. Eccolo il segreto per il contenimento del dolore: una valvola di sicurezza. Quando la pressione gonfia una valvola svuota. Succede in meccanica. Succede anche in questa raccolta ma per la strada di una sceltatalvolta accidentale. Una scelta di cui siamo il termine terzo del caso perfino di quei desideri di cui pensiamo di essere gli unici baricentrici attori (“poi si finisce/ per fare l’amore/ come capita”).
Ma dicevamo del dolore. E del dolore un attimo dopo. In quel dopo che significa superamento. Perché il dolore (“Mi mordo le labbra/ uno spasmo/ poi un crampo (…)  Lo sguardo s’infiamma./ La ferita azzanna/ le reti e i puntelli” e altrove “Sono bestia colpita a morte,/ carne da macello”)di cui scrive l’autricesi vince dopo un attraversamento. Spesso inconsapevole: “Ci devono essere stati:/ una curva della voce/ un andare slegati per mano/ un battito di ciglia a destra/ mentre io stavo a sinistra/ un respiro spezzato –/ qualcosa che non ho capito”. L’onniscienza dell’io di queste poesie non ha la liturgia – parola che non usiamo a caso e che poi spiegheremo – della scienza, non quello della logica ma quella del finire: ed è in questo mossa da un panta rei in tutto e per tutto reincarnante. Chi porta a finire le cose, chi arriva alla conclusione dell’esperienza sa, capisce e nel capire rinasce. In termini più alti della conoscenza rinasce leggero, felice. È per questo che viene da pensare a un piccola mistica del (superamento del) dolore. Una via – ecco la liturgia – per la felicità assoluta più che per la felicità relativa. E infatti la prima passa spesso per una strada tortuosa e contraria alla seconda. Ma è in questa opposizione, in questa non causalità tra un bene immediato e il bene ulteriore che la speranza si rafforza. Nella casualità si fortifica: “Ho (…) un passo, in fine, perfetto alla fuga…/ invece mi ritrovo di sotto, in una buca!”. Il dolore è una specie di abilità olimpica (nelle due accezioni). Una gara di pace che sfida le prove successive e in complicazione dell’esistenza per giungere al traguardo medagliato della felicità. Una felicità in tutto simile a quella dell’animale simbolo di questa raccolta: la capra. L’essere-guida all’attraversamento del dolore della condizione umana:

“Sono bellissime, le capre:
si tengono strette tra loro
il belato è simile a un canto.
Caprette ignare della sorte
caprette ignare dallo sguardo vuoto.
Vorrei essere una capra anch’io,
brucare l’erba senza fretta,
al massimo, belare.
Avvertire solo una piccola pena
e un istante dopo dimenticarla”.

Nella liturgia del superamento del dolore, verso la fine serve l’ignara calma attesa in cui tutto si compie. E un attimo dopo è tutto passato. Anche la vita e i giorni del dolore. Che ora sappiamo essere stati, in ultimo, felici.

Di Roberto Carvelli

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Lettera al Principio di Realtà di Roberto Carvelli


Caro Principio di Realtà

ti scrivo come si scrive a un giornale. Insomma: mi aspetto una risposta. Sono partito male? Equivoco? Delle due l’una: o la realtà di cui ti fregi (perdonami se sono partito con la seconda persona ma ho pensato che se dobbiamo diventare amici è meglio non perdere tempo) è evanescente (ahiaiaiai!) e cede alla magia oppure… Oppure millanti e questo è più grave. Scusa se inizio bacchettandoti.
Mi chiamo Giorgio. Il cognome non è importante. Sono le 4 e c’è più di una cosa di cui vorrei discutere con te. Iniziando dal tuo essere sempre in mezzo, sempre presente ma sempre – ripeto “sempre” – un passo indietro rispetto alle cose. Perdonami ma non mi piaci affatto. A pelle, dico. Mi sembri uno di quei bambini saputelli pronti con la mano alzata a suffragare gli errori dei compagni appena un momento dopo l’illusone del silenzio che ha provocato in quelli la certezza di una giusta risposta o del “tanto non la sa nessuno”. Converrai che non è un modo onesto di comportarsi. Mi confermi che la risposta la sapevi da subito (è quello che tutti sospettiamo quando abbiamo a che fare con te)? E allora? Perché ci hai fatto provare a dire le nostre stupidaggini? Perché ci hai costretti a provare una soluzione? Dài ammettilo non susciti simpatia a prima vista. Sù non è la tua dote migliore la concordia. E dunque: perché dovremmo tenerti in massimo conto? Perché farti strada, lasciarti la porta aperta o, peggio, darti il passo? Scusa il risentimento ma sono pure le 4, la mente non è lucida (pur non sembrando desiderare le coltri del sonno) e tu, come tuo solito, fai capolino ogni tanto per ricordarci, solito stronzo saputello (scusa se mi lascio andare alla stizza), i nostri miseri errori. Beh, sarò selettivo, ma io gli amici me li scelgo diversamente. Dunque mi devo rassegnare ad averti al fianco come un pungolo indisponente e asettico? È già così. Se mi sono deciso a scriverti – ora la sveglia segna le 4e25 – è perché voglio tentare un ultimo disperato tentativo di conciliazione. Non startene lì in silenzio. Non aspettare la domanda, la mia scena muta, la mia risposta sbagliata. Incalzami, precedimi. Metti davanti la tua lapalissiana verità e lasciala qua davanti ai miei occhi. Forse non basterà a farci diventare amici ma certo ci aiuterà da qui al futuro a non guardarci storto. Ma che ingenuo sono a parlarti così. Dovrei immaginarlo che non rientra nel tuo fintamente distratto procederci al fianco, non è nel tuo stile no… Sono vittima dei pregiudizi, dirai. Va bene, lo sono. Ma tu – scusa la franchezza – hai davvero passato il limite. Da ora in poi stammi un po’ alla larga e non sempre lì pronto ad alzare la mano, ad aspettare scivoloni, a sottolineare mancanze. O almeno, per favore, facciamo una pausa: tu te ne stai dove devi stare e io pure. Se ti sembra che sbaglio qualcosa tienitelo per te. Se avrai ragione, se avrai indovinato la tua banale concretizzazione delle cose, nessuno te ne toglierà il merito e non ci sarà neppure bisogno di ribadirlo. Così fino ad allora facciamo a meno l’uno dell’altro.

Cordialità
Giorgio

Due poesie di Roberto Carvelli


Francesca Woodman

 

Capisci di me

 

Capisci di me
quello che vuoi capire.
Il comodo che c’è
tra un sandalo e un pantalone largo,
su un divano.
Tra una collina lontana che,
guardata da qui,
non stanca, né opprime.
Capisci di me il solo raggio di luce
che vedi dal cono d’ombra in cui finisce chi cerca.
Per sé.
Per semplificare.
Quello che costerebbe troppa fatica.
Capisci di me la sola parola che hai sentito
di tredici che sono state pronunciate.
La più comoda al tuo teorema.

 

L’anticipo del vento

 

Come lo sapeva
questo tabaccaio sconosciuto
che lì dove andavo
mi sarebbe servito
un accendino controvento?
Come ha capito (da cosa)
che acquistavo
sigari da viaggio
e andavo dove infuria la bufera
e la carta brucia male
(figuriamoci il tabacco)?
E’ questo piccolo anticipo di vento
il gesto che non chiede;
il regalo.
Il gesto che riceve.
Una folata che verrà.

 

di Roberto Carvelli

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Chiamata urbana urgente di Roberto Carvelli


Da dove mi vedi tu? Da quanto lontano mi leggi? Senza sapere chi sono e cosa faccio cosa pensi delle parole che trovi? Di quello che scrivo, che idea ti fai? Un tempo, tu non eri neppure nata, una frase ci avvertiva che stava per arrivare un’altra chiamata. Ci fermavamo sospesi aspettando di riconoscere le cifre di…Erano le mie o le tue? Non compariva un nome sul display. I numeri erano quasi condanne o premi che a uno dei due toccavano per destino. Arrivavano scanditi come in una roulette russa. Nei tanti anni che ci separano queste differenze elettriche scavano tra noi un guado che potremmo riempire solo coi silenzi o con storie mie che non sono tue. E viceversa. Tu digiti forse più veloce di me. Tu è possibile che fai passaggi più rapidi nel ragionamento. Passi da un discorso all’altro, da una dieta all’altra, da un convincimento all’altro in modo totalmente diverso dal mio. Forse baci in modo differente. Hai o non hai sensi di colpa se fai qualcosa in cui non credi ma che ti va di fare. Ti risolvi da sola cose che alcuni di noi forse risolvevano solo agitando nello scarico di responsabilità generazioni che precedevano o seguivano. Nei pomeriggi rari che passiamo insieme sento che arriva tutta questa luce tenue, il passo leggero di un’ombra che avanza, il soffio vicino di qualcuno che ti sta per parlare all’orecchio. E poi vai via e ritorni da dove sei venuta. Da dove, già? Per questo ora che tu non sei qui ma sei lì a chilometri di distanza e non so quando è previsto un nuovo incontro… Mi piacerebbe – dicevo – che sentissi nelle orecchie una alla volta le lettere del mio nome, le lettere del mio codice. Quelle che aprono il tuo desiderio e il ricordo un po’ appannato di giorni fa. Quanti? In questo modo comunico a te, telepaticamente, che ho voglia di sentirti. Tu ascolti, riconosci il mio pensiero, lettera per lettera, numero per numero, e metti giù quello che stai facendo. Sto arrivando da te. Anche se non subito. Appena avrai butatto giù sarò lì.

Roberto Carvelli: http://www.carvelli.it/dblog/default.asp

Il destino di chiamarsi Filippo – Di Roberto Carvelli


Il destino di Filippo è quello di essere l’uomo degli ultimi metri. Quello che nel calcio si chiamerebbe attaccante da area di rigore (piccola). Nel caso di Filippo vuol dire soprattutto essere l’uomo dell’ultimo minuto. Quello che qualcuno chiama o chiamerà a poco dall’evento. Quello che sarà invitato a una festa quando ormai i giochi sono fatti, gli altri già allertati o già partiti e per lui nessun cartoncino scritto. Una frase detta all’ultimo in mezzo ad altri discorsi. Anche nel lavoro sarà sollecitato solo quando tutti gli altri avranno detto di no. Una specie di ultima soluzione che accadrà forse solo quando tutti gli altri si saranno negati. Magari sussiegosi o contriti. Forse adducendo scuse miracolose e credibili, vaghe ma approvate nella loro nebulosità. Spesso, in verità, coincidenti con finali di Champions League, vacanze appese a ponti strategici, sabati e domeniche, festività più o meno soppresse. Lui accetterà e andrà senza tante ritrosie e smancerie e questo lo renderà l’Uomo dell’Ultimo Minuto. Ma non gli gioverebbe – né gli ha mai giovato, in verità, quando ha tentato di farlo – negarsi. Non gli porterebbe alcun vantaggio ribellarsi a quello che la Vita ha scelto per lui. Una città piccola per nascere, un  accento un po’ ridicolo fuori dal contorno della sua regione, una famiglia dimessa, studi sofferti. Gli conviene accettare, essere disponibile, sgravarsi degli eventuali contrattempi e dire “vado”. Non coltivare neppure per poco il pensiero che questa convocazione tarda, in realtà, non sia accompagnata da attese. Perché Filippo è in definitiva una persona stimata. Anche nell’ambiente del suo ufficio – una piccola ma agguerrita ditta che opera nel settore elettronica – dove viene ritenuto un risolutore di problemi (si preferisce qui usare la traduzione italiana per quell’ormai indifferibile ricorso all’inglese che spopola anche nel profilo basso della società in cui Filippo lavora). Eppure a lui non viene mai destinata una missione più costruita, pensata; non gli viene offerta la possibilità di seguire un progetto dall’inizio alla fine per dire: ecco i risultati che ho ottenuto sulla sfida che mi avete lanciato (delle volte, se ci pensa, gli vengono in mente parole altisonanti e un po’ retoriche per dire di un’altra possibilità che gli piacerebbe vivere). Tutto, in quest’uomo, è improvvisazione ed emergenza. E allora eccolo che sale sul furgone, mette benzina (ma perché lo lasciano tutti a secco quando si sa che va riportato in ditta col pieno!), cerca la strada (le indicazioni che gli lasciano sono sempre vaghe) e si dirige verso la missione da tutti non voluta. Forse per strada ascolterà la partita alla radio (anche lui è molto appassionato di calcio), abbasserà più volte il finestrino per chiedere indicazioni, scenderà e prenderà tanti caffè quanti necessari per raggiungere a “svolta a destra, seconda a sinistra, alla rotonda tira dritto” (quanto ci vorrà per avere un navigatore nel furgone della ditta?) il luogo in cui operare. Se si presenteranno dei contrattempi non potrà neppure avere la fortuna di chiamare qualcuno in centrale per sapere se possono mandargli questo o quello. Il cliente, spesso, sarà un tipo spazientito da altri ritardi, da vecchie ruggini e contrattempi che altri prima di lui hanno contribuito a creare o evitato di risolvere. A volte per incompetenza, altre volte per complessità, altre ancora per brevità o faciloneria.

E allora eccolo “sì sono dal cliente” dice dal cellulare. “Ok” dice a chi dall’altra parte gli annuncia che sta lasciando la sede e che da ora in poi dovrà cavarsela da solo. “Ok” dice a un ennesimo limite alla collaborazione. “Ok” ribadisce davanti all’evidenza dell’ingrato compito. “Non si preoccupi” è costretto a dire davanti alla furia dell’uomo che ora lo sta guardando bilioso e spazientito dai tanti rimandi mentre dalla centrale gli dicono che ora se la deve sbrigare lui. “Hai capito, Filippo?” Ha capito, Filippo.

Accende bassa bassa una vecchia radio su una stazione che trasmette “solo grandi successi” e inizia a operare. Cambia stazione: “quella che trasmette solo la musica migliore”. E suda. Abbassa il volume che ormai è un bagno. “Non si può aprire una finestra?” e non si può. Sono tutte bloccate per ragioni di sicurezza, dice il titolare. Il lavoro si presenta complesso anche perché si accorge – non lo dice al tipo che lo sta guardando come un cronometro – che qualche collega prima di lui l’ha tirata breve e ha omesso di fare collegamenti necessari, ha saltato passaggi, ha chiuso alla meglio quello che invece andava prima risolto, aggirando ostacoli ma creando problemi ulteriori. Si rende conto che ora – proprio a causa di questo – il suo lavoro sarà più lungo. Si mette il cuore in pace e continua. Fa avanti e indietro dal furgone per cercare pezzi. È costretto ad arrangiare collegamenti e fili senza poterlo neppure dire al titolare della ditta che sta lì pronto ad andare in escandescenze – già lo ha fatto nell’accoglierlo – davanti a nuovi rimandi. Cambia stazione. La sua squadra – eh già questa sera è proprio Il Suo Milan che gioca – sembra essersi indirizzata verso i tempi supplementari. La partita sembra bloccata sullo zero zero e non si vede luce. Gli attaccanti stanno lì a provare in tutti i modi a buttarla dentro ma nulla. E allora ecco che, inquadrato in lontananza (se potesse vederla in tv sarebbe questa l’immagine), si vede il suo beniamino iniziare a scaldarsi. Eccolo – lo immagina Filippo – che flette e allunga i suoi muscoli quasi quarantenni. Eccolo con il sopracciglio dritto, lo sguardo fisso, le braccia che ciondolano lungo il corpo, il collo piegato a destra e a sinistra cercando un po’ di requie alla tensione del quasi ingresso. Le mani passate sulla frangetta nervose mentre i piedi sfiorano la riga bianca laterale. Ottantesimo del secondo tempo segna il tabellone e poi il suo nome e il coro disperato dello stadio. Un coro sempre più raro: quello col suo nome. Ormai un nome da panchina, da foto più piccole negli album, un ruolo più riservato, una scelta di secondo piano per tutti i club tifosi in festa, le cerimonie, le parate di stelle. Ma lui – Filippo anche lui – non se ne fa un problema. Sa che ogni volta che arriva il suo turno è atteso al gol. E non se ne fa un problema. Dieci minuti? E un gol. Cinque? Un gol almeno anche lì. Ecco cosa deve fare: segnare. Buttarla dentro, gonfiare la rete, far zompare lo stadio in piedi in un urlo liberatorio e poi tornare a casa. La doccia, le interviste, i titoli dei giornali, i colleghi della prima squadra negli allenamenti successivi. E a casa. “Deve essere il destino dei Filippi” pensa Filippo, l’altro, quello del settore elettrico. Pensa che è un nome. Che forse un altro nome e sarebbe stata diversa la vita. Ripensa ai nomi non da ultimo minuto e gli vengono solo nomi brasiliani, svedesi. Pensa a quelli dei suoi colleghi. E al suo. Filippo. Un nome e un gol. Un nome e qualche missione impossibile ma non solo auspicata, attesa. Una specie di condanna. Non alla bravura ma alla fortuna. Tutto un mondo che congiura contro di lui: il tempo (poco), la tensione degli altri (troppa) e la sua (da cancellare, subito). Ed entra. Il radiocronista si infiamma. Il suo nome brucia. Cuoce nella bocca alla voce che ora lo sta osannando nella speranza – catartica – che possa essere la volta buona che una sua radiocronaca divenga felice e passi alla storia. Anche “radiocronista” è un mestiere con le stelle. Un lavoro con una cometa che ti deve passare davanti un giorno, una sera. Una finale dei mondiali o di un europeo. Una coppa alzata. Qualche bella immagine che ti rimanga attaccata addosso, più di una foto di matrimonio di un figlio, il rispetto dei venditori sotto casa, qualche forma di riconoscibilità d’accatto. No. Serve fortuna anche lì. E la radio di Filippo, invece, si spegne. All’improvviso. Mentre l’altro Filippo “si rende pericoloso”, “arpiona”, “piroetta”, “si svincola”. Tutti gesti eccentrici e disperati quelli dei Filippi: quelli sul prato verde e quelli in mezzo a questa matassa di fili elettrici messi insieme in un imbroglio scarabocchiato. Mentre tutto questo ginepraio gli si intrica nella mani chiede se c’è una presa per attaccare la radio che sono finite le batterie e almeno quella c’è. Così lascia quel viluppo di plastica e rame e il gesto di avere un solo filo nelle mani gli sembra di buon auspicio come quello del radiocronostica che ora dice tra l’emotivo e il confidenziale “dài Filippo, è il tuo momento, tutta l’Italia te lo sta chiedendo”. E pensa all’enfasi piena di retorica con cui gli affidano queste missioni disperate, quantomeno nella ristrettezza dei tempi. Questo problema in quella ditta solo tu puoi risolverlo. Venerdì sera ore 19 e appena finisci a casa, ti puoi pure tenere il furgone (come se fosse un provilegio). Già, appena finisci.  Dieci minuti un gol. Tempi supplementari un gol. Una ditta e un gol. Ecco, il destino di chiamarsi Filippo. Uno con le mani nei fili e uno che “si abbarbica al pallone”. E poi? E poi silenzio. Luci spente, voce che se ne va in un singulto e la matassa che diventa un riccio di buio nelle mani dell’altro Filippo. Mentre il titolare dice vado a vedere che succede. Aspetti che prendo la torcia. Ma il tempo passa. Ma la matassa non si districa. Lo stadio ora pare un concetto distante. Gli sembra di sentire il clac dell’interruttore che spegne il campo, che fa grigio il prato verde e lì, nella penombra, “ecco che sguscia tra gli avversari, lascia il suo marcatore sul posto” e in mano cento fili tutti uguali. Intorno solo silenzio. Intorno solo fili, buio e un caldo asfissiante. Poi, ritorna la corrente in un lampo accecante che gli disegna puntini sulla retina mentre il radiocronista urla a ripetizione “gooooool” e “fiiii-liiii-ppppo” come se fossero sinonimi. Esamina la matassa. Gli sembra di capire qualcosa. La allontana per guardarla a distanza, come per esserne sicuro e poi sì, dice, ho capito. “Che ore sono?” chiede al titolare. “Le undici e un quarto”, fa quello. “Ormai è andata, stanno finendo anche i supplementari” dice.

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Su Tonino Guerra di Roberto Carvelli


Mi sono laureato nel 1992 sull’opera narrativa di Tonino Guerra e sulle dinamiche di scambio tra questa e quella cinematografica (di sceneggiatore dei grandi Fellini, Antonioni, Tarkovskij, Anghelopoulos, ecc.). Il mio professore, Walter Pedullà, mi ricordo aveva qualche dubbio pur ammirandolo e apprezzandolo molto mi suggerì di sviluppare una “linea padana” con Malerba, Celati e altri. Io insistetti per costruire parte del lavoro su questa triplice complessità della sua opera (poesia, narrativa, sceneggiatura) e alla fine ne fummo soddisfatti tutti. Tonino Guerra l’ho incontrato diverse volte, intervistato alcune (una delle interviste è in Amarsi a Roma – Ponte Sisto). Un paio di volte gli ho chiesto una poesia e la sceneggiatura di un cartone animato per una rivista con cui collaboravo. Poi ho continuato a seguirlo sempre apprezzando la coerenza arte/vita che lo aveva fatto ritornare nei suoi luoghi in una sorta di bioregionalismo molto coerente. Posso dire oggi che molto nella sua opera – il senso di un magico naturale, uno psicologismo straniante e sdoppiato, il racconto dei luoghi abbandonati e la necessità di salvare il mondo contadino – mi appartengono come fossero miei. In fondo questo fanno i libri o i film: riempire di senso quel piccolo vuoto informe che da soli non riusciamo a disegnare pur intuendone perfettamente i confini lontani, le forme vaghe. Elementi di una composizione di senso di cui abbiamo spesso, appunto, solo intuito, odore o sapore. Così posso dire che la tesi di laurea e tutto il corso di studi (esami compresi) sono stati orientati a questa traccia di viaggio e di speculazione. La scintilla era stato un film pur non eccelso quale Il frullo del passero tratto da uno dei bellissimi racconti de Il polverone. I suoi libri (prima che Bompiani decidesse di ridargli l’attenzione meritata) erano introvabili, stampati per editori minuscoli o poco propensi all’editoria letteraria. Ogni sua nuova raccolta è stata, così, per me una caccia al tesoro. E questo mi piace che rimanga nella mia passione di lettore: non accontentarmi dei frutti del supermercato ma cercare quei sapori rari che spesso sfuggono ai nostri editori, recensori, lettori. Pur bravi sono spesso destinati a fare da cassa di risonanza del medesimo indifferenziato gusto dell’epoca che loro stessi spesso contribuiscono a creare con l’ingenua o insincera manifestazione di un’ottimizzazione selettiva che spesso ci allontana da altre – non comprese – manifestazioni della grandezza umana.

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