UNA CAPRESE AL CAFFE’ GRECO di Andrea Mauri – (di Emilia Barbato)


Uscito dall’ufficio mi perdo per le strade intorno a piazza di Spagna. Finisco sempre davanti alla pasticceria del Caffè Greco, quella con le vetrine antiche in legno decorato. I dolci sistemati in bella vista fanno riemergere ricordi di infanzia, quando mia nonna comprava un vassoio di paste, ma mi ordinava di mangiarne una sola. Le altre erano per lei. Da allora ho imparato a gustare i dolci con gli occhi. Li spio, li fisso. Rimango imbambolato davanti a glasse colorate, ghirigori vezzosi e gelatine tremolanti. Sprofondo in questo mondo soffice. Una vera cuccagna.
– Che gliene pare di questa vetrina? Facciamo un bell’effetto tutte insieme. Vero?
Controllo se alle spalle si sia avvicinato un cliente o qualcuno che voglia parlarmi all’orecchio. Invece via Condotti è deserta. Non so dove siano andati tutti. Spariti nel nulla.
– La vedo spesso venire qui. Non mi dà mai il tempo di parlarle. Deve essere parecchio timido.
Con la coda dell’occhio percepisco uno strano movimento tra le torte. Un tremolio che fa cadere lo zucchero a velo a terra. Allungo l’orecchio per capire se è colpa della metropolitana. Ha creato solo danni da quando la fanno passare da piazza di Spagna. Mi giro con decisione. Via Condotti è ancora deserta. Ma che strano che oggi non ci sia proprio nessuno in giro.
– Le piaccio?

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Raggianti sensazioni, testo inedito di Patrizia Calcagno


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Crescendo, mi ero resa conto di quanto egli fosse diventato importante per me.

Erano forti le emozioni che provavo, a tal punto da rendermi conto che qualsiasi altra azione, lungi dal guardarlo, non mi avrebbe lasciato distogliere lo sguardo.

Era stranamente labile ed intrigante la visione del suo calore su di me, così da percepirlo sulle mie ciglia e, dal momento in cui mi soffermavo a farci caso, le mie palpebre a stento sopportavano il carico di troppo trasporto.

Quando la concentrazione svaniva, ecco che riaffiorava un altro sentimento su uno sguardo differente.

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Prosa Giovane: Cristina Rizzi Guelfi


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Sono colei che blatera. A libera interpretazione dell’utente.

Intorno alle diciotto spuntavano le signore dai poggioli. I fornitori di minerale erano appostati sotto la pensilina del circolo. Ogni cosa poteva essere immobile, come dentro ad un televisore fasullo. Tutto sembrava a mollo in un brodo solidificato, ogni tragitto glassato nel latte condensato. Tutto immobile tranne la zoccola del paese.  Lei e il suo cane al laccio, le pantofole di vellutino e le mani piene di sacchi neri. Fusa nel bronzo da Michelangelo dopo un orgasmo notturno, che pisciava per strada e aumentava il ritmo fino a bagnarsi le gambe, si tirava in alto le collant tornando a farsi una sveltina per le scale così, senza neanche asciugarsi. Ricordo la mania di Anja per le finestre sul Kunsthaus Zürich. La scovavo sul canapè sempre macchiato di gocce bianche, a tutte le ore, fissare il fabbricato. Certe volte si udiva la voce di Zoe toccare i muri del bagno, come una scarpina giapponese a tacco alto che risuona sul cristallo delle ore perdute. Parlava della dannazione dell’adolescenza infilata come lardo nei condotti degli encefali adulti. Aveva letto qualche cosa, o forse aveva sentito una conversazione davanti al bancone del supermercato. Prendeva ad esempio il suo fegato, lo metteva nelle ciarle come chi parla di cuore nei rotocalchi e negli sceneggiati infelici. Una sorta di esca per le emozioni, un setaccio depuratore più importante del cuore. Una scimmia attaccata alla catena delle emozioni una cavia da laboratorio, una Laika sulla luna, qualcosa di totale. Si rivolgeva con l’impudicizia inerpicata e la dolcezza dei cuori raffigurati sulle cornicette fatte in oratorio, mentre scivolava sotto il lavello, nel prostrato reame dei detergenti in polvere. Una perfetta diva, fasciata in un collo d’ermellino con un Bloody Mary a fior di labbra e il kajal sbavato sulle gote, come il liquore Kirsch che cola su una torta di ciliegie di Zugo. Certe mattine nel corridoio si sentiva l’odore pungente dell’urina dei cessi, del malto e della lana folta che le monache chiamavano maglione. Io chiudevo gli occhi e aspiravo poppers.

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E’ strano pensare di essere cresciuta nella trincea della borghesia conservatrice, del benpensantismo, della perfezione maniacale, dei ponteggi morali costruiti su infanzie di John Wayne alla riscossa e un dio baluardo dell’umanità, su letture piluccate di filosofia à la page di irsuti sessantenni che tessono fondamentalismi lessicali per dare un senso a un’idea che non esiste e che va tenuta in piedi con ogni genere di ontologici chiavistelli.  Io con Guernica a destra e Il Grande Masturbatore a sinistra. Io che ho sempre creduto che l’astinenza sia l’illusione degli sconci. Fisso quell’ultima vena. Quella prima del gorgo che comincia con il tuo orecchio. E’ quella di un colore differente. Io e la mia boria in mano da pantalonaia di bottega. Sentivi i gatti gnaulare e copulare sul tetto, sentivi forse i cinghiali colare su qualche frigo. Ho trovato la mia scatola di latta e tessuti, se faccio cenno di aprire il tappo esce il tuo profilo, sul letto. E io sopra,nera, come sagoma da catalogo per paltò. Ho le giunture a punto croce, raggomitolata su di te, non manichino, neanche cerotto. Esce un fumetto dalla bocca di carta. Biro su carta, capelli e carne. Scrivo in metro alessandrino. Su un foglietto. Dopo su un altro. All’ottantanovesimo endecasillabo, sparpaglio e mescolo le mie parole come fossero tarocchi, li disperdo sul pavimento, rimesto ogni pezzo di carta e come una baccante pienamente appagata che ancora sente la sinfonia di orgasmi che l’hanno appena sbattuta fin nelle budella e colgo i miei versi, proprio come faceva Annika con i cetrioli. Come quel ragazzo che, accesosi d’amore per la statua di Afrodite, imbrattò il marmo  del suo seme e niente poté più pulirne la traccia. Così io attenderò che tu sia scultura, per profanarti. Perché anche da un porco può nascere l’amore.

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Il tempo delle fregole

Ho pedalini sparigliati. È molto impudente. Dovreste vedere, cosa mi ha fatto un agosto. Quello che maggio fa ai poggioli. Boccacce temperate, dietro orli di magliette bianche, nella danza dei fili. Ti ho visto annaffiare settembre come il godimento dopo l’angoscia, l’armonia dell’attimo bloccato, refolo nel lenzuolo al sole. Dovreste guardare la beatitudine delle cianfrusaglie e la ruvidezza dell’hydrodamalis stelleri trovato nel mare di Bering in una spedizione del 1741. Dovreste vedere come sto nei pantaloni larghi, come si sta con l’acqua bollente nella vasca senza la schiuma. Le bolle non mi tranquillizzano mai abbastanza, non di novembre comunque. E dovreste scrutare come non sto nella pelle, non nella mia. Di manica larga, nelle esistenze e negli amplessi degli altri. Non sto nemmeno nelle scarpe, mai. Perché l’amore non s’insegue, si aspetta. Ho pedalini sparigliati. È molto impudente. Siamo una locazione, sopra undici piani irreali. Sparigliati e vieni. Stringiti a me e al mio fucile da caccia. Leviamoci il cellophan e balliamo prima che termini la musica. Prima che la puntina arrivi sul solco, alla fine della spirale e si senta solo crtp crtp.

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“dio è il mio personaggio immaginario preferito”

Ho passato una delle mie vite ad avere piccoli archetipi ma buoni come una baguette. Lasciando nella mente, scie di farina di MetilenDiossiMetaAnfetamina e lettere in Copperplate Gothic Light. E’ che i miei archetipi sono stravaganti.  Una polonaise in tre quarti, oltre quel satellite di carta paglia con la grazia di merletto delle fronde di saponaria, l’amaro acidulo delle foglie di sicomoro  nell’acqua bollente. Un carosello caotico, imprendibile, oltre. Come in “Paprika” di  Kon Satoshi. Dove gli astanti vengono presi e le bocche singolarmente aperte fanno spazio a un plasticoso e giocondo imbuto ficcato fra i  denti. Ingoiare, ecco, è il termine legittimo, perché i globi oculari non bastano e serve il soccorso della bocca per digerirne la cavalcata impazzita di visioni oniriche. Spunto dall’elenco le mie vicissitudini su carta unta da pacchi. Con una matita ikea che sa di polvere di piretro; una lista di desideri bramati. Un frullato multiforme di ricordi angolati infossati tra le gambe, dentro la polla rosa delle carni e il rumore acido di Scott Henderson in una camera dove governano superfici in formica. Suoni che legano con l’amplesso che si bilancia e pescano il baricentro in un blues voracemente lento. E ricordo quando da femmina piccola mi accucciavo sulla canna di una bici e non cadevo perché qualcuno pedalava forte per me, mentre passavo davanti al sagrato della chiesa con in viso l’espressione del mio orgasmo masturbatorio da ateista mistica. Dopotutto “non posso farmi santa perché ho sempre in mano l’arma del desiderio” come dice A. Merini.

foto e parole di Cristina Rizzi Guelfi

words: http://emmapeel3.tumblr.com/

photos: http://cristinarizziguelfi.wix.com/cerebrumdyslexic

Prosa Giovane: Daniele Baron – Il Diario di Hermes


Maia Flore

Maia Flore

giorno n. I (neve)

il silenzio intorno e le orme a sporcare l’immacolato bianco: mi ha sempre fatto pensare tutta questa neve, non l’ho mai trovata riposante: il buio più cupo, più refrattario alla luce, terreno nero sepolto di pietre sorde, come il cielo in una notte senza stelle, a tratti affiorante, lancia occhiate torve sotto quel candore – qualche cosa si nasconde a rammentare la cenere del consumato ribollire della natura in fiore – gli scheletri delle piante evocano quel silenzio, fatto più di parole soffocate e di non saper dire piuttosto che di placida contemplazione – eppure in quell’ingoiare cotone avverto la violenza dell’ineluttabile processo di morte e di rinascita e mi sento di poter abbracciare la terra, mi annullo, come l’ombra a mezzogiorno aderisco totalmente al mio corpo disperso in mezzo a quel freddo marmo grezzo…

[…]

giorno n. III (equazioni lineari)

piede che schiaccia il petto e pesa dolce sul cuore, accolto poi nei suoi capelli biondi sparsi, profumati come grano = miele succhiato attraverso il suolo come nettare nel tentativo di strisciare come un serpente ai suoi piedi sacri, per quanto sudici (equazione orizzontale dell’amore passionale e divino)
ano che espelle l’ombra viva dell’anima, tutto ciò che non vogliamo sapere e subodoriamo = occhio che contempla il sole, per esserne accecato, spuntato in cima al capo come un osceno e beffardo buco dello spirito, a volte gonfio come un fallo, occhio pineale, erutta come un vulcano tutto ciò che forma il non-sapere (equazione verticale di Bataille)
accecamento per troppo vedere, nei campi di grano colpo di pistola e corvi che improvvisano una danza estiva = notte cimitero di stelle, grido in fondo a nere cantine umide, ratti sonnambuli rosicchiano idee chiare e distinte e istinti fermentano sotto forma di sogni in botti d’infanzia (equazione del veggente)
vene gonfie alle tempie riscaldate dal sole, ciondolo d’oro al suo collo nascosto nel profumo del seno, luccicante richiamo per gazze sempre in calore e tranquillamente affacciate alla violenza animale e cieca, moneta per comprarsi il lusso, al di là di ogni regola e di ogni invidia = putrefazione e materia fecale, acque sporche del pozzo nella cui freschezza amiamo in pieno giorno inumarci, cadavere sotto la luce della luna, argenteo riverbero delle acque salmastre di un porto ignoto (equazione alchemica)
IO = DIO (equazione della potenza)
sé = altro (equazione del divenire)
x è l’incognita del de-siderare, fiume che ci attraversa e ci disperde come particelle nel mondo, acqua nell’acqua, terra nella terra, fuoco nel fuoco, aria nell’aria…

 […]

 giorno n. V (a-capo)

nel testo sogno di interpretare e scrivere l’a-capo come assenza di capo o senza-capo e non come andare a capo nei due modi ammessi: come lirico passaggio (a-capo poetico), o come interruzione necessaria e logica al discorso, punto a capo (a-capo prosaico):
fine non evocata e giustificata dal principio
principio che non contiene alcuna armonica fine
improvvisa impensata interruzione.
E andare a capo senza accorgersi che
lo si è fatto
e farlo senza
necessità
a-capo significa: dare in pasto ai lupi il sapere accumulato, sentire l’eccitazione nascere da eserciti di idee in marcia senza comando, il loro solletico per tutto il corpo suscita erezioni meditate, il loro brulincante avanzare orgasmi di senso, il loro fermentare piacevoli deiezioni di sofismi cupi:
nubi, onde, tori, torri,
monte che s’ammantano di luce
sgualcite pagine di un diario: cartello stradale
mentre un mantello d’ambra mi ricopre come un sudario
il Battista ritrovato in un vagone letto durante il passaggio in galleria
danza con il capo sopra il vassoio
felice offerta di questo viaggio illuminato
per quanto notturno
occorre decentrare il volto come il cuore, volgerlo a sinistra, cercare l’ombra in cui giacere là dove non si trova: in pieno sole, nell’arsura dell’occhio divino – alzare le braccia verso il cielo per strapparne brandelli, alla cieca, dilaniare avidi l’azzurro come carne cruda di carcassa ancora calda (eleganti avvoltoi sanno lodare la ferocia – impariamo dalla loro pazienza nel volteggiare!):
c’è del nero oltre lo strappo ricucito della volta celeste, ferita di dio:
ecco la soglia!
è necessario de-capitare
il grano è maturo…

Andy Prokhwanderlust

Andy Prokhwanderlust

giorno n. VI (doppio ovvero i gemelli)

si comunica con il proprio Altro attraverso lo specchio in frantumi in una stanza vuota senza porte e senza finestre; i molteplici pezzi dell’immagine che ci sta davanti, nostro riflesso, rappresentano l’urlo ibernato dell’impossibilità di comunicare…
Immaginiamo che ogni pensiero, che ogni sentimento, che ogni espressione del nostro viso, che ogni singola fibra del nostro corpo, di notte venga rubato da un Altro che sia del tutto simile a noi – tutto ciò che con certezza pensavamo ci appartenesse, di diritto, nostra proprietà privata e intima, ci viene con altrettanto diritto portato via da questo ladro silenzioso e a nulla valgono la legge, a nulla l’autorità, a nulla le resistenze, non c’è nessuno che possa vedere e denunciare il fatto: quell’Altro appare identico a me e nessuno può contestargli di avere sottratto ingiustamente qualche cosa, poiché in fondo quell’Altro sono Io.
E’ il mio gemello identico: è specchio delle mie azioni, ripete meccanicamente ogni mio gesto, di proposito nello stesso modo, una frazione di tempo infinitesimale dopo, ma del tutto impercettibile dall’esterno e dagli altri, come l’aggiunta di un’eco alla mia voce – a chi non è capitato di provare questa sensazione: per la prima volta ha udito la propria voce registrata e gli è sembrata diversa, meno dolce, più metallica, quasi contraffatta, come la voce di un altro, e si è vergognato di avere pensato di parlare in un modo e invece di essere stato udito dagli altri sempre in un altro modo? Proprio questa è la sensazione che la presenza silenziosa dell’Altro porta con sé – possiamo non accorgecene mai, ma quando la intuiamo non ci abbandona più, come un’ombra che ci segue, la nostra ombra sempre attaccata al corpo, assenza di luce che si anima e che agisce al nostro posto e a nostra insaputa, quando vogliamo riposare (salvo poi venirci a narrare tutto con dovizia sadica di particolari, bisbigliando fastidiosamente nell’orecchio e prolungando così la nostra veglia).
Il nostro gemello è il retropensiero che ci smentisce dicendo l’opposto quando affermiamo qualche cosa come principio. Quando noi diciamo: “No”, lui dice: “Sì”, quando aneliamo alla luce, lui volge i propri occhi verso la tenebra, quando affermiamo di qualcosa che è bianco, lui intende nero; quando ci allontaniamo da una situazione spiacevole, lui ci si avvicina pericolosamente, quando decidiamo di sorvolare su qualcosa, lui interpreta il volo come un lasciare la scia di lumaca-aeroplano sul cielo…
A volte il mio gemello può interpretare i miei oscuri istinti meglio di quanto possa fare io e metterli in atto al mio posto: a nulla varrà allora tentare di rinnegarlo, di staccarmi dal cordone ombelicale che ci lega, a nulla varrà dire: “Io sono diverso, non sono lui”, solo perché non ho portato a realizzazione ciò che ho desiderato: ci penserà lui, mi guarderà di nascosto con i suoi occhi duri e con un ghigno che ben conosco, mentre si avvia a fare ciò che non riesco a fare. Quando affonderà la lama nel petto della vittima, quando sentirà il caldo sangue bagnargli le labbra, penserà a me, suo debole compagno da guidare sempre e da cui non si può separare mai, sua condanna e suo unico amore.
L’Altro cerca di cullarti in visioni consolatrici, dipingendoti diverso da ciò che sei, ma tu sai che l’immaginazione nasconde la rugosa realtà: ti dice che sei re in un castello, mentre fredde catene ti fermano i polsi e sbarre rigano il cielo; quando per miracolo potrai guardarti da fuori, con lo sguardo dell’Altro, ti vedrai simile ad uno scarafaggio che incespica stupidamente, muovendo le zampette in modo incontrollabile, come lo scarabeo e la sua palla di sterco, ostinato nel fare il contrario di ciò che ora ti pare ragionevole.
Ma la consapevolezza e il distacco durano poco: non ci si sbarazza facilmente del proprio gemello-altro che ci ingoia come un cannibale.
Ogni tanto ti chiedi se lui non sia in fondo altri che te stesso ma, per così dire, forgiato, plasmato, dallo sguardo delle altre persone: la tua passeggiata per strada, il tuo viso, la tua pettinatura, il tuo volto, le tue mani, tutto te stesso, anche la tua figura vista da dietro, la tua nuca, la tua schiena, tutto ti arriva filtrato dallo sguardo degli altri. A questo punto, ti dici: “Ecco! Gli altri mi rivelano ciò che sono per loro, in pubblico. La folla è lo specchio in cui mi vedo finalmente, ma, in fondo, io non sono così!” e ti piace rassicurarti al pensiero che nella tua tana sei al sicuro da quell’immagine pubblica falsa, dall’Altro che sei in piazza, che nei tuoi cunicoli puoi custodire e sottrarre a sguardi invidiosi e minacciosi, tesori e prede… Attento! Attento che quell’Altro non penetri di nascosto nel tuo nascondiglio e non ti faccia l’agguato alle spalle per usurpare il cantuccio dove pensavi non albergasse il pericolo! Sei proprio sicuro di custodire tesori, o si tratta soltanto di escrementi?
Sconcertato e esausto, dopo questo gioco di maschere, vorresti finalmente avere la pace che si raggiunge nel sonno e pensi di affogare l’Altro o nell’azione o rinnovando l’esercizio millenario del “Conosci te stesso”; vorresti che il tuo amato gemello (che ti aspetta a casa, che accende per te la stufa, che per te affila i coltelli) sparisse o non fosse mai esistito e pensi di sbarazzartene o con un gesto pubblico plateale oppure con la conoscenza esatta di te…
Tutto ciò è vano: una volta instaurato il gioco di specchi e la moltiplicazione dei punti di vista, l’unica speranza è vagare nel labirinto tenendo a bada le voci che lo percorrono, cercando l’uscita.
Occorrerebbe, lo sappiamo, risalire a prima della separazione, a prima del concepimento mostruoso dei gemelli, nell’utero…

[…]

giorno n. VIII (estasi)

“fa’ del tuo corpo il tempio che io sarò autorizzato a profanare, renditi preziosa al mondo al solo scopo di abbassarti davanti a me:
bocca aperta quando dici spirito – io intendo carne
occhi celesti quando contemplate il cielo – io so che sognate l’abisso
mani delicate e dita sottili, strumento preciso di lavoro e studio, accarezzate libri sacri  – io so in quali lordure vi sporcherete
viso serio e fine, serenamente affacciato a sorrisi di circostanza – io so dell’osceno abbandono, dello scompiglio, del rossore che si compiace di sé
voce flautata e intelligente sguardo, che sa mettere tutte le cose in ordine – io presento inarticolati gemiti, simili a preghiere soffocate, ed il roteare delle pupille perse nel bianco, come boa nel mare per immersi pensieri subaquei
capelli sempre riuniti in geometrie precise – vi vedo già sparsi ad accogliermi come un mare odoroso
andatura graziosa e incedere orgoglioso nella postura eretta – io immagino l’eccitante ritorno al quattrozampe animale
vorrei che il tuo pensiero più indicibile venisse ad alta voce declamato dall’altoparlante di una stazione come l’annuncio di un treno in arrivo o in partenza
vorrei che qualche cosa nel momento dell’abbandono al rapimento della frenesia mi ricordasse il tuo contegno dolce, misurato, musicale, della vita di tutti i giorni: un tuo abito, una tua espressione, un lampo negli occhi, un minimo dettaglio ancora intatto per quanto ormai isolato
e parimenti vorrei che, mentre ci troviamo in pubblico, io indovini da un tuo sguardo, o da un sorriso, qualche cosa che solo io posso sapere, che solo a me svelasti allora, quando eri persa”
quando ci incontreremo, so che non sarò più io,
avrò abbandonato me stesso,
sarò fuori – là dove sarai…

giorno n. IX (nigredo)

nessuna corrente magnetica tira i miei pensieri che ristagnano come acquitrino
e riluce il giorno in paesi che ignoro, mentre qui la notte si è fatta perenne,
senza magnificenza di aurore boreali…
e non penso e dunque non sono
nei recessi del mio corpo fermentano sordi i cattivi istinti: hanno  fessure e
antri ciechi e pioggia all’eccesso per lussureggiare come piante in foreste tropicali
un’insana atmosfera come un ronzio cupo tutto ghermisce, ricamando trapunte di febbre
il nero corteggia il verde turgido della vegetazione cieca, divenendone linfa
colonne verghe di una cattedrale limacciosa
guardano in su
senza speranza di veder luce, tanto è fitta la cupola,
e creano l’abside vulva, dove il seme sparso abbondante germina lo spazio per  l’assunzione pluviale
attraverso l’abbassamento infinito…
e radici s’infittiscono e annegano nella terra ogni segno chiaro e distinto,
marce radici – ebbre d’acqua,
soffocanti ramificate ripetizioni di ripetizioni…
e germogli immemori proliferano
sulla putrefazione precoce di ciò che nacque sempre rasente il suolo
demente abortito agonizzante fin dall’origine…
Cosa posso essere, se essere devo?
Ragno – segretamente laborioso –
che suscita ribrezzo solo a chi non si capacita
dell’inconcepibile osceno del creato –
intesso i fili delle voci che si avvitano nel mio cranio, come spifferi che gracchiano tra le orbite vuote del mio teschio,
come filamenti luccicanti di stelle che tramano nel buio
intesso, intesso, un invisibile ordito – buono solo per filtrare polvere, pare…
e affamato rimango privo di prede
intesso, intesso, ancora convinto del possibile miracolo –
ma per ora sto immoto inespressivo come una maschera di scena, abbandonata
dietro le quinte, risparmio i movimenti
guardandomi da fuori al rallentatore della noia
e sognando l’arsura silenziosa del deserto al meriggio,
la sua matematica precisione nel sottrarre liquidi e vitalità,
gioco a fare il morto
attendendo che una farfalla spensierata
nell’orrore del mio respiro intrappoli la sua gioia
e non penso e dunque non sono…

Elena Oganesyan

Elena Oganesyan

giorno n. X (putrefactio)

di ogni forma presagire la de-com-po-si-zio-ne
l’informe carezza al solvente, mai doma nel palese recesso
alla superficie cieca di una radura aperta e sommersa
e fitta ampia veduta murata
il segno del marcire fruttato, dolce come occhi gonfi
leccati dal mosto, fin nel rosseggiare dell’alba:
denti guasti nella bocca del mattino
moltitudine e deserto della mente
menzogna detta a fin di realtà
rabbocca il sogno – gusto di tappo:
sappiamo – fin dentro le ossa: fin nel midollo
fin nello sporco prezioso brillare – che tutto ciò che si dona
è in pura perdita…
“leva l’ombra – ti prego!”
geme la pupilla contratta dal sole penetrante
mentre dalla ferita nera del tramonto stuprato
germoglia il seme in falde terrose di gonna…
ma il cappotto – abitudine di un vecchio stepposo quasi inanimato –
giochi di polvere, polvere di giochi: chiasmo meccanico –
allo scheletro attaccapanni che lo imgobbisce
lasciato appeso durante l’estate
cocciuta memoria che sogna il marmo  –
il cappotto è l’anima assente
di pietra vorrebbe la propria statua
e la dimora
ma ora la scia di infantile trionfo s’alza:
mi risveglio in lacrime ebbre di rugiada al
fendente del gallo:
lacera l’aria:
annuncia
la fine
di ogni
speranza
e l’eccitante                 agonia                della
bellezza…

giorno n. XI (attesa)

«Chi credete di ingannare? In fondo voi sperate che qualche cosa venga  sottratto all’oblio. Che l’azione appianatrice del tempo lasci svettare qualche prezioso ricordo. Voi sapete che tutto è destinato a finire e fingete di averne piena contezza. Vi compiacete addirittura nell’enumerare le cose periture. Ma tutto ciò è artefatto: è evidente che vi illudete, che il vostro cinismo è simulato, che dietro il paravento della lucità si nasconde l’illusione di salvezza, che il vostro protestare e animarvi indignati contro ogni illusione è ipocrita. Altrimenti cosa fareste?! Avreste maggiore riguardo per ciò che si perde? Vivreste appieno? E’ evidente: voi volgete lo sguardo altrove e siete pronti al sacrificio pur di avere la certezza di un salvacondotto per l’al-di-là»
attendendo si vive
è vita l’attesa
probabilmente disattesa:
è attendere
ciò che per sempre non si saprà:
macchia cieca
luce dietro palpebre di morto
sciogli il nodo
accogli nel grembo le mie lacrime
io non è più
nemmeno un dio traduce in parola
il torto pesare del mondo
e il volo di libellula dello sguardo senza volto
mentre l’ala fa da àncora
alla rinascita in controluce
non giudicare ciò che rasente nasce –
il terreno meglio accarezza chi si piega senza umiltà,
chi sporca la grazia superba nel fango
bruco –
non potenza di farfalla
ma essere perfetto in sé
solo per chi ama l’opaco
divenire sempre lo stesso
del presente scevro di peso e di traino

(innocenza)

fumoso fermo-immagine come un racconto di guerra di nonno
cento pensieri foderati di nubi
come zucchero filato appiccicosi e lievi
inondavano cuscini
con gorgoglìo di risa e frescura –
bagnare il letto era un segreto amaro
come risvegliarsi colpevoli e
stare là in eterno rovello
se ancora in sogno si fosse
o se strappasse la rugosa realtà
necessaria tuttavia
una confessione
“tutto s’aggiusta” pensavi
e presto giunse l’irrimediabile come un ritornello
inopinato accadere e avanzare di ogni stagione

(esperienza)

divina impostura è ciò che si dà senza soluzione
all’ansia matematica di sapere:
si fa beffe del nostro affannarci
e piccoli restiamo di fronte al mistero:
il mai saputo che mai si saprà
è tutto ciò che c’è da sapere!
tragedia della nostra condizione:
si risolve in gioco di parole –
solo il balsamo del silenzio
è esatto nel non dire lo scandalo
della nostra dimora
fessura a cui avvicinare l’occhio
solo per essere inondati dall’erezione cieca
di luce in crepe di terra arsa
come pelle vista da vicino
istoriata …
ne aspiro l’odore
amo affogare ebbro
nell’abbandono a mondi
di nebulose di corpo
e dalle stelle
distoglier lo sguardo…

Biografia:

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Daniele Baron, nato a Pinerolo nel 1976, vive in provincia di Torino. Dopo una prima formazione principalmente scientifica, i suoi interessi volgono verso un ambito artistico e letterario. Le sue passioni si concretizzano soprattutto nella pittura e nella scrittura. Nel 2004 si laurea con lode in Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi su Jean-Paul Sartre, intitolata “La morale dell’autenticità”. Dopo gli studi, trova lavoro come impiegato presso un Comune. Nel frattempo continua l’attività di ricerca in ambito filosofico appuntando il suo interesse in particolar modo sulla filosofia francese contemporanea, sull’esistenzialismo e infine sul pensiero di G. Bataille. Insieme sviluppa il desiderio di elaborare un personale percorso di ricerca teoretica per una filosofia del divenire.
Tiene un blog personale: http://barondaniele.blogspot.it  e collabora alla rivista di filosofia on-line “Filosofia e nuovi sentieri”: https://filosofiaenuovisentieri.wordpress.com .

Prosa Giovane: Simone Di Plinio


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LA SOLUZIONE DEFINITIVA PER IL GIOVANE PREOCCUPATO

Secondo molte persone, il finale pirotecnico migliore per una giornata passata a gozzovigliare nelle proprie mutande scrivendo frasi nonsense su facebook e parlando del più e del meno con i primi capitati, è sicuramente sbronzarsi. Un’altra corrente di pensiero mette lo sbronzarsi soltanto al terzo posto, ritenendolo troppo informale e nutrendo lecite avversità nei confronti dei rigurgiti di ogni tipo. Per chi segue questa corrente di pensiero, i gradini più alti del podio sono occupati nell’ordine da: al secondo posto continuare a gozzovigliare, noncuranti della possibilità che un giorno ci si potrebbe trovare tutti quanti a gozzovigliare nel fango, in una strada putrida; al primo posto, padrone indiscusso di ogni finale di giornata secondo generazioni silenti di assassini della vita tranquillamente nascosti dentro comodi sacchi di carne ambulanti, le Veline in tv.

A questo punto del racconto, il grido soffocato di un pugno di uomini e donne con un cervello si perde nella notte, mentre la loro immaginazione viene pian piano bombardata da miliardi di voci gracchianti. Questa città è uno schifo. Non è una novità. Ma non è un buon motivo per smettere di credere che un giorno i sacchi di carne potranno serenamente rivelarsi uomini e donne dotati di un pensiero proprio. L’altro giorno ho detto ai miei amici che stavo scrivendo un romanzo. Uno si è girato di scatto e mi ha chiesto <<Ma dici sul serio?>>. Un altro paio tenevano la testa abbassata e le labbra corrucciate, con un’aria preoccupata in volto. Una aveva preso in mano il telefono per informare la mia famiglia dei fatti in modo da prendere una decisione provvidenziale. L’ultimo era così rincoglionito che rideva come un cretino, e probabilmente avrebbe fatto lo stesso anche se io avessi detto qualcosa come <<Ano blu, pensaci tu!>>.

Il resto di quella giornata l’ho passato seduto su un imbuto di porcellana rovesciato, in cerca di una illuminazione che mi mostrasse cosa cavolo non andasse. Insomma, capita spesso e a molti giovani, di pensare che questo posto non faccia per loro. Di credere di essere una Z in un mare di A. Di sentirsi così tanto diversi da potersi definire una specie a sé stante, che, anche visto il conto in banca, difficilmente avrà dei discendenti decenti. Sembra che il mondo si diverta a farci sentire sbagliati, al posto sbagliato, nel momento sbagliato. Sembra che siano tutti mezzi cretini. Ma qual’è la realtà?

L’illuminazione si può avere in condizioni che gli esperti definirebbero “molto particolari” (per inciso, non esistono veri esperti di sociologia, visto che chiunque si sia messo di buon’anima a cercare di comprendere i mali che affliggono la società, in questo momento è nel pieno dei postumi di una sbornia). Le condizioni in questione sono: trovarsi al chiaro di luna; essere abbastanza creativi da immaginarsi una cornice musicale adeguata; infine, ma non meno importante, essere pronti. Pronti a sentirsi come tutti gli altri. Perchè, eccezion fatta per pochi maledetti vampiri, sono tutti lì.
Nell’ambiguità della notte potrete pensare di essere soli, circondati da un’alone di fredda oscurità, che un po’ pervade anche la vostra mente, costringendovi a riflettere su quello che non avete. Ma, se ci fate bene caso, sono tutti lì. Al vostro fianco. Una fila di volti smarriti al chiaro di luna. Una fila di persone che non sono quelle che vorrebbero essere. E nessuno rischia di rompere il delicato silenzio.

Poi, dopo attimi di immensa solitudine, ognuno si alza e si allontana, pronto a tornare a indossare la maschera che portava prima. Ognuno, passivamente, complicherà un pò la vita di quelli che gli stanno attorno. E poi desidererà di scappare. Ma no cari, non si scappa da sé stessi. Certo, non ho la competenza di stilare diagnosi sociali concrete e coincise, ma credo che la voglia di evadere dalla nosta vita derivi da un diabolico meccanismo di sfiducia generale, che ci lascia soli, disarmati. La mancanza di fiducia in noi stessi deriva dalla mancanza di fiducia che gli altri hanno in noi. Mancano gli incoraggiamenti e gli atteggiamenti positivi, mentre tutti sono pronti a guardare male il primo che passa se lo fissa per più di un secondo e mezzo. Ma cavolo, se aspetti un attimo ti sorrido. Eccolo il sorriso. E invece si sente un “Ma che cavolo si guarda, questo…”. Ecco qual’è il problema. Disagio generazionale? Baronismo? Berlusconi? Il problema più grande è sempre stato tra le strade delle nostre città, dove ognuno si sente attaccato e isolato da ogni altro.

La soluzione definitiva per il giovane preoccupato?

Una soluzione definitiva? Ma andiamo… L’unica cosa che posso dire con certezza è che forse sarebbe meglio sbloccarci un attimo dalle nostre solite routine che comprendono il drogarsi (l’alcol, cari amici miei, è una droga), il trapanarsi i genitali pur di rimanere a casa davanti ad un pc completamente inutile, e l’essere freddi e scorbutuci. Gli altri sono come noi, solo che possono insegnarci qualcosa. Al contrario, noi siamo stufi di noi stessi ma con orgoglio continuiamo a torturarci, aspettandoci che un giorno le cose cambino. Io ho scritto questo articolo, stasera, invece di sbronzarmi. E voi, cosa farete stasera?

Andazzo Sonoro (canzoni che ho ascoltato durante la stesura o che semplicemente voglio suggerirvi):

Sigur Ròs – Hoppìpolla
Porcupine tree – Waiting
Muse – Invincible

PARETI

Una stanza non ha bisogno di pareti sfarzose e vetri pregiati per essere bella.
Gli oggetti emettono luce. Normalmente, questa luce, che è scomposta in più raggi, con lunghezze d’onda differenti, viene proiettata sulle cellule nervose che occupano una regione particolare del nostro corpo. Dalla retina, gli stimoli vengono trasmessi principalmente al lobo occipitale, che è una parte del cervello molto importante per la visione. Ma questi stimoli vengono anche smistati verso altre zone.
Alcune cose, che definiremo interessanti, quando vengono proiettate sulle nostre retine, e quando il messaggio visivo viene interpretato, donano una piacevole sensazione di coerenza. Non occuperanno quasi mai il centro del campo visivo, ma perlopiù rimarranno nella sua periferia. Da lì, nel loro insieme, che sia ordinato o no, regaleranno a chi sta guardando un contesto, che può rendere una stanza bella.
Nessuno sfarzo.
Nessun vetro pregiato, né vasi cinetici ipercostosi.
Purtroppo la stanza in questione non possiede, al momento, nessun ormnamento simpatico che rende la visione piacevole o graziosa.
Eppure questa stanza, da guardare, è veramente molto piacevole, lo stesso. Ciò perché in questa stanza, sul letto, a pochi centimetri da me, giace lei. Lei ha pianto stanotte, e piange ancora. Se potessi la aiuterei, ma non posso, io lo so. Non ho la possibilità di aiutare questa ragazza con gli occhi rossi.
È l’alba, e piccole chiazze di luce distratta entrano dolcemente nella stanza, attraverso i fori nella tapparella.
In particolare, uno dei fori viene inondato dalla luce di una stella che sorge, e questa luce filtra prepotentemente attraverso il foro. Ad una velocità impressionantemente alta, la luce arriva dalla tapparella fino al vetro della finestra, e il vetro si trova costretto a farsi attraversare dalla maggior parte dei fotoni, rifrangendoli leggermente, ma senza presunzione. Dal vetro, la luce, sempre molto velocemente, arriva precisamente su una palpebra della ragazza. La palpebra si solleva istintivamente, e la ragazza viene scomodamente a contatto con tutti quei raggi di luce.
Nervosa, si rigira sul letto, ed io per un attimo posso scorgere il suo viso.
Poi, sempre nervosamente, lo copre con la coperta, ed il suo viso torna ad essere a me nascosto.
Non fa niente.
Dopo pochi istanti, da un piccolo oggetto elettronico posto sul comodino, viene fuori un suono stridulo e distorto di un gallo, mentre
sull’oggetto appare scritto “sveglia mattutina, 08:09”.
La ragazza effettua una brusca torsione su sé stessa arrivando con il braccio sinistro ad afferrare l’oggetto, premendone alla rinfusa i tasti, convinta che pigierà anche quello giusto, per una questione probabilistica.
Così è.
La sveglia smette di suonare, e la ragazza, ancora più innervosita, può tornare ai suoi pensieri tristi.
Ciò non dura a lungo, perché oggi lei ha un compito, ed improvvisamente decide di scendere dal letto e portare a termine questo
compito.
Si sciacqua velocemente il volto, e torna in questa stanza, dove sono anche io.
Prima questa stanza era ornata con piccole cose. Figurine attaccate ovunque; una grossa cornice di sughero con delle foto; una cartina geografica del mondo, con attaccate sopra un po’ di spille, in punti strategici. Era una bella stanza. Ieri però, la ragazza ha staccato tutto. E credo anche che abbia buttato molte di quelle cose. I mobili sono ora tutti al centro della stanza, e lì viene messo anche il letto.
La ragazza raccoglie un secchio, e lo apre.
Infonde dentro il secchio una sostanza arancione, e mescola la sostanza con il bianco denso che c’era dentro. Un bianco denso dove finiscono le mie aspettative ed i miei sogni.
Quando sono arrivato, lo sapevo già. Sono arrivato qui nello stesso modo. Ricordo ancora il suono del dispenser di colorante nella fabbrica, e il suo cucchiaio di legno mescolarmi, mentre veniva impugnato dalle sue mani curate.
Anche quella notte aveva pianto.
Sarò soltanto un altro intonaco, nella sua stanza cangiante ma sempre bellissima. Pensavo che il mio verde l’avrebbe accompagnata fino a quando i colori avrebbero cominciato a mischiarsi o a scolorire, e a diventare poco importanti. E invece il mio destino è quello comune.
Quando ha finito di mescolare, si siede per terra a guardare l’arancione.
Poi mi guarda, e io la supplico di non farlo. Di non sovrapporre qualcun altro a me, perché poi non potrà più vedermi.
La vedo. È una lacrima che tenta di riaffiorare. Un piccolo scorcio della mia esistenza in lei. O forse no, e sono soltanto le mie speranze che ingannano una vecchia esistenza, ostinatamente aggrappata all’amore di questo luogo, ed ai suoi sospiri. Intinge con un colpo secco e deciso il pennello nel secchio, e lo tira fuori.
La cosa più buffa è che, a vederlo, quasi mi piace quel colore.
Invidia.
Ora è di fronte a me, e alza minacciosamente quel coso. La guardo, per un’ultima volta, e la amo, per un’ultima volta.
È bellissima, con quelle pantofole verdi e quel pigiama bianco e verde.
Sono sicuro che cambierà anche pigiama, e cambierà anche letture, e cambierà musica. Cambierà il suo mondo, apponendo qualcosa su qualcos’altro, al quale pensava di potersi adattare, ma che alla fine si è rivelato inefficientemente inadatto. Verde.
Continuerà, ogni volta che vorrà, a sovrapporre colori, e poi a riarredare la sua stanza. Cambiando figurine, cambiando foto, e inizializzando di nuovo i suoi lobi cerebrali.
Reboot.
Ma la sua stanza, così facendo, diventerà sempre più piccola. Gli strati diventeranno così tanti che non entrerà più luce nella stanza, e lei non avrà neanche la possibilità di capire qual’è il colore che sta guardando in ogni momento, perché la luce non avrà più spazio per insinuarsi.
Finirà così questa stanza. Qualsiasi siano le cose piacevoli e graziose che deciderà di metterci, nessuno le vedrà. E neanche lei potrà più gioire di un posto che qualcuno, e di questo sono certo, rendeva speciale, insieme a lei.
Io, dal mio canto, non posso sperare in nulla di migliore. Conosco solo ora la trappola che qualcun altro, tanti altri, han conosciuto prima di me. E rimango qui, tra un colore e l’altro, senza più avere la possibilità di guardare né sentire niente di quello che succede nella stanza.
Addio.

SgrnarF

SgrnarF non nasce, ma comincia ad esistere non appena il mondo lo chiama. Quando si accorge che era un falso allarme e che nessuno lo vuole, si sbronza e trova rifugio nella neurobiologia, nella musica, e nella scrittura. E nello yogurt. Presto si renderà conto che neanche queste discipline lo vogliono, ma nel frattempo, senza che voi ve ne accorgiate, avrà rubato il vostro tempo in modo del tutto inutile.