La piratessa della poesia. Intervista a Vera Bonaccini


Vera

Benvenuta su WSF Vera,

Grazie.

Quando nasce e si sviluppa in te la passione per la scrittura e quali sono stati i passaggi evolutivi che ti hanno condotta a scrivere poesie?

Credo che la passione per la scrittura, per quanto mi riguarda, sia una diretta conseguenza dell’amore per la lettura; una cosa del tipo: “Ehy ma i libri sono bellissimi! Amo i libri! Voglio scriverne uno!” e ci ho provato; da piccola, però, scrivevo solo racconti surreali che parlavano di gatti pirati spaziali che combattevano ingiustizie e inquinamento. La passione per la poesia, come per tutti, è arrivata con l’adolescenza, insieme alla convinzione di essere immortali e all’acne. Poco per volta ho capito che quello della poesia è il mio linguaggio personale e quindi eccomi qui a scrivere poesie, con buona pace dei gatti e dei pirati.

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Che cos’è per te la poesia ?

La poesia è un linguaggio e, quindi, citando Burroughs, in quanto linguaggio è un virus. La poesia, per me, è questo, un virus. Un’entità strisciante che ti si insinua sottopelle; la poesia deve contaminare, deve contagiare, deve lasciarti diverso da quel che eri prima di averci a che fare. Se la poesia non ti cambia è qualcosa di bello e interessante magari, ma certamente non è poesia.

Che colore hanno le “Cartoline da un paese in dismissione?”

Uhm, potrei dirti nero ma sarebbe troppo facile; diciamo che sono un insieme di colori che vanno dal grigio smog al rosso ciliegia passando dall’antracite dell’asfalto al bianco sospeso. In breve, hanno tutti i colori che si possono incontrare in una giornata no.

facendo fiorire il cielo

“Facendo fiorire il cielo.” Vera Bonaccini

“Le stelle sono andate tutte al cinema?”

Ecco, questo libro invece ha il color bruno fumoso di un jazz club non troppo grande, in una sera piovosa di Novembre.

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Qual è la carica rivoluzionaria della poesia in una società negazionista come la nostra?

Come dicevo prima, la poesia per me è un virus. La poesia deve essere essa stessa rivoluzione. In caso contrario non ha alcun senso. Oggi si scrive molto e ci si confronta poco, è un peccato. Ci sarebbero tante cose da dire, tante cose da fare… viviamo in un momento storico estremamente complesso, in cui è necessario ridiscutere e rivedere da cima a fondo gli stili di vita che abbiamo portato avanti fino ad oggi, in cui la poesia e la cultura in generale dovrebbero essere rivalutate e riconsiderate proprio per l’intrinseco valore di rivolta e cambiamento sociale che portano con sé. La poesia è, per sua natura, anarchia allo stato puro, ma oggi spesso diventa, invece, la reiterazione sterile di uno status quo. I poeti oggi vivono su Instagram, non nelle piazze. L’hashtag #poetaitaliano è il nuovo “sciame poetico” della poesia di Rimbaud? Che tristezza! Penso ad altri periodi storici, alla Beat Generation, ad esempio, in cui gli autori si confrontavano, si mettevano in gioco, scrivevano gli uni degli altri, erano attenti e vitali e, così facendo, rendevano la poesia reale e potente. Oggi ognuno fa il suo, tranne rari e bellissimi casi, e la poesia per lo più è diventata un campo sterile, asservito all’ego e all’apparenza; è un peccato. La fortuna è che i virus mutano continuamente, quindi aspettiamo e vediamo in cosa si trasformerà prossimamente questo variabilissimo VirusPoesia.

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Una tua poesia è stata selezionata sarà presente nel Il patto di Vera Q. Come puoi dirci di più?

Posso dire che sono felicissima e onorata del fatto che Vera, mia adorata e malvagissima omonima, abbia scelto proprio la mia poesia per fungere da antipasto a quanto racconta ne Il Patto. Vera Q è una grande scrittrice ed una grandissima donna; i suoi sono tra i migliori libri che abbia letto negli ultimi tempi, ha uno stile davvero particolare e un’ironia estremamente cinica e sottile. Esagero se dico che la adoro?

“I ragazzi non vogliono smettere”, Nagasaki luna Park, Guadagnare soldi dal caos, Little town blues , a quale opera ti senti più legata e perché?

Beh, ovviamente e banalmente per quanto riguarda i libri scritti solo da me, direi che mi sento più legata a Little Town Blues, essendo l’opera più recente e quindi quella che, attualmente, mi rappresenta di più sia per quanto riguarda le tematiche affrontate sia per quanto riguarda lo stile utilizzato. Tra l’altro è uscita da poco la seconda edizione, che comprende alcune nuove poesie, e sta piacendo molto. Devo ammettere che è un libro che mi sta dando molte soddisfazioni.

Per quanto riguarda invece le opere collettive, quella a cui sono più legata è indubbiamente “Nagasaki Luna Park”, innanzitutto perché è veramente una bellissima antologia di racconti e poi perché è stata la mia prima pubblicazione insieme a Nucleo Negazioni, collettivo mutevole, mutageno e mutante di cui faccio parte fin dal principio.

La tua ultima fatica poetica è Little town blues, come lo descriveresti?

Little Town Blues è un’espressione derivata dalla canzone New York New York di Frank Sinatra e si può tradurre come “piccola depressione cittadina”. Il libro parla proprio di questo; delle piccole depressioni che derivano dal vivere in un posto piccolo: Pietra Ligure, la città in cui vivo che mi piace molto ma ha comunque dei limiti notevoli; l’Italia stessa che è, e resterà temo ancora per molto, un paese piccolo con una mentalità piccola e, infine, la realtà di alcuni collettivi letterari con cui ho avuto a che fare che, troppo spesso, invece di veicolare il cambiamento e la sperimentazione, tendono a preservare una sorta di conservatorismo di pensiero sia dal punto di vista stilistico, sia dal punto di vista umano, tendendo a dare spazio sempre e solo a certi “specifici” soggetti. Nonostante tale premessa non è un libro triste o rancoroso, anzi. È un libro indignato, al massimo.

littletownblues

Fai parte del collettivo Nucleo negazioni redattrice della Rivista digitale “Bibbia d’Asfalto” e curatrice della collana Vertigini per Matisklo edizioni cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro la pirateria?

Assolutamente sì. Da grande farò il pirata, è destino! Nel frattempo, però, sto anche tentando di scrivere un romanzo e di preparare dei pancake vegani decenti.

Grazie Vera

Grazie a te

Vera Bonaccini Link:

http://www.matiskloedizioni.com/autori/verabonaccini.html

 

Le sfumature dell’anima di Ksenja Laginja


Ksenja by Giulio De Paoli

“Giulio De Paoli ph” 2015

Benvenuta su Words Social forum Ksenja

“La tua carriera artistica nasce sul tavolo da disegno, ma come sei passata dalle linee rette del  tecnigrafo a quelle morbide e sfumate dei tuoi lavori?”

Innanzitutto ti ringrazio, Christian, per questo splendido invito e ringrazio WSF, cara creatura, per l’ennesima ospitalità. Non ho mai vissuto passaggi e paesaggi così netti dacché ricordi. Sono partita dalle linee fluide per approdare al rigoroso silenzio della linea retta, poi tutte queste sfumature si sono sovrapposte in prospettive, assonometrie e ogni confine è caduto. Ho mischiato rette e sfumature perché entrambe mi compongono da sempre e continuo a seguire questo percorso. La linea, l’architettura sono il tutto, questi elementi sono rintracciabili ovunque e in queste terre tutto è possibile. Amo le linee rigorose, le figure geometriche, i tagli, le ferite e amo la fluidità della carne e dei liquidi biologici; tutto è rappresentabile e sviscerabile, anche le emozioni.

E credo non esistano confini precisi tra queste due visioni, o almeno mi piace pensare ciò.

“La contaminazione intesa come invasione di uno spazio da un corpo estraneo è particolarmente presente nei tuoi lavori. L’impressione che traspare dalla lettura dei tuoi testi poetici e dalle tue illustrazioni è una volontà di non isolamento nei confronti del nuovo, cosa apportano questi corpi estranei al tuo modo di creare?”

Questi corpi di carta, inchiostro, pixel e idee, rappresentano l’incontro dell’Io con ciò che vedo e vivo ogni giorno. L’isolamento non mi serve, se non nell’attimo in cui rappresento tutto ciò. Lì sono da sola. Ed è una fase delicata in cui mi chiudo per limare e asciugare tutta questa complessità di intenti. In ogni cosa che faccio cerco la semplicità. Non amo scrivere in “maniera complessa” perché non amo chiudermi di fronte alle persone, ed è bello quando chi ti ascolta, vede o legge di te, riesce a entrarci dentro, a sentire qualcosa. Nel disegno mi muovo sempre attraverso le visioni, ma in modo un po’ differente: qui posso lasciar fuoriuscire il nero che non riesco o non voglio incanalare nella scrittura. Questi corpi “estranei” arricchiscono il mio mondo, sono i figli prediletti che mi completano.

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Prospettive. I fotografi che hanno fatto la storia della fotografia: Omaggio di parole a Franco Fontana


“Il colore è una sensazione fisiologica, è un’interpretazione psicologica emozionale della realtà.” Franco Fontana

Quello che dice spesso Fontana è quello di essere se stessi e di non imitare nessuno. Però sia chiara una cosa: la fotografia, come la scrittura, è una cosa che si ha dentro, da sempre. Non s’impara e non si acquisisce col tempo: ecco perché i miei sono più corsi di vita che di pratica fotografica.

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Genova 20-21 Luglio 2001 – 12 anni dopo


“Il 21 luglio del 2011 siamo andati tutti a Genova. Ci siamo arrivati attraverso montagne e gallerie, e approdati sul lungomare il vento salmastro ci ha accolto, trionfante di sale e di secoli passati a far la guardia al Porto Antico e alla Lanterna. La luce obliqua dei pomeriggi di luglio ha accompagnato per un po’ il corteo della memoria, mentre veniva giù il tramonto, oltre le colline.
La manifestazione all’inizio sembrava timida di passi rispettosi su via XX Settembre, poi qualcuno ha fatto partire il coro, sgolandosi: «Genova libera!» e noi, tutti quanti, dietro. C’eravamo tutti, a Genova, a srotolare nomi di vie, strade, piazze, una toponomastica familiare alle nostre orecchie, quanto quella in cui siamo cresciuti e diventati grandi. Piazza Caricamento, piazzale Kennedy. Corso Gastaldi, via Casaregis. Piazza Paolo Da Novi, piazza De Ferraris, piazza Manin. Via Caffa. Via Tolemaide. Piazza Alimonda.
C’eravamo tutti, in piazza Alimonda, a deporre fiori sull’aiuola, con una candela in mano. Abbiamo scritto, ancora una volta, con un pennarello nero “Carlo Giuliani, ragazzo” sopra l’insegna stradale. Abbiamo cantato Bella ciao. Ci siamo stretti negli abbracci gonfi di lacrime.
Abbiamo risalito la collina fino ad arrivare davanti alle scuole Diaz/Pascoli/Pertini. Abbiamo ascoltato, abbiamo ricordato. Ci siamo riconosciuti nei nostri sorrisi.
Poi abbiamo ballato, dentro i soffi ventosi di schiuma che arrivavano dal mare, attraverso la notte.
C’eravamo tutti, anche quelli che sono rimasti a casa, davanti alla radio o alla Tv. Anche quelli che non hanno mai messo piede a Genova, anche quelli che erano già partiti per una qualche vacanza. I reduci di Bolzaneto e quelli che nel 2001 erano troppo piccoli per camminare. Le madri, i padri, i figli e i fratelli.
Perché l’unica battaglia persa è quella che si abbandona.
Ma noi eravamo tutti a Genova, nel 2001. Nel 2011. Sempre.”

dalla rete

carlovive

carlo

“So bene che nulla di quel che sto per dire avrà qualche valore, nè mi servirà a fuggire da quella triste morte, che mi sta lì ad aspettare e altro non attende ch’io finisca di parlare. Eppur forte, dentro me, sento la necessità di raccontare a tutti voi quel che avvenne in realtà: agii consapevole di quel che accadeva, quel giorno, ricordo, pioveva. Non sono qui per chiedervi nè vita nè perdono, ma per mostrare a tutti chi veramente sono: Non un assassino, un ladro, o un traditore. Ma un essere qualunque, con una testa ed un cuore.” Carlo Giuliani. Natale 1995.

no justice no peace

ANTONELLA TARAVELLA
Zena ricorda la nerapece dalla voce alta – che sotterra catastrofi
lo scavare nella sabbia per nascondere l’inchiostro – sangue
sotto tonfi d’aria e pugnali spianati nelle schiene da spezzare
questo sconsacrare carruggi e memorie di passi gridati
il sangue sale sui muri e sulle pietre mascherate ad arte
mentre sui marciapiedi fioriscono lacrimogeni come gramigne
rimbomba il boom circoscritto alle madonne che urlano
come quella madre che p i a n g e un figlio ucciso
sparso su questo cielo che nutre i gabbiani
di figli sociali che non hanno paura

genova

VERA BONACCINI
NON E’ SUCCESSO NIENTE
hanno messo in gabbia l’università quell’anno.
i documenti sempre pronti da mostrare agli sbirri sennò, in facoltà, col cazzo che c’entravi.
e prima di andare a lezione li guardavamo saldare, stupiti, quegli enormi cancelli ai bordi delle nostre sigarette.
gli esami preparati a cazzo, tanto per fare, che tanto gli appelli li avevano mozzati, e i rumori del porto che arrivavano invece dal lato sbagliato delle scale.
per comprare qualsiasi cosa dovevi uscire, documenti alla mano e sguardo basso, tra i pullman di infiltrati vestiti male che si disperdevano per i vicoli, nel caldo.
documenti, tesserino e libretto per registrare un solo voto in zona rossa.
– mi hai già controllato ieri, te lo ricordi? che perdo il treno dai, lasciami andare –
e i carabinieri che ci guardavano passare mentre uscivamo dalla sotterranea e a me sembrava di vivere in quel Cile di cui mi raccontavi da bambina, e quegli stupidi commenti sempre uguali sul fatto che non gli piacevano i miei piercing e a me sembrava equo, devo dire. in fondo, a me, non piacevano loro.
il luglio più strano di sempre, eravamo già in guerra ma senza saperlo.
ma a genova non è successo niente. il 2001 un anno come un altro.
questo paese è una spugna al contrario, non riesce nemmeno a trattenere il sangue.

***
GeNOva 2001-2011
questa città – se mai mi è appartenuta –
certo ora non mi appartiene più.
adagio gli occhi sui nostri luoghi
che hanno assunto – ormai –
la forma di sacrari e – nel silenzio –
i miei passi lenti paiono attraversare
un surreale cimitero
ed ogni insegna – ogni angolo – ogni strada
porta incisa – urlante – la scritta di PERICOLO.
c’era un mondo integro – prima –
dove ora giacciono – soltanto –
frammenti insanguinati.

acarlo

VALERIA RAIMONDI
Genova (per Voi)

Cantava la città sotto il cielo di luglio
nel primo anno del nuovo millennio,
danzava, rideva nel sole, e ancora
là in fondo brillava, ignaro, il suo mare.
Al telegiornale dell’una
un bambino eccitato tra la folla cercava
il berretto operaio del padre,
operaio in mezzo a studenti
ragazzi, precari, credenti
e ogni fede e speranza
si intrecciava a intrecciate bandiere.
Un mondo che nuovo si affacciava sul mondo.

Poi accadde qualcosa,
la città esplose coi fiori
e quel sole di luglio, il primo anno
del nuovo millennio
fu solo l’alba di un’età ancor più buia,
una storia già scritta,
di quando i canti si gelano in gola,
di quando il mare se ne fugge lontano.
-Bisognava però difendere la piazza,
quei fiori, proteggerli,
far loro da scudo! – si disse.
Ma chi poteva allora saperlo
che globalizzare pace, giustizia, lavoro
sarebbe stato allestire per bene la scena,
la vergognosa prova generale
di legale macelleria sociale.
REPRIMERE, CARICARE, CONFONDERE!
ORDINE, POLIZIA, SICUREZZA!
(Soffocare ogni fuoco di rivolta
e l’ imbuto capovolto che urla ragioni,
trasformare nel lutto, la lotta).

Perché ai suoi funerali la democrazia non viene invitata!
Perché i buoni e i cattivi furono divisi, schedati,
se non che i cattivi erano i buoni di prima
se non che qualcuno masticava preghiere,
qualcuno fuggiva laggiù verso il mare.
Qualche altro pisciava su quei marciapiedi,
non credeva ai suoi occhi, non credeva a quel fumo
ai calzoni e magliette bruciate, ai bastoni,
non credeva al sangue di lì a poco versato.
Scendevano lacrime inaspettate dagli occhi
quando si vide risorgere la Bestia
con il nome di sempre: POTERE.
Il potere che mangia la vita,
fioritura di sangue, carnivora bestia.

Così anche un ragazzo sbocciò
come un fiore, un acerbo diamante,
sbocciò come fosse stagione.

Il telegiornale alle 3 registrava ora solo
un’impronta, l’ ombra scura del sole.
Della folla il riso si spense in moviola
e scesero oscure sporche parole:
ai cronisti tremava la voce.
Una madre distraeva il bambino eccitato
che osservava quella festa un po’ strana:
– Cos’è tutto quel fumo e perché quelle urla
non mi sembrano, mamma, canzoni –

Ci si prese tra le mani la testa.
– Non è vero, non può essere vero! –
Fu spezzato un bel sogno
e sprecata una grande occasione.
Il silenzio di colpo calò,
come sempre restarono colpe
e nessuno che avrebbe pagato.
Si passò come sempre dalla parte del torto,
si tornò a coltivare il proprio giardino
seppellendoci dentro sogni, ossa e badili.

E davvero quella volta fu chiaro
che niente, più niente
sarebbe stato mai più come prima.

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“Estate, caldo, pomeriggi pigri e vuoti. Ti chiamavi Rio e tutti i giorni attraversavi il “fiume d’asfalto” di Corso Cavour per raggiungere il bar per fare due chiacchiere con i clienti abituali e assistere all’arrivo delle tappe del Giro o del Tour. Prendevamo un caffè insieme commentando le prodezze dei ciclisti negli arrivi in salita o nelle volate. Vecchio operaio d’altri tempi di quando il lavoro era sudore, così riempivi le tue giornate, da quando eri rimasto solo. Poi le immagini in diretta di una Genova sulle barricate, gli avventori che sfottevano la marea dei giovani che manifestava, dicendo “ma andate a lavorare” e tu mi guardavi facendomi capire che non eri affatto d’accordo. Le tue parole ancora me le ricordo , difronte alla protervia delle forze dell’ordine, schierate e nervosamente in attesa di uno scontro programmato: “che te pare non ce fanne scappà il morto ammazzato!”. Il 20 luglio, eri rimasto più dell’orario solito perché le notizie rimbalzavano senza avere una conferma certa, ci guardammo scuotendo entrambi la testa senza avere il coraggio di dire una parola. Te ne sei andato dopo pochi giorni, in silenzio.” — Carlo e Rio, un piccolo spaccato di memoria materna su Genova 2001

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“…è crollato tutto quanto in un istante, come crollerebbe un corpo senza gambe, un fuoco senza fiamme, il mondo senza donne, come un ventunenne che difende solo l’uniforme in cui non crede neanche.

l’aria era pesante, lacrimogeni e pistole, fuochi e sassaiole su tutto il lungomare, stoffe bagnate sugli occhi per nascondere l’orrore, e poi quel mare, quel sole, quella città irreale sembrava un ospedale a cielo aperto, senza pavimento, come un buco che collega il paradiso con l’inferno…”