Delta E è uguale a 0 (6 Aprile 2009)


« C’è un fatto, o se volete una legge, che governa i fenomeni naturali sinora noti. Non ci sono eccezioni a questa legge, per quanto ne sappiamo è esatta. La legge si chiama “conservazione dell’energia”, ed è veramente una idea molto astratta, perché è un principio matematico: dice che c’è una grandezza numerica, che non cambia qualsiasi cosa accada. Non descrive un meccanismo, o qualcosa di concreto: è solo un fatto un po’ strano: possiamo calcolare un certo numero, e quando finiamo di osservare la natura che esegue i suoi giochi, e ricalcoliamo il numero, troviamo che non è cambiato» (La fisica di Feynman, Vol. I, Richard Feynman)

Il foulard legava il mio polso al suo, con una annodatura tanto stretta da farmi sentire il cuore pulsare nella mano mentre procedevamo lenti, a tentoni, nell’oscurità del parco. Avvicinavamo i nostri volti pallidi di fiamma accendendo ciecamente sigarette che fumavamo snaturati, siamesi dai ritmi variabili, non sempre sincroni, ce la passavamo con la cautela tenera dei menomati. <<Devo pisciare>> disse ad un tratto scoppiando sguaiatamente a ridere. Anch’io risi. <<Prego>> e mi scottai le dita, il braccio libero steso a stento, contrito come un’aluccia rotta, col polso torto e il mozzicone piccolissimo e furente fra l’indice e il medio. La scintilla cade, scende perpendicolare nel formicolio del buio, sul dettaglio immaginario delle unghie dei malati psichici, nelle fosse presagite con lo scavo di buchette tutt’intorno. Fossimo stati noi, pensavo io, piccoli e irrequieti come bimbi problematici;  giuochi di terra e anellidi, indaffarati come i canidi, agiti da una fantasia crudele e vivida e senza permissioni, né col perdono assolutorio da concedersi agli acerbi, a chi è in età più verde. Inizi a capire davvero mentre lignifichi nel corpo e l’aghifoglia sempreverde mi sembrava consolante emblema, al manicomio “Collemaggio”. Sentii dai movimenti vaghi del suo fianco contro il mio, la confusione che la sosta dovette procurargli; le pause del respiro che attenevano la consona formulazione di una frase. Cambiò argomento. Sorrisi per incoraggiarlo, ma me ne accorsi solo io.

F=ma Si tratta della formula fondamentale della dinamica. Si erge su tutte le altre e si misura con un nome illustre, come spesso accade nella fisica e nell’analisi matematica. Ho vagliato molte stringhe, la realtà fenomenica compattata in numeri questa però ha una valenza spirituale e allegorica nella proporzionalità diretta fra il motore e l’incremento di velocità

C’è un coefficiente è quella m F ed a sono vettori modulo, uno scalare quindi, la commensurabilità una direzione e un verso

Nella geometria i vettori sono determinati da un punto di applicazione A e uno finale, che puoi chiamare B i quali punti individuano una retta

Ora, la retta è per sua natura infinita il modulo rende la finitudine e consente il paragone

F=ma è una proclamazione di stato transitorio, avente in sé gli elementi finiti dell’esistenza terrena, dell’umanità coi suo attributi di imperfetto richiamo all’infinito e quel coefficente corporeo è un potenziale moltiplicato per l’accelerazione si traduce in forza lavoro in energia…

Il silenzio della luna piena. L’erba era alta, fuori sentiero incrostata di chiocciole e zecche

Un terremoto provoca due tipi di onde e di propagazione dell’energia all’ interno della Terra.

In superficie: latrano estratti vivi.

 Garrese chinato davanti al macello.

Tese d’acqua che sembrano espanderci i toraci molli, come calamari farciti di intromissioni radiofoniche stridenti e militari in marcia verso i cumuli ritorti delle case crollate. Calco la polvere ostentandomi al sole sempre più fioco nel fuoco dei roghi, tenendo nella mano l’ammasso cellulare palpitante, abortiva, che insanguina di un rivolo la verticale delle braccia sollevate a catafalco; folla di menti e gomiti, pregna di fiati concimanti d’urla. Mezzo di marcia carnanza, la fiumana fruscia e rumoreggia e ingrossa, attonita e complessa di compressioni roboanti, conciate corpulenze semivive e sacche addominali appesantite senza scarico. Issata rigida, oltre un ventaglio di dita bruliche, la creaturina diventa meno solida e sembra che si squagli saponando di calore grasso morbido, giallastro di tessuto connettivo, filamentoso, elastico. Ci si disperde. Corro.  Corro negli ospedali, sbatacchio le pareti di corridoi bianchissimi, cupi, notturni, ma coloriti di lanternine ad olio e ceri. Sporgendo ad alte porte, e bianche pure loro, la sudditanza degli stati interessanti silenziosi. Mite papalina d’orbita convessa e rilucente: la prima maniglia a tiro, tiro e tiro e ritiro inorridita dai lettini addossati contro al muro, barchette in una insenatura, senata, fra le crepe. I materassi singoli stanno appiccicati fra di loro con dei lenzuoli colorati che sembrano la mia trapunta da neo-universitaria, tirati sin sopra la testa, sui fusi stesi, e con al centro d’ogni d’essi un vasettino basso, sopra l’ addome sfiato, plastica e spugna verde infilzata dai fiori recisi, da camera ardente battesimo o festa. Conosco ognuno. La colpa del sopravvissuto. Mi sveglio. Fuoriesco. Esco. Mentre passeggio scorro crepe laterali sul soffitto nei portoni vuoti e gli interstizi sprofondati sulle scale che imbruniscono veloci. Sono passati anni. Delicate e pressanti le note si sommano. Nella fusione della momentanea dissonanza, eccoti, riesco a coglierti nell’interezza d’un secondo d’asma. Primo semestre da aspiranti ingegneri: in primo piano, vicino, legato a me, ma debole contro lo sfondo buio. La voce è così vaga che divaga, diventa mia:

∆E=0 Esiste però un altro principio è il principio della conservazione dell’energia totale

Premetto: questo principio non è assiomatico nel significato matematico del termine è tuttavia l’assioma principe nella meccanica, nella termodinamica, nell’elettrostatica ed è stato ricavato in maniera induttiva attraverso una moltitudine di prove empiriche

E’ verità

In un sistema isolato, il quantitativo energetico non può subire mai variazioni. E l’universo tutto può essere considerato un sistema chiuso. Se l’universo è un sistema chiuso, nulla vieta di includere l’oltremondo inteso come ulteriore guscio

Da qui l’immortalità

Esistono forze dissipative come l’attrito, ma non incidono Esiste la decomposizione corporea, forma analoga, la quale elidendo la m renderebbe inservibile il principio fondamentale della dinamica newtoniana

E’ la limitazione cardine eretta fra credenti e non. L’ energia è però intangibile e non si deteriora.

Mentre le forze dissipative ledono una misura fisica incrementandone un’altra, l’energia è intoccabile.

La si può chiamare anima.

La mutevolezza del pensiero di un individuo, l’imperfezione, cessa eliminando la massa; e quanto resta, la forza, ha proprietà di propulsore eterno

Un’equazione di equilibrio tanto perfetta non può essere scardinata

Pochi superstiti attardano in un brusio debilitato dal disfacimento stanco. Gerbida, congestionata e asciutta, lesa da un rimorso irrimediabile, arresa come un campo, ti stringo, adesso con le braccia chiuse in croce.


Dedicato alle 309 vittime del devastante terremoto che in questa data, sei anni fa, colpì l’area dell’aquilano. Agli amici perduti per sempre; alle famiglie di quei ragazzi che, come me, si trovavano a L’Aquila per costruire il proprio futuro. Un futuro che non avranno mai.


Simona Di Profio (Le immagini sono cliccabili e rimandano alla pagina dei rispettivi autori)

 

“La dissoluzione familiare” di Enrico Macioci [pt.2]


[Il tuo è il primo vero romanzo sulla Città, la nostra città, L’Aquila, (il già citato Terremoto è una raccolta di racconti). Nella DF è lampante uno sbilanciamento, c’è una tua chiara presa di posizione. Descrivi e critichi capillarmente alcuni delicati aspetti che hanno caratterizzato questi ultimi tre anni. Non ne senti la responsabilità in qualche modo? Hai mai pensato che stai fissando una tua opinione nel tempo? Infine, quanto credi, a freddo, di essere stato oggettivo?]
Torna spesso nelle tue domande la parola responsabilità. È giusto. Per me, in quanto scrittore, l’unica responsabilità sta nella storia, e cioè nel linguaggio che utilizzo, nell’immaginazione che investo, nella coerenza interiore dell’opera. Il resto m’interessa poco perché, anche se leggendo la DF potrebbe sembrare strano, io sono lontanissimo da qualunque tipo di scrittura politica (in senso stretto; in senso lato ogni scrittura che pretende d’essere seria è politica). A me interessa comunicare qualcosa; dopo il terremoto avevo bisogno di comunicare un certo numero di questioni che ritenevo urgenti; ci ho provato. Ebbene sì, ho preso determinate posizioni, narrando; ma mentre narravo non ci pensavo nemmeno un po’. Io credo al detto di D. H. Lawrence: è la Storia, non colui che la racconta. Fra il settembre 2009 e il giugno 2010, mentre scrivevo la DF, io non ero io; io ero la DF. So che tutto questo può sembrare esagerato, fantasioso o peggio ancora presuntuoso (una sorta di romanticismo d’accatto), ma per quanto mi riguarda è la verità – e forse è anche uno dei motivi per cui, subito dopo aver scritto un libro, perdo nei confronti del medesimo quasi ogni interesse, come facesse parte d’un tempo oramai esplorato, spremuto fino al midollo.

[Ho detto che ti avrei “distrutto” invece sono stato fin troppo buono. Bisogna rimediare. Sai, alcuni aspetti tecnici della DF non riesco a condividerli, non mi sono chiare le motivazioni che ti hanno portato a tali scelte. Iniziamo dal primo. Perché fai un così largo uso (a mio avviso quasi “abuso”) di descrizioni naturalistiche? Qual è il significato che gli dai?]
La natura – specie la natura abruzzese, fatta di montagne, prati, boschi – ha sentenziato il mio immaginario (ho avuto un nonno forestale che me l’ha fatta amare). Per me la natura rappresenta un mezzo per esprimere simbolicamente, iconograficamente, ciò che altrimenti dovrei spiegare, argomentare, intellettualizzare. Nel libro la natura (spesso associata a Sylvanus – uno dei personaggi principali) è la purezza, mentre la città è l’ipocrisia, la nevrosi, il Male. Dopo di che, mi rendo conto alle volte d’esondare dal punto di vista descrittivo…e tieni conto che il romanzo è stato sottoposto a un editing severo, che ha “tagliato” qualcosa come 400 000 caratteri…

[E ancora. In alcuni momenti del libro sembri non voler dare respiro e pace al lettore, riversi su di lui montagne di “schifezze” (mi riferisco ai monologhi di Lady Tenebra per esempio), valanghe di Male allo stato puro, perfidia gratuita appunto, non ti è mai venuto in mente di aver esagerato? Non hai mai pensato di star abusando dell’anima dei tuoi lettori? Non hai paura di sporcargliela l’anima?]
Io non voglio dare pace al lettore. Il lettore deve perdere l’orientamento, sentirsi spiazzato, mettere in discussione le proprie certezze. Quando scrivo voglio che il lettore non sia mai tranquillo – nel senso di appagato, intellettualmente sazio. Però odio il male gratuito (anzi tutto ciò che è gratuito, come dicevo prima) in letteratura; ho odiato per esempio American Psycho di Bret Easton Ellis, su cui condivido appieno il giudizio di Stephen King: un pessimo libro scritto da un ottimo scrittore. Ho odiato Le particelle elementari di Houellebecq, altro esempio di qualità applicata male, mentre non ho mai odiato le crudeltà dei Demoni di Dostoevskij o della Metamorfosi di Kafka. Per cui se nel mio romanzo esiste perfidia gratuita, non posso far altro che scusarmene e assicurare che no, non volevo essere gratuito, che ho agito in buona fede.

[E continuo. Le note. La sovraumana quantità di note. Per tutto il libro non sono riuscito a trovare un modo definitivo per leggere testo e note. Ammetto di averle lette tutte, ma ogni nota la leggevo in modo differente e questo, nelle prime pagine, mi ha molto rallentato. Nella “nota alle note” suggerisci al lettore di leggerle ma non fornisci indicazioni su come farlo. Non ti sembra una minima e veniale mancanza di rispetto? Non ti sembra, per rimanere in tema, un gesto irresponsabile?]
In effetti le note sono un bell’inghippo. Io le ho scritte interrompendo il flusso del racconto principale e poi riprendendolo, per cui consiglierei di leggerle interrompendo la lettura del testo principale per poi tornarvi, ma mi rendo conto che ciascun lettore deve trovare il proprio metodo. L’importante è che le note vengano lette; ho il sospetto che la parte più divertente – se non la più importante – del libro se ne stia lì; il che mi fa sorgere più di qualche dubbio sulla riuscita del libro medesimo, un libro cioè il cui valore risiede “in nota”… Gesto irresponsabile? Uhm…A costo di risultare noioso, ripeto che in letteratura l’unica irresponsabilità mi pare la gratuità; io mentre scrivevo le oltre duecento note del mio romanzo non solo me la spassavo, ma bollivo; sentivo cioè che era giusto e necessario ramificare la narrazione, che quella narrazione doveva venir fuori così; così e basta. Certo, ora un libro del genere non lo scriverei più. Ma lo riscriverei allora, se mi spiego; e tanto basta a dichiararmi innocente per l’accusa di gratuità e colpevole per quella d’irresponsabilità. Sì, sono un irresponsabile. E quando ho trovato in narrativa qualcosa di davvero interessante, qualcosa che mi colpiva nel profondo, ho constatato che quasi sempre si trattava di opere irresponsabili, folli, che osano fino all’estremo rischio del fallimento. Solo rischiando di fallire puoi sperare di non fallire.

[Maledetto. Altro che distruzione, ti sei dissolto tra le mie grinfie senza permettermi di scalfirti minimamente. Diamo uno sguardo al futuro. Sei uno scrittore molto prolifico e ti invidio a morte per questo, che progetti stai realizzando? Cosa bolle in pentola?]
Sì sì, sono molto prolifico, e ho scritto molte schifezze. Sappi che il mio idolo è Rulfo, uno che ha scritto un solo libro (di genio) in tutta la vita. Comunque: c’è un romanzo che ruota attorno alla figura di Arthur Rimbaud (un altro che ha scritto pochissimo, ma talmente bene che se ne discuterà in eterno), e poi uno strano racconto che forse concluderà la  mia attuale fase creativa. Certo che prima di tacere – non so per quanto – dovevo scrivere qualcosa su Rimbaud: lo leggo e studio da oltre vent’anni e non smetto di meravigliarmi per ciò che ha fatto. Un ragazzino che cambia la storia della letteratura mondiale, e lo fa in pochi mesi, trovando una sintesi inedita e sconvolgente, una nuova lingua. E poi uno dice che non esistono i miracoli…

[Vorrei chiudere questa nostra chiacchierata riportando un po’ l’attenzione sulla nostra città, cosa che non fa mai male. Come vedi la situazione all’Aquila da un punto di vista prettamente culturale? Non vedi uno strano fermento? Cos’è L’Aquila oggi?]
L’Aquila oggi è un laboratorio. Ho la sensazione (magari mi sbaglio) che negli ultimi decenni non sia mai stata tanto vivace culturalmente quanto dopo il terremoto. È un triste paradosso, in un certo senso. Ma in un altro senso è naturale: un evento come il terremoto è anche necessariamente una rivoluzione; niente sarà mai più come prima. Oggi L’Aquila è una potenzialità in atto, in espansione; qualche mese fa ti avrei dato una risposta più pessimistica, mentre oggi intravedo nuovi orizzonti. E, per evitare il rischio di cadere nel più becero ottimismo, mi fermo qui.

[Mi fermo anche io qui. Non ti ho distrutto e comincio a credere di non averti distrutto perché tu ti sei già veramente dissolto. Se non fisicamente, almeno nella tua essenza di scrittore. Permettimi un’ultimissima domanda. La dissoluzione è davvero l’unica soluzione al Male della società, al Male covato dentro le nostre famiglie, al Male che è dentro ognuno di noi?]
Beh, dis-solvere significa sciogliere, dunque sciogliere i groppi, i nodi emotivi, le sofferenze. Anche nell’alchimia la fase della solutio è fondamentale, è la prima fase detta nigredo, poi c’è l’albedo (o purificazione) e la rubedo (o ricomposizione). La DF è il primo romanzo d’una trilogia in cui vorrei esplicitare questo processo. Credo infatti che noi funzioniamo alchemicamente, che abbiamo infinite capacità di recupero e trasformazione. Del resto mi sembra chiaro che il genere umano deve cambiare, a meno che non voglia estinguersi. La crisi economica, la crisi ambientale, la crisi religiosa, la crisi politica, la crisi culturale…tutto ci spinge verso un cambiamento, e io credo che cambieremo.

Grazie Enrico. Mi piace infinitamente sapere che un grande scrittore è anche un mio buon amico. Grazie anche a nome di tutta la redazione di WSF.
Grazie a te, a tutti voi. E anche tu sei molto bravo. E anche io sono contento di esserti amico. E adesso basta, prima che ci scappi la lacrimuccia.

“La dissoluzione familiare” di Enrico Macioci [pt.1]


Del libro La dissoluzione familiare (Indiana Editrice, 2012) di Enrico Macioci ne ho parlato spesso proprio con lo stesso Enrico Macioci. Siamo Aquilani, siamo amici da diversi anni, era inevitabile. Ne ho persino scritta una recensione per Nazione Indiana (che potete trovare qui). Insomma ho già detto la mia. Permettetemi di ripetere, in estrema sintesi, cosa penso della DF, cosa ne penso prima di tutto da terremotato, poi da scrittore e solo in ultima analisi da amico: il libro di Enrico mi è piaciuto e molto, è un “dannatissimo” capolavoro, ben più di quanto lo stesso autore ammirabilmente ammetta. Non mi dilungo quindi sulla trama dell’opera, non una parola sullo stile del linguaggio, non tenterò di cavare il suo senso profondo. Lascio che sia lo stesso autore a parlarci del suo libro, il mio intento, in questa terza recensione dinamica, è soltanto uno: “distruggere” Enrico Macioci, vorrei cercare di metterlo alla corda o alla gogna, cavargli fuori l’anima se possibile, dissolverlo più di quanto la stessa stesura della DF non lo abbia già dissolto. La dissoluzione di Enrico Macioci.
Tuttavia una breve introduzione devo pur farla. Essenziale però. La DF è un libro che parla del terremoto dell’Aquila e della nascita di un bambino. Distruzione e costruzione. Morte e nascita. Un paradosso. Tesi e antitesi. Inevitabile quindi una sintesi. Questa sintesi è la dissoluzione. La dissoluzione di noi stessi fino alla misera semplice essenza. Resta poco e quel poco è tutto ciò che siamo. Dissoluto, l’essere umano diventa nuovo. Dissoluto l’essere umano è pronto per “festeggiare il Natale sulla Terra” (cit. A. Rimbaud).

[Enrico. La parola sta a te quindi. Vorrei iniziare chiedendoti la prima cosa che mi è passata per la testa non appena ho iniziato a leggere la DF: da dove ti è venuto fuori questo libro? Che diavolo ti frullava per la testa? E il paradosso, dimmi di quel cavolo di paradosso.]
Beh, anzitutto ti ringrazio, vista la tua intenzione di distruggermi…grazie tante davvero. Credo che il paradosso, quando iniziai a scrivere la DF (9 settembre 2009), risiedesse nel tempo: cinque mesi prima un devastante terremoto aveva sconvolto la mia città (e la mia esistenza), e sei giorni prima era nato mio figlio. Mi mancava letteralmente il tempo, stretto com’ero in questa tenaglia morte/vita, per capire cosa stava succedendo; così mi sono messo a scrivere il romanzone che, come tutto ciò che scrivo, è anche una riflessione sul tempo.

[Dopo Terremoto (Terre di Mezzo, 2010), un altro libro che tratta del sisma aquilano. Come credi che si possano collocare le tue due opere nello spettro ipotetico delle pubblicazioni post emergenziali, tra la speculazione più becera (non faccio esempi…) e il dovere (istinto) di raccontare quanto accaduto? Nella risposta precedente hai fatto cenno al tempo, è questo il tempo di scriverne? Non hai mai pensato di essere anche tu uno “sciacallo della catastrofe”?]
Certo che ho pensato di essere uno sciacallo, e forse in parte è vero. Cosa ci posso fare però se il terremoto mi ha reso uno scrittore migliore? È come se fossi in attesa di un tema, di un evento “reale”. Come se dormissi, da un punto di vista esistenziale. Del resto io scrivo sempre ciò che sento di dover scrivere in quel momento specifico, non sono mai uno scrittore “gratuito” – non mi sarebbe possibile. Diciamo che in Terremoto c’è un’analisi psicologica degli effetti del sisma, nella DF invece il terremoto è la “scusa” per analizzare un intero mondo, un’intera epoca, un’intera modalità umana terremotata. E ritengo che sì, sia questo il tempo giusto per scriverne, poiché il momento attuale è davvero sismico, sotto ogni punto di vista e ogni giorno di più.

[Che ne dici ti toglierci subito dai piedi David Foster Wallace? Hai dichiarato nelle interviste che hanno accompagnato l’uscita del libro di esserti ispirato al capolavoro di DFW Infinite Jest, che ti ha scatenato la lettura di quel romanzo? Come ti poni nei confronti di un modello così “mastodontico”? Non temi il confronto e, quindi, le critiche?]
La lettura di Infinite Jest per me ha rappresentato una scoperta e un divertimento impareggiabili. Quel libro è disperazione e gioia allo stato puro, vibra in una maniera infernale. Per cui da un certo punto di vista sono stato “costretto” a scrivere avendolo presente; e sì, sapevo che sarei andato incontro a qualche rischio – l’ombra di Wallace è bella grossa, nel panorama della letteratura contemporanea potremmo paragonarla suppergiù all’ombra d’una quercia secolare su un prato. Ma ho la presunzione di credere che il mio romanzo abbia tratto spunto da quello di Wallace in modo creativo. Per giunta le due opere, leggendole bene, sono molto diverse, a cominciare dal famoso elemento delle note: in Wallace stanno alla fine e uno può anche saltarle (benché siano spassosissime, specie la portentosa n. 24 sulla filmografia di Incandenza), nel mio romanzo invece le note s’intrecciano col testo fino a costituire una storia parallela, o meglio tante storie parallele. È come se La dissoluzione familiare consistesse in numerose strade e stradine che portano tutte allo stesso punto (l’OSF – Ospedale della Sacra Frattura), ma il lettore fosse comunque obbligato a percorrerle tutte…un tipo di perfidia del quale vado parecchio orgoglioso.

[Ecco, giusto alla perfidia volevo arrivare e più in generale al Male. Il mondo onirico che descrivi è maledettamente cattivo, perfido appunto. Nei vari reparti dell’OSF (scenario principale dell’opera) il protagonista incontra, al pari di Dante nei gironi infernali, la summa dei dolori e delle frustrazioni umane. Quanto questa perfidia è dentro di te, è tua, e quanto è fuori di te, quindi subita? E ancora il mondo dell’OSF è più metafora della realtà in generale o della realtà “terremotata”?]
In effetti, assai modestamente, avevo pensato all’Inferno dantesco mentre scrivevo le avventure del Principe Ham nei meandri osfiani…dunque sono contento se qualcuno, leggendole, opera il collegamento. La perfidia… Io faccio fatica a distinguere fra un dentro e un fuori quando si parla – astrattamente – del Male. Il Male è dentro di noi, certo, ma il mondo non è forse una gigantesca proiezione della nostra inesausta, infinita interiorità? Esisteva, sulla Terra, il concetto di Male prima di noi? Prima cioè che noi lo pensassimo? È chiaro: un terremoto, un’inondazione, una tempesta o un’era glaciale sono fenomeni esterni, ma non è quello il Male che m’interessa. A me interessa il Male intimo, il Male che fa parte delle cellule e della psiche (o anima) e che ci tenta ogni minuto d’ogni giorno, a ogni passo – un Male che, per giunta, diviene poi universale (tutto secondo me, macro e micro, è interconnesso ben oltre la nostra capacità di comprenderlo).

[Nel libro ci sono personaggi reali, da Berlusconi e Bertolaso a te (Ham Bank) e San G. (pseudonimo di un filosofo realmente esistente), anche se celati dietro nomignoli spassosi (vedi Berlusconi: l’Omni, il Vi-Deo, Il Più Grande Quel Che Vuoi Tu Di Tutti I Tempi, ecc..). Quanto ti ha messo in difficoltà raccontarli e quanto invece ci hai provato gusto? Non hai mai pensato alle conseguenze?]
Con Berlusconi e Bertolaso ci ho preso parecchio gusto, anche se mi rendo conto, adesso, che forse il romanzo ne esce indebolito. La cronaca invecchia subito, e Berlusconi e Bertolaso sono cronaca (Berlusconi anche storia, ma un tipo di storia fin troppo “romanzesca”, e dunque insidiosa da narrare). In sé i due non hanno nulla di cosmico; io ho tentato, attraverso la deformazione, il grottesco e lo straniamento, di renderli almeno un poco cosmici (amo le storie cosmiche, grandiose, d’ampio respiro, un poco incredibili); ma non so se ci sono riuscito. Riguardo gli altri personaggi che più o meno ricalcano mie conoscenze: no, non ho pensato a eventuali imbarazzi, era troppo divertente e necessario procedere; e poi il mio romanzo è palesemente esagerato, assurdo, parla di qualcosa che non può esistere. Mi rendo conto che ciò non mi giustifica a trecentosessanta gradi, e allora mi prendo tutte le responsabilità del caso…

[continua]

Terremoto, un aquilano in Emilia


L’unico modo per rendersi davvero conto di quanto accade in Italia è andando a vedere con i propri occhi. L’ho imparato sulla mia pelle e anche questa occasione la lezione si è dimostrata fondamentale. La prima cosa che posso dire sul terremoto che ha colpito la Bassa Pianura Padana è che ha trovato, come al solito, una Nazione impreparata, delle istituzioni fragili e farraginose, una popolazione inerme, unica vittima di tale ignoranza. Basta vedere un qualsiasi telegiornale per accorgersi dell’incapacità metodologica e della scarsissima formazione dei giornalisti, domande sempre banali, volte non “alla comprensione di” o “all’informazione su” un fenomeno, bensì alla disperata ricerca dello scoop, in preda alla sindrome da tasso d’ascolto. Basta osservare la macabra dinamica delle morti per capire che è stata sottovalutata, per l’ennesima una volta, la gravità dell’emergenza, la pericolosità di un evento naturale con cui invece dovremmo essere abituati a convivere. Le vittime del 29 maggio sono a tutti gli effetti “vittime di Stato”. Quante altre L’Aquila o Bassa Padana dovranno esserci perché si radichi la cultura della prevenzione?

Sono partito venerdì 1 giugno subito dopo pranzo. Cinquecento chilometri di strada e una ragazza ad aspettarmi all’uscita dell’autostrada Bologna Casalecchio. Si chiama Monique, è di Modena, non della parte di provincia colpita. Nel 2009 è stata all’Aquila per sei mesi come volontaria, un’esperienza talmente tanto importante che l’ha spinta a fare anche un documentario (Ottocentroquarantanove – Vita e segreti di una città dimenticata) di recente uscita. Abbiamo chiacchierato davanti ad uno sprinz cenando con l’aperitivo. Poi subito in marcia direzione Mirandola. Dopo la scossa dello scorso 29 maggio, la Protezione Civile e le autorità nazionali hanno deciso per un intervento massivo e capillare sul territorio colpito. Stanno nascendo le prime tendopoli e iniziavano a spuntare i C.o.c. (Centro operativo commissariale, omologhi dei C.o.m. aquilani…).

Arriviamo in via Confalonieri verso le 21.30. È già buio. Sotto gli alberi di un parchetto comunale, una ventina di tende da campeggio. Ci vivono alcuni residenti della zona che, come più volte sottolineano, non vogliono andare nella tendopoli della PCI, non si fidano, non vogliono essere militarizzati (in questo la lezione dell’Aquila ha avuto il suo peso). Ad aiutarli, tre ragazzi, appena ventenni, appartenenti al Collettivo Autonomo Studentesco di Modena, conosciuto come Guernica. Un signore di mezza età suona la chitarra sotto la tenue luce di un lampione. Hanno generi alimentari e di prima necessità, ma non ancora la corrente elettrica. Mi dicono che gli è stato anche intimato di andare nella tendopoli, o saranno incriminati per occupazione di suolo pubblico. Il controllo governativo del territorio è già iniziato, presto vedremo le forme del comando, penso. Prima di me, due amici aquilani, Sara Vegni ed Emanuele Sirolli, sono stati qui in visita, e nonostante ciò mi sommergono di domande. La più ricorrente: «quando potremo tornare a casa?» Credono che tutto quello che gli sta capitando sia passeggero. Gli dico che devono abituarsi all’idea che l’emergenza possa durare a lungo, che non c’è fretta di tornare nelle case, che il rischio è ancora alto e non ne vale la pena, che la sicurezza è fondamentale.
Consegnamo ai tre volontari due tende donate da amici aquilani, Nicoletta Bardi e Federico Bucci, e ci rimettiamo in cammino. Voglio raggiungere gli altri due aquilani a Finale Emilia e farmi raccontare quello che hanno fatto nei giorni precedenti, sapere la loro impressione preziosa di terremotati e condividere i contatti presi.

Li incontriamo alla sede di Manitese (in via Per Camposanto 7A). È quasi mezzanotte e la maggior parte della persone è andata a dormire. Faccio la conoscenza di Enrico, un rappresentate dei G.a.s. della zona. Un bicchiere di lambrusco e i loro racconti. Monique dopo poco ci saluta, la aspettano ancora 80 km di strada per tornare a casa. Noi continuiamo a chiacchierare fino a notte fonda.
La mattina seguente inizio finalmente la mia attività di informazione. Manitese è una ONG nazionale che opera nell’ambito dello sviluppo e cooperazione nei paesi del Sud del Mondo. Qui a Finale Emilia hanno un mercatino dell’usato, fanno attività di laboratorio artigianale e lavorano con i bambini. Conosco Bettina, Luca, Nicola, Gianluca, solo per citarne alcuni. In realtà in questi giorni qui si sono riunite almeno una trentina di persone. Tanti abitanti del luogo usano questo posto come punto di riferimento, come hanno fatto anche diverse associazioni regionali e nazionali (ad esempio il T.P.O. di Bologna e il nostro 3e32), che si sono affidate a loro per lo stoccaggio dei generi di prima necessità. Non solo sono (e saranno a lungo) referenti validi per questo genere di iniziative, sono già testimoni obiettivi, hanno il polso della situazione e, scommetto, diventeranno anche un soggetto politico decisivo per le sorti di tutto il cratere sismico.

Dopo pranzo mi unisco a Nicola, ad altri ragazzi del Manitese e ad alcuni volontari bolognesi per andare a distribuire generi alimentari e monitorare gli insediamenti di fortuna che ancora non sono riusciti a visitare. È l’occasione per me di rendermi conto del reale stato delle cose. Solo ora alla luce del giorno inizio a vedere i veri danni causati dalle forti scosse. La prima cosa che balza agli occhi sono i vecchi casolari, oggi usati come magazzini o abitati da cittadini stranieri. Molti sono crollati, a quasi tutti è venuto giù il tetto. Siamo passati anche per il nucleo industriale di Mirandola, davanti ai capannoni crollati il 29 maggio, dove ci sono state gran parte delle vittime. Un cumulo di macerie contornato dal nastro bianco e rosso. Qualche auto di curiosi. Nulla di più. Mancano ancora i ricordi dei cari, i fiori, le foto, l’avviso di sequestro da parte della magistratura. È ancora presto. Ci vorranno anni per la verità, anni per accertare le eventuali responsabilità. Film già visti. Il peggio che il nostro Paese sa offrire.

Dapprima ci rechiamo a Forcello, una piccola frazione di San Possidonio. Ci sono molti danni, anche in case di nuove costruzione. Rispetto all’Aquila i danni si vedono nei tetti, non al primo o al secondo piano. Dipende dal tipo di costruzione, dal terreno sottostante, dal tipo di terremoto. Le persone della piccola tendopoli autogestita appaiono stanche, spossate. Hanno fronti corrucciate, la pelle scintillante di sudore. Dicono di non volersi muovere, anche loro non vogliono andare nella tendopoli della PCI. Vogliono stare vicino alle loro case. Mi metto a parlare con un anziano signore. Sembra essere sul punto di scoppiare a piangere; so bene che è la paura che ti rende così, vulnerabile. In questo accampamento hanno ogni genere di prima necessità. «Portatele a chi ha veramente bisogno, noi siamo a posto.» Gli lasciamo poche cose per l’igiene personale e andiamo via. Ad occuparsi della distribuzione degli alimenti in queste zone è il Comune di San Possidonio stesso. Ha allestito un magazzino in una scuola, credo. Tutto il piazzale è piano di bancali carichi di bottiglie d’acqua. I locali interni quasi tracimano di roba da mangiare. Ancora una volta la solidarietà degli italiani si è superata. Così come all’Aquila, in pochi giorni si è scongiurato l’allarme per la sussistenza alimentare. Come all’Aquila, credo sia già arrivato anche troppo. Non vorrei si ripetessero le scene pietose che ho già visto. Non è questione di Nord o Sud, in una tale condizione di smarrimento tutte quelle cose ci cambiano, diventiamo avidi, invidiosi.

Scarichiamo entrambi i furgoni, al resto penserà il Comune. C’è altro lavoro da fare, bisogna andare in altre zone a vedere qual è la situazione, capire quali sono i bisogni reali. Con Gianluca ed Enrico visitiamo Concordia, Novi di Modena, S. Antonio in Mercadello, Rovereto sulla Secchia, Cavezzo e una piccola frazione gravemente danneggiata di nome Disvetro. Non ricordi tutti i posti, tutte le frazioni, non ricordo i loro nomi, ricordo le immagini, i volti, le parole, il caldo, la luce del sole, la Pianura Padana, il labirinto delle sue stradine comunali e provinciali.
Più andiamo in giro e più mi rendo conto che tante tantissime persone sono accampate davanti alle loro abitazioni. Dove c’è un giardino c’è una tenda, un camper, una roulotte. I miei compagni mi dicono che nelle tendopoli ci sono per lo più gli abitanti dei centri storici, molti dei quali sono extracomunitari, quelli insomma che non hanno un giardino o una rete sociale adeguata.
Nei vari campi che abbiamo visitato, tutti autogestiti (sempre perché è diffusa la sfiducia nei confronti della Protezione Civile), più o meno troviamo queste condizioni. C’è cibo e generi di prima necessità. Mancano invece tende, materassini, i materiali da campeggio insomma. Tutti pensano che l’emergenza durerà poco, non sono preparati anche mentalmente al “campeggio” prolungato. Nessuna tenda è isolata dal terreno o ha la copertura adeguata per il sole, ad esempio. Sono sufficientemente organizzati per la prima emergenza però. C’è già il referente del campo, è già chiaro con chi dobbiamo parlare per avere un quadro preciso. Chiacchierando la prima cosa che emerge è che non hanno idea di cosa aspettarsi. Sono comprensibilmente spaesati, confusi. Tanti, troppi sono già i “dice che” (le leggende metropolitane, in pratica) diffusi, dalle cause del terremoto, al grado impreciso dell’intensità delle scosse maggiori, dalle decisioni politiche ai tempi della ricostruzione. Ascolto, intervengo quando chiedono il mio parere di terremotato aquilano. Cerco di non andarci pesante, di infondergli speranza, ma di essere al contempo lucido e realista: «Vi tirerete fuori dalla merda da soli, facendo comunità, stando uniti. Non è negativo ogni intervento governativo, ma dovete stare attenti, controllare, monitorare, soppesare le promesse che vi verranno fatte. Anche se è difficile, non abbassate mai la guardia.» Alcuni hanno persino la forza (o forse lo fanno per rendersi conto di ciò che li aspetta) di domandarmi come va all’Aquila.  Qui divento impietoso, ma la mia speranza è che dai nostri sbagli come cittadini e dalla negativa esperienza di interventismo televisivo-governativo possa venir fuori una lezione preziosa per loro. Anche se non c’è più Bertolaso, a capo della PCI c’è Franco Gabrielli, “un personaggio della stessa parrocchia”, anche se non c’è quel fantoccio di Berlusconi, la cultura politica affarista in Italia non è affatto cambiata.

Rientriamo al Manitese che è ora di cena. Molte strade sono interrotte e riuscite a districarsi è complicato anche per Enrico e Gialuca. Attorno al tavolo ci sono almeno due dozzine di persone. Parliamo. Del più e del meno. Della nostre vite. Del terremoto. Del futuro. Dell’Aquila. Della tragedia umana che ha seguito l’evento naturale. Il vino ed il caldo della giornata fanno il resto. Alle undici siamo rimasti in pochi. Decidiamo di andare a dormire, per quel che si può. L’agitazione è tanta anche per me, per me “vaccinato”, così mi metto a fare una lista assieme a Emanuele, un kit per il perfetto terremotato. Niente di più che qualche consiglio organizzativo per evitare di perdere tempo prezioso.

La mattina seguente (3 giugno), mi sento telefonicamente con alcuni amici. Da Roma sta arrivando Fulvio (un amico che già si fece in quattro per L’Aquila) con un carico di tende e Quadruccio (aquilano terremotato che vive a Bologna). Arrivano quasi in contemporanea. Li presento alle persone del Manitese. Si parla subito di come strutturare gli aiuti, di quello che concretamente si può fare. Bisogna progettare una collaborazione sul lungo periodo. È importante non sentirsi soli. Sia per loro che per noi, sia chiaro. Emotivamente c’è un grande bisogno in questo Paese di sentirsi uniti, di sentirsi popolo, peccato doverselo ricordare solo nelle catastrofi o quando gioca la Nazionale.
Dopo un buon caffè e aver assaggiato una birra artigianale fatta da persone disabili (se non sbaglio) facciamo il giro della grande struttura accompagnati da Bettina che ci illustra tutti i loro progetti. In me si radica l’idea che è da un posto come questo che si può ripartire. Loro possono essere un punto di riferimento per tutta la Bassa, lavorando nell’informazione alternativa, studiando le numerose ordinanze governative che in breve li sommergerà, puntando sulla ricostruzioni sociale, l’unica assolutamente fondamentale. Riprendendo il famoso slogan friulano, direi “prima le persone, poi le fabbriche, le case e le chiese”.
Verso le cinque del pomeriggio iniziamo a organizzarci per ripartire. Domani dobbiamo essere tutti a lavoro e ci aspettano almeno cinque ore di viaggio. Il distacco non è doloroso, ci vedremo presto. Torneremo. Sappiamo di avere ancora tanto da fare. Abbiamo da consigliarli. Abbiamo al contempo un mucchio di cose da imparare noi da loro. “Ci salviamo da soli”, questo ho imparato con il terremoto dell’Aquila. Ci salviamo da soli ma solamente se riusciamo a stare uniti, ritornando ad essere una comunità. Così si combatte la paura, si combatte l’ignoranza dilagante, l’incapacità del sistema, così si combatte il malaffare sempre sempre in agguato. Questo è l’unico modo per ricostruire quello che la natura, per mezzo dell’imperizia umana, ci ha portato via. In questo fine settimana abbiamo gettato le basi. Ci aspetta tanto lavoro. «Forza!»

04/06/2012

Chiappanuvoli

[Non sono riuscito a fare foto, mi spiace]

Poesie sull’Aquila – [estratti dal PostSeismSix]


foto di Lorenzo Nardis

L’Aquila – Compagna reale

Frammenti di santità

trovo tra seni materni

e l’utero del mio seme

la calda nicchia d’ombra

.            nelle scalette senesi.

Tempra il gelo al mattino

l’anima dei nostri monti.

Da 99 templi

scintillano 99 gocce

sulle crudezze di 99 fortezze.

È corpo

molto più che altare –

martoriato –

uno spirito altro

.      perso che non è più che è

.                 mio:

.          antropogonie

.   apologetiche apocalissi

vimini  merletti  vermi  e  marmi

.                                      spleendidi.

Lì giù, più a basso

dove

oltre ogni altro alto

non puoi essere

.     (puoi non esistere) –

compagna reale –

il tuo abbraccio piumato

di due metri tra i venti

dal bianco al tramonto

poi lo sporco e le valli –

.                        volare –

compagna reale, a te fedele sarò.

L’effigie del mai presagito

 

Quel che stridette di certo
furono i denti nel fragore
improvviso del nostro tetto.

Nelle calme notturne ore
vano fu stringersi nel letto
braccati dall’atroce rumore.

Protratti sogni all’infinito
s’incastrarono nel sordo crollo
delle mura dal colore sbiadito.

L’impotenza scuote al midollo
coll’effigie del mai presagito
tranciandoti la vita nel collo.

Oh, dispersi negli affari di Dio,
sia la vostra memoria immanente
ogni giorno un sacro dovere mio.

Oh, figliol caduti delle Patrie,
possa la nuova pietra fondante
esser degna dell’anguste nicchie.

Oh, raminghi spiriti e tormentati,
abbia il cuor vostro forza bastante
per conceder grazia a uomini troppo incauti.

foto di Andrea Mancini

Nebbia

La mattina la nebbia

da qua sembra una città normale

.       sì,    umido e triste non c’è

.                                     che dire [non dire che c’è]

.                                                  [una città a morire]

Puoi sempre pensare

sia novembre, a tradire

qualche casa incantata

o il colore eccessivamente sgargiante delle tinture

rosso giallo nuovo viola verde

e la nebbia le bagna soltanto.

Cupe foglie di robinia (pseudoacacia)

.                          (immortalità e purezza)

.                        (innocenza)  (Massoneria)

.                      (questo amore solo platonico)

ricoprono rapide gli occhi della macchina

inarrestabile – è invisibile

all’essenza la nebbia

nasconde la città.

Il sole delle 9.28

ora lega/le

immagini

a quell’arco rifratto

.                         che osservo e FLASH

.                                           – Beh? Che

ti vuoi bruciare la retina, ammamma?

.                         (no, troppo indietro)

.                                 È OGGI

che dirà/da qui

questa nebbia

alla città

che –

cazzo si suona questo qua dietro?! –

Ritorna alla luce le foglie:

la chiesa tutta impiccata

tra le mura la bici crollata,

realtà infilzata nelle ciglia.

Ora/mai è sparita la nebbia.

Tragedia

Ho tre anni in più al calendario,

come trenta accovacciati sulle spalle.

Non ricordo più cosa sia successo,

ne percepisco solo tutto il tragico peso.

Ma non è una tragedia che è avvenuta,

è Madre Natura che c’ha strigliato un po’

.                                                 le orecchie.

Il canto del capro è una gara unicamente umana.

Ogni uomo s’è fatto coreuta, indossando

la propria maschera dalle caprine sembianze.

Folti pizzetti e corna ricurve sopra cravatte strette,

occhi spaccati dietro lacrime troppo illuse e colpevoli.

Il Tempo si è trasformato, così, in tempo assoluto,

hic et nunc” scandiscono la nuova realtà alternativa

–         la       nostra        realtà        surrogata          –

Il canto della dignità è un’ode meramente divina.

foto di Claudio Cerasoli

foto di Patrizio Migliarini

Chiappanuvoli 2009-2012

1096 giorni dopo, io dentro di te – [L’Aquila, 6 aprile ’09-’12]


1096 giorni dopo, io dentro di te.

(dal mio blog condivido con voi questo scritto a 3 anni dal sisma dell’Aquila)

1096 giorni. Sono solo giorni. Un tempo che non conta un cazzo. Non è il tempo che importa ora. Il tempo è solo uno spauracchio, uno specchietto per le allodole. Distrae, porta via altro tempo. Il tempo non si ferma, come non si ferma una città, del resto. Non si ferma un popolo. Non si ferma una Nazione. Non si fermano le bugie e non si fermano le verità. Tre anni che pesano come trenta. Non è vero? Si è fatto tutto denso. “Perché non mi hai ucciso? Perché non hai scelto me?” – te lo sei chiesto mai? Casualità, calcestruzzo, cabala, cemento. “Andare avanti, tornate a volare” – è tutto ciò che sapete dire. Il tempo si è rotto. E non vedo nessuno che sia capace di ammetterlo. Se ti muovo la sedia, se sbatto forte la porta, se spengo la luce all’improvviso. Sono cose che non riguardano il tempo. Non cambiano niente tre anni o mille. Solo la morte toglierà il tuo marchio. Per sempre, sempre con te. È lì dentro che voglio arrivare. No, non sono il tempo, non temere. Non scappare. Le tue sono solo moine. Lasciati andare. Lascialo sfogare, lasciami parlare. Tanto sono più forte di te, non mi puoi fermare. Troppo più forte. È questo che ti ha fatto paura? È questo che ancora temi, che ti blocca, che t’inceppa, come la più stupida delle macchine? Non abbassare lo sguardo, so a cosa stai pensando. Sono già dentro di te. Sono tutto ciò che sei. Oltre il tempo. No, non sono neanche una paura, la paura è già passata. Non sono un ricordo, il ricordo si affievolisce, e si confonde. Non sono una notte, quella notte è ormai passata, per quanto ti ostini a ricordarla. Non sono un rumore, il più terribile dei rumori. Lo ricordi, è vero? Quel rumore era solo il mio grido. Non sono una casa o una città, le case e le città non sono niente senza di me. Non sono la distruzione, la distruzione è solo una delle mie tante forme. E non sono neanche la tua distruzione, non sei distrutto. Vedi? Sei tutto intero. Anche se ci puoi passare un’unghia dentro a quella solcatura che ti attraversa quasi a metà, un piatto di porcellana scheggiato. Non sono una spiegazione e tantomeno una verità, la mia verità è l’unica cosa che non può essere spiegata. Non sono Dio. Dio è cosa mia! Dio, Dio al massimo se ne sta lì a guardare, come te. No, non sono neanche il terremoto, lui è uno dei tanti strumenti nelle mie mani. Lui è senza colpa, come una pistola o una spada sul collo di tuo figlio. Prova a fermarmi. Uccidimi! Uccidimi se ci riesci! Me che non sono nemmeno la morte. Anche se, devo dire, è la cosa che più mi somiglia. La morte è la mia forza magnifica, è la mia lingua, il mio messaggio per voi. Eppure io non sono fatto di parole. Non sono pensiero e non è con il pensiero che potrai anche solo inseguirmi. Sono dentro di te. Mi senti? Tutto ciò che puoi. Sentire. Sentire. Sentire.

1096 giorni. Sono un nulla. Il tempo non c’entra. Non c’entra la città, non è la tua L’Aquila. O le critiche, le lotte, le umiliazioni. Il bene che hai quasi già dimenticato. Il male che non dimenticherai mai. Non c’entra la giustizia. La giu-sti-zia. Senti? Riesci a sentire come mi muovo dentro di te? Le budella si attorcigliano all’aorta. Non c’entrano neanche i 309 morti e tutti quelli, innominabili, che sono venuti dopo. Per carità, anche io ho un costo, ma credetemi quando vi dico che con loro io non ci azzecco nulla. Quei morti, che lo vogliate o meno, sono causa vostra, sono cosa vostra. Il mancato allarme, la prevenzione, le case costruite male o dove non dovevano essere. Vedi? Non era mia intenzione prendermeli. Me li hai donati tu. Li hai sacrificati a me. Ma io non sono un Dio da saziare come il tuo stomaco. Io sono oltre. Io sono tutto. Sentimi. Mi senti? Puoi sentirmi?!

1096 giorni fa. Quel rumore infernale, più forte della casa che ti cadeva addosso. Il buio, la notte, le 3.32. Ricordi? Tu non ridevi. I figli nell’altra stanza, forse giù nel lettone grande, tra le tue braccia. O il figlio che ti scalciava nella pancia! Eri sbattuto dentro una centrifuga, e che altro descriverlo? Era il tuo mondo che ti vorticava intorno. L’impotenza assoluta. L’annientamento totale. I calcinacci, i mattoni, le tegole, la stanza, tutto il piano o tutto il tuo palazzo, crollavano su di te. Su-di-te. Ti cedono le gambe anche ora. Vuoi smettere di leggere. Fallo! Ma lo senti dentro, lo senti dentro anche ora. Più lontano, più profondo, ma c’è. Sentimi. Sono io che mi muovo dentro di te. 30 lunghi secondi, così ti hanno detto. 30 secondi in cui io ero con te. Contiamoli insieme: 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10 – 11 – 12 – 13 – 14 – 15 – 16 – 17 – 18 – 19 – 20 – 21 –  22 – 23 – 24 – 25 – 26 – 27 – 28 – 29 – 30. Io ero lì, ero dentro di te. Come ora. Calmati. Non è con le lacrime che mi scaccerai. Non sono qualcosa di cattivo, il male è una cosa solo umana. Non aver paura. Io sono la cosa migliore che possa capitarti di sentire. Di ricordare. Di riconoscere. Di accettare. E in quei 30 secondi di 1096 giorni fa, io lo so, tu mi hai sentito. Non riconosciuto magari, non ricordato, non accettato, per carità. Ma mi hai sentito, come mi stai sentendo adesso. Tra una lacrima e l’altra. Dentro, nel profondo. Nell’antro più remoto del tuo animo.

Io sono la vita. È me che hai sentito quella notte. E te lo ricordo oggi, dopo 1096 giorni. Non aver paura. Non aver più paura. E non volermene se te lo dico così, brutalmente forse, ma farmi sentire è stato il dono più bello che tu potessi ricevere. Non aver paura. Non aver più paura. Non sei solo. Non sei stato solo mai. Io per te ci sono sempre stata e per sempre ci sarò. Coraggio. Abbi coraggio. Hai ancora altra vita davanti. Non so quanta e non c’è dato saperlo, ma io, giuro, ci sarò sempre. Sarò sempre dentro di te. Non importa sotto quale forma, ma tu, tu ci sarai. Coraggio, Aquilano.

Chiappanuvoli