Friday should be in love – Inedito di Alessandro Gabriele


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Sono dunque qui sotto da un’oretta appena, parcheggiati in seconda fila, adesso li vedi un po’ sfibrati ma non è che sia successo nulla. Tutta la sera c’è voluta per metterli così, un piede perno tra il freno e la frizione, lui, allampanato, allungato, ex-allupato ormai a quest’ora, come se la tensione vitale residua premesse per puntare il corpo, farlo apparire saldo nel buio come una piuma rilassata in un cassetto di cose sognate, più che altro.
Avresti voglia di parlare un po’ di lei, invece, questo lui pensa in seconda persona, ben sapendo che i pensieri delle tre sono rischiosi come telepatie in mano a un drappello di voyeuristi ciclotimici. Fai una carrellata intorno e scopri palazzi alti e stretti, un sonno asinino di stanze che guardano storto, come se la nullafacenza tipica con cui osservi la vita in finestra si stia solo riposando un attimo.
Ma non va male, non va male affatto, non vi credete.
Lui dice, ridice, in prima e in seconda, ma parla niente. Ha dei ricordi di sé in altri momenti fermi che non hai voglia di decidere nemmeno il prossimo respiro. Gli sembra che in sostanza ognuno si incarti in un millefoglie di eccezioni e ritardi, di complicanze messe in conto, di anticipi di dolore e cadute fisse in un mondo vaporoso e rallentato, come prima di confermare un Invio irrevocabile.
Non va male affatto, però. Ci sono quelli senza lavoro, allora, poveracci.
Così loro due si tengono il silenzio, non c’è nessuno che li legga e questo li fa sentire come un’onda del mare delle infinite cose di cui non occorre prendersi cura. E continuano a stare parcheggiati in seconda fila anche non ce ne sarebbe alcun bisogno, la strada che scende è piena di infilate tra macchine a pettine dove starebbero più comodi, più esclusivi, anche perdendo quell’insensata visibilità manifesta che un po’ li minaccia.
Questo tocca a lei intuirlo, poi a provare a dirselo pure, col linguaggio che sa: ma insomma, che diavolo vai a pensare, tra tutto il pensabile.
Sente freddo all’attaccatura delle cosce dove stringono le calze buone, ci mancherebbe pure una cistite in conto. E’ meglio che se ne stia zitta, zitta secca e con le gambe strette, senza nemmeno fantasie, e metterci sopra al massimo un sospiro ogni tanto, qualcosa che possa sempre venir comodo, ci dovesse essere un poi.
L’indicibile li protegge come una grande sacca anti-erogena. Stanno bene insieme in questa specie di preservativo dialettico, non crediate, stanno come avvolti nella carta stagnola delle proprie intime dolcezze, senza patire quel pensiero stomachevole delle caramelle vecchie nei supermercati, quelle che hanno già subito diverse estati addosso e si riducono a un orribile appiccicaticcio intorno alla confezione.
Così la mano che provasse a scartarle non saprebbe più come togliere quella sugna dal bordo infido delle dita. Così altrove, per un po’ di tempo, eviterebbe di stringere altre mani per la vergogna di insozzarle, e non sono proprio questi i tempi da essere scortesi del resto, non scherziamo. Basta che fosse una mano che conta a Tokio e tu ti ritroveresti a New York senza lavoro, e con la cazzo di farfalla che sbatte le ali su per la calza a rete potresti solo farci una tempesta di marchette, in qualche locale fuori giro dell’Upper East Side.
E allora ragazzi, andiamo! Che vogliamo fare?
Una cosa incredibile che hanno sentito chiaramente entrambe: “Andiamo! che vogliamo fare?”.
Una pressione esplicita, in un qualche dialetto colloquiale interno, ognuno per sé. Sono cose che vengono da zone che non ci appartengono, o forse si, le domande retoriche e i dialoghi interni cui reagiamo sempre puntualmente invece, radiocomandati da una centrale operativa socializzata, occulta.
Radiocomandi, onde elettriche, fotocellule, spettri di potenza, a lui piacerebbe ricominciare la vita da zero con roba come questa. Come non avesse già un peso di identità precedenti a pretendere sulla spalla, e anche i lavori, i lavori, e presentarsi agli altri sempre con sti cazzo di lavori in pugno alle feste, come se prima di mangiare ci fosse sempre da scazzottarsi di maniera, per definirsi.
Prendi loro due, in fondo stanno ancora al livello di una sola sera possibile, giocano a “non voglio saper nulla del tuo passato” come in un astruso rompicapo francese, lui potrebbe pure raccontarlo e lei potrebbe berla, anche affascinarsi, un esperto di apparecchiature elettroniche, forse eccitarsi, mostrare magari una via non faticosa per far saltare il banco, senza i soliti imbarazzi della forma del tipo: scegliere chi dei due e come si butterà addosso all’altro, e scartare vestiti complicati senza dare l’idea di volerli stropicciare, mostrare l’intimo che nemmeno ricordi bene quale hai messo, e far scattare chiusure, inumidire fessure, dire quello che viene di sporco, convergere dove pensi che finirai immancabilmente, se non fai attenzione.
Sono cose che si vedono nei film: un mezzo psicopatico depresso sfrattato da casa per more bancarie faceva diventare matti i nuovi inquilini agendo da un laptop il sistema domotico che aveva progettato e installato lui stesso. Oppure un altro film dozzinale in cui lei cede tipicamente di schianto, non ha nemmeno aperto bene il portone di casa che ti prende a calci le scarpe e si sfila le calze, mugola già un po’, e fa uscire prestidigitandosi in un soffio il vestito dalla testa, e di corsa lui dietro la spinge sul divano con una tempra da vecchio John Wayne che deve entrarci sempre. Insomma, sei su un canale locale e non è che puoi pretendere, ma comunque non guasta mai, il vecchio pistolero, e in definitiva ci casca sempre, lei.
Ecco ci siamo, le tre e mezza di notte e pure delle fantasie loro due, come di ogni altra cosa smarrita, stanno per perdere il filo.
Guarda adesso come a lei si illumini bene il volto grazie ad un Android che riverbera da una patacca di sette pollici che tiene in grembo. Ascoltiamo la prima parola assoluta che muove nella notte parcheggiata in seconda, come le si impenna un tono di caverna trasalita mentre pronuncia secca il verbo: “Messaggino!”
Dio, no. E invece si. Lui è pure contento di aver cominciato qualcosa, lei. Si gode di un senso finalmente ineluttabile di eventi che montano. Dietro la macchina arriva sbuffando un camion della spazzatura, lampeggia arancione nell’attitudine pesante del buio, come un sole fetente che erutta malamente a giro.
La faccia di lei diventa azzurrina wazzup, poi diventa giallo mondezza, poi di nuovo azzurrina light friendly, ma tutto per frazioni di secondo appena.
Ora lui se ne esce dicendo: “Ehi, ci dobbiamo muovere.”
Lei lo prega: “Aspetta un attimo, dai, che è la Betty e la devo rassicurare un po’.”
Lui del resto: “Ma cosa dobbiamo aspettare, scusa, non puoi tenerti la Betty appesa mentre faccio manovra?”
E lei: “Nooo, maddai. Ma che problema c’è?”
Indovinate un po’ lui, sempre più piatto: “C’è la nettezza urbana che ci lampeggia, penso che devono passare, diobono.”
Che poi cazzi e mazzi, dopotutto, è sicuro comunque che lei cederà, alla fine, si farà infilare, lui è certo che non ci sarebbe bisogno nemmeno di salire a casa, lei lo farebbe tranquillamente in macchina godendo sommariamente anche di più, in proporzione. Ora, non è che capisca molto, in genere, solo questa schiumetta animale che gli pare intuito, talvolta, e non è che si possa considerare che son tutte più o meno uguali quelle con cui si trova in seconda in macchina, di notte, tra il venerdì e il sabato mattina.
Dice lei, infine: “Hai risolto con laa cosa…la nettezza?”
C’è un grosso tipo in tuta arancio e grigio fosforescente fuori che sbraccia contro il finestrino. Lui lo guarda come guarderebbe un extraterrestre agitato, nel senso che: come ti rivolgeresti a uno che sclera perchè si sente inculato da un incarico che le alte sfere gli hanno fatto credere importante e lui ci è cascato, avrebbe potuto dire di no ma c’è cascato invece, vaffanculo?
Pensa lei, invece, che ciò che vuol sapere la Betty non è che glie lo possa raccontare ora, vivaddio, ci deve riflettere, ci si pensa sopra a cose così. La realtà si costruisce gentilmente, come il Lego con i bambini, diosanto. E quindi vediamo: la verità non si può dire, nemmeno una mezza tacca allusiva, non conviene affatto, bisogna controllarne due di livelli di significato poi, scherzi. La realtà è molto meglio inventarla di sana pianta!
“Dunque cara, quel che è successo ieri notte e che lui s’è accostato vicino a una macchia di cespugli, sotto casa, faceva tutto il carino nel solito modo, e sai una cosa…a me l’idea di tutti quei minuetti dei complimenti e del farsi aprire le porte e salire a casa, scusarsi, fare due secondi d’ordine, prendere da bere, mettere la musica, accendere l’Inverter poi girarsi coi bicchieri in mano, vedere lui spallato che non guarda altro che un punto, fosse la gioia poi, no, invece è un punto d’indecisione estrema perchè si gioca a casa mia e lui non vuole fare la figura del coglione, così non sa se deve bere tranquillo e iniziare con i complimenti slavati oppure far versare le grappe per terra e saltarmi addosso perchè crede che a me piaccia così, drasticamente, in fondo.”
Intanto fuori dalla macchina il fosforescente agitato ha mollato due pugni niente male sul finestrino, e lui sta pensando se si può permettere adesso di spostarsi con la macchina o se sia troppo tardi. Nello specifico, se lei si riterrebbe offesa dal suo poco maschio tralasciare questa roba qua che, scusate, è un po’ una provocazione, magari è meglio che scenda e l’affronti, che cazzo.
“Scusa cara, sta pensando lei, una seccatura, rieccomi da te. Dunque ti stavo dicendo che alla fine mi son fatta due conti e mi son detta ma senti, ma perchè no, poi! Se ne sentono certe in giro..così gli ho fatto capire, sdraiando il sedile, lui ha sorriso e mi si è avventato addosso, una furia, credimi, sca-te-na-too! Eh si, certo, ti pare che non vuoi sapere i dettagli tu, proprio tu, e fattelo dire, dai: troiona che non sei altraa!”
Lui ormai, fuori di sé e della macchina, sta facendo a pugni col netturbino agitato. Volano bestemmie, minacce, cartoni, spruzzi di sangue, ma nel casotto delle luci lampeggianti sparate a giro non è che si capisca molto bene la faccenda, ad essere sinceri.
Così lei si sposta al volante, s’aggiusta la gonna, chiude la portiera che adesso ha un freddo bestia tra le chiappe e sente una prima fitta di cistite. Allora riaccende il condizionatore anche se è troppo tardi ormai, c’è una luna gigantesca tra i palazzi e tutto l’arancio stroboscopico che dà una vaga nausea, mette in moto subito, senza pensarci, e se ne va.

di Alessandro Gabriele

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L’Apocalisse delle mani di Alessandro Gabriele


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Dal demone piazzato sulla sua spalla grondava un calore insopportabile. Eros Salvini era consapevole di star sudando in modo incivile, anche se gran parte del fenomeno si concentrava sotto l’ascella corrispondente alla sensazione, e fatto salvo che la questione, dopotutto, non lo smuoveva più di tanto.
Se ne andava sul lato contromano della strada stringendo la sua presenza intristita sulle saracinesche chiuse del marciapiede sinistro, in modo da proteggere almeno la zona di olezzo acido che la presenza del demonio sviluppava fuori di lui.
La gente lo incrociava sgarbatamente e lui teneva gli occhi bassi per una forma protettiva di compunzione sociale. Tutto quel saettare di sguardi di di valutazione, di sfida e di controllo, gli dava l’idea di una grande guerra mentita che si giocasse all’oscuro di tutto, come se la funzione collettiva del vedere implicasse il dominio schizoide utile a dominare la consolle di una playstation.
Non è che non avesse voglia di giocare, Eros, il motivo della propria risposta melanconica era dovuto all’incapacità di raffigurarsi una domanda, piuttosto, di formulare uno scopo. Sapeva di dover scontare una qualche forma di pena come tutti, comunque, e avrebbe voluto esser capace di interrogare il demone così, senza dargli troppo peso, per una forma sempliciotta di curiosità dissociata.

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Interstellar – Accelerazioni umaniste del cinema quantico di Alessandro Gabriele


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“Noi (l’insidiosa divinità che opera in noi) abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, onnipresente nello spazio e fisso nel tempo; ma abbiamo consentito nella sua architettura tenui ed eterni interstizî di assurdo per sapere che è falso.”
– Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni.

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Breaking Bad. Da Candido a Kurtz, ama l’Antieroe tuo come Te stesso di Alessandro Gabriele


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“Abbiamo bisogno di più consapevolezza della natura umana, perché l’unico pericolo reale che esiste è l’uomo in se stesso.” – C.G. Jung

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Managua, le scarpe de diòs di Alessandro Gabriele


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Ogni onda sa di essere il mare.
Ciò che la disfa non la disturba
perché ciò che la infrange la ricrea.

(Lao Tse)

Ciò che il pensiero raddrizza e delinea, l’anima piega e spruzza sulla tela. C’è poco altro da aggiungere al ritratto di un uomo, salvo che ogni pennellata è necessaria, che se qualcosa schizza via dall’insieme bisogna lasciarla andare senza rimpianti, che se stai andando bene o male te lo può dire solo una voce privata, un parlatorio di immagini in una segreta presso cui ognuno sta come recluso, in viaggio per tornare a se stesso sopra un mondo rovesciato. Ogni cosa ha il diritto di sbugiardare la faccia relativa che lo riguarda.

E’ vero, gli americani sono molesti, quando li incontri in viaggio fuori casa ti sfiorano col maleodore del senso della propria identità, un sentirsi ancora centro e sorprendersi del mondo che ha abitudini diverse dalle proprie. Gli americani fanno spesso la figura dei turisti di se stessi e a se stessi ritornano sempre. In effetti li senti, gli piace da matti sollevare il tono della voce che è già di per sé alto, imbastito, incartato in artifici parafonetici e ammiccamenti speculari che danno l’idea di un media sempre acceso, connesso, post-prodotto e lanciato nell’etere per colpire.

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E anche vero però che pochi incontri riescono a essere intensi e illuminanti come quelli con un americano maturo che viaggia da solo. Ce ne sono diversi in giro, ne ho incontrati quattro o cinque nell’ultimo mese, in Centramerica. Il primo veniva da El Paso, sulla frontiera col Messico, e non parlava una parola di spagnolo. Aveva un grande zaino sulle spalle e si preparava a dieci ore di trekking per raggiungere la bocca del vulcano, aveva una faccia rilassata e aperta e sorrideva delle proprie mastodontiche inattitudini.
L’ultimo avrà avuto settant’anni e con lui mi sarei fermato volentieri un paio di giorni dopo aver sentito la dolcezza del tono della voce, il parlato chiaro dell’immagine di se stesso, un ex-broker impaccato di denari, ex-spennapolli e potenziale omicida che alle spalle aveva abbandonato già tre o quattro vite e identità intere. Girava il mondo con l’orgogliosa canizie rivestita di magliette alternative da sbarbo, sguardo infuocato e comprensivo, velocità e tono variabili, una modulazione di savoir-faire che inchiodava alla parola, all’esserci pienamente, era magnetico come un maledetto santone del dopobomba.

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All’aeroporto di Madrid Barrajas ho fatto uno stop-over di cinque ore dopo nove di pullman e undici di volo in cui non sono riuscito a dormire un minuto, alla fine di un lungo itinerario appassionato. E’ stata un’ecatombe del pensiero lineare, un trionfo dell’imprecisione del parlatorio animistico in un carcere di stanchezza. Parecchie oscurità hanno ballato in assenza di controllo vendicandosi di me, gli istinti sollevati dal torpore della vita automatica, insensata, che la stanzialità dei ruoli sociali classici di solito ci impone hanno preso il controllo e l’articolo che pensavo di scrivere sul Nicaragua se n’è andato per conto suo a entreneuse.

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Al Viavia Hostal di Leòn, piuttosto, le tre di notte le ho fatte prendendo a pugni un ventilatore rumoroso che non sapevo se fosse meglio o peggio del cercare di dormire nel calore della stanza, l’ho preso a pugni fino a staccarlo dal muro.
Nelle pause del mio incontro di boxe, all’angolo del sonno che stava per calare, giovani alternativi backpackers del mio occidente rientravano nelle stanze accanto sacramentando alcol e nevrosi precoci, insoddisfatti della notte centramericana da poco trascorsa, votati a quel deplorevole litigio di coppia che non si soffoca e non esplode mai ma rode il sonno di tutti intorno fino a venti-trenta metri, oppure semplicemente persi nel perimetro di voce alta delle proprie minchiate aleatorie, uno shampoo dimenticato, una fucking Jenny che non si trova, una conferma dell’ovvio provinciale che stiamo diventando tutti.

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La mattina dopo ho realizzato una magnifica sintesi pop. Il popolo degli alternativi in viaggio globale si classifica per il tipo di calzature inforcate: sportive, birkenstrock o semplici ciabatte, di quelle che fanno cik-ciak ostentando cheap coolness. Io, come tutti gli attempati della specie, sono tendenzialmente un tipo due, per la cronaca, difficile dire chi tenga più ragione e suola, nell’incertezza ho sviluppato un saldo appiglio provvisorio: è meglio diffidare dalle cik-ciak, sono scomode e sciatte, spesso e volentieri, inoltre si associano al settanta per cento con questi giovani di ultima generazione che sono sempre connessi, incuffiettati, che si portano il Pad anche al cesso, che non sollevano quasi mai lo sguardo che al cinguettio dei propri Samsung-android.
Così alle sette della mattina successiva ho raddrizzato alla meglio il ventilatore abbattuto per non farmelo mettere in conto, ho rifatto velocemente i bagagli e me ne sono andato a cercare un hostal locale, più spartano e meno molesto.

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Andando via, sono passato sulla piazzetta davanti all’università dove i giovani Leonesi si riuniscono a decine per giocare a calcetto, a basket, per saltare sugli skateboard, chiacchierare, preparare accoppiamenti o quant’altro di cool la vita riservi. Si vacilla un po’ in questo spiazzo dominato dal grande murales che rappresenta crudamente, in una grande drammatica scena collettiva, l’esercito di Somoza che il ventitre luglio del ’59 apre il fuoco sugli universitari che manifestano e ne ammazza quattro.
Leòn è gonfia del sangue rappresentato sui murales, piena di questi sacrari della memoria rivoluzionaria che riempiono angoli di mura dove sono ancora evidenti i colpi di mitragliatrice. I ragazzi di Leòn giocano a calcetto per ore davanti all’immagine del loro ’59, quando una squadra segna un gol nemmeno si esulta tanto, i giocatori escono velocemente ed entrano altre squadre improvvisate, i movimenti sono perfetti, magnetici, paiono organizzati da una regia inconsapevole.
Avrei voluto chiedere a qualcuno quanto e se le loro ciabatte fossero più consapevoli e ancorate alla memoria di quelle degli analoghi occidentali Androidzati che popolano il Viavia hostal, ma ho avuto paura che qualcuno potesse ridermi in faccia e sono andato via senza giocare.

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Il tema delle scarpe mi ha comunque inseguito fino a Managua, nel barrio Marta Quezada, dove sono andato a passare una notte. La capitale qui è una città niente accogliente, un posto di cui le guide di viaggio e i locali si premurano di mettere avanti la pericolosità.
Ai Nica, come a tutti i latinoamericani, piace ostentare un tantino di anima scura, un gioco che raccoglie parte del mito fondante post-colombiano costruito su secoli di assassini e senzalegge che hanno percorso in lungo e largo storico-geografico il continente.
Difficile dire quanto si esageri su Managua, di certo mi son portato via che alcune quadras del Marta Quezada, intorno al cui perimetro ho girato con cautela, sono punteggiate dalle classiche occhiate opache di certi locali che valutano a occhio e croce quanto vali complessivamente come preda.
Le scarpe, dunque, le ho ritrovate in una viuzza laterale ambigua, in un cortile di erbacce che stava davanti al bugigattolo di un ciabattino, un riparatore di calzature e la sua boutique all’aria aperta, il suo antro scuro, piratesco, annunciato da aforismi autoprodotti, da immagini rivoluzionare, dalla presenza defilata di un Gesù.

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Ho pensato subito che quest’incontro inaspettato rappresentasse perfettamente il centro tranquillo del viaggio, l’occhio del ciclone di sensazioni che mi portavo dietro e anche l’unico punto dove andare ad essere, volendo carpire qualche abbozzo di senso profondo del luogo, qualora a qualche turista interessasse davvero.

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E questo è tutto ciò che non avrei voluto dire, una collezione di scarti percettivi, un giretto narrativo intorno alla bocca fumante del vulcano.
C’è una cosa che non mi torna, al fondo di tutto, tenendomi fedele alla regola del palo-in-frasca che ha guidato questa scrittura stanca, concepita nella depressione di Madrid: si prenda il Giardino delle Delizie di Bosch come test di Rorschach e si valuti dove si colloca la disposizione dell’animo nel sorbirlo, se bolle che salgono al cervello o vuoti che scendono negli intestini.
Ciò che quell’immagine rappresenta è probabilmente lo spaccato di un terrore che ci rappresenta intimamente come specie, un fatto di importanza abissale per l’evoluzione di quell’automa umano che l’universo ci ha consegnato alla nascita.
Tremenda è la potenza del dio-natura e quella della rivoluzione, così come il negozio di scarpe sfondate del ciabattino di Managua testimoniava bene, in mezzo c’è l’infinita collana di aforismi che saremmo tenuti a distillare nel breve percorso che camminiamo tra forze estreme: il cannocchiale della coscienza.

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E l’Arte ci fa spesso, troppo spesso, l’effetto del turismo globalizzato, omologa, blandisce, seduce, rende estetico e periferico ciò che ci riguarda invece profondamente, ci impedisce letteralmente di viverlo e liberarcene per sviluppare nuove forme.
L’arte è il processo di salvazione dell’Uomo, nobilita l’individuo che si spende raschiando il fondo del barile per dare forma, forse, rende certamente asini tutti quelli che la assumono via intelletto.
E un viaggio, parimenti, è sempre una faccenda un po’ laida, se lasci spruzzare l’anima dei luoghi fuori dal percorso lineare, un atto di creazione di luce che passa per tutti gli angoli scuri che si riesce a visitare.
E’ per questo che la natura odia le ciabatte, infine, e non c’è niente di cui vantarsi, né che possa farci sentire migliori.
Conviene muovere il culo, piuttosto.

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di Alessandro Gabriele

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(Officine d’Autore) – Intervista ad Alessandro Gabriele


Oggi vi porto a conoscere un autore, che già avete avuto il piacere di leggere in queste pagine, Alessandro Gabriele.
E’ uscito da poco il suo libro “Geografie Fuori Luogo” edito dalla Smasher.

Dalla quarta di copertina del libro:

“Cosa fare a La Paz, a Genova, a Baghdad quando sei perso; un cofanetto di esorcismi per fantasmi d’amore; come resistere a un’invasione che si annuncia via radio e altre storie di viaggio quotidiano. Sedici paesaggi geografici e interiori si snodano in queste pagine…Noi o altro da noi che ci riguarda, la pelle, le parole, i luoghi, gli incontri, ogni cosa si rende necessaria nel grande itinerario terrestre. Geografie è anche una piccola guida di viaggio per cercatori di destino.”

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“C’è il tuo silenzio all’inizio di questa storia, il tuo silenzio e il mio, pieno di parole strette tra i denti, che non mi lasci dire. C’è la tua mano che mi preme sulle labbra e l’altra che mi afferra stretta alla vita, mentre i capelli mi si sciolgono e io per un attimo eterno perdo il filo del tempo, e il sole fa uno scatto improvviso verso l’orizzonte, rendendo pericolosamente rosse le pietre di questa città.”(5 – Ramallah)

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Ciao Alessandro, presentati e parlaci di te.

E’ un po’ imbarazzante. Sono del 62, un Sagittario appassionato di culture e di Jung, scrivo, “giro e vedo (poca) gente”(cit.), appena posso prendo un aereo o una macchina o tutt’e due e me ne vado il più lontano possibile, quanto consentono le finanze del momento. Sto cercando di tirare giù i frutti alternativi della mezza età e mi perdo volentieri nel mondo di dentro, dove ci sono tesori di robe interessanti, comprese molte risposte ai quesiti collettivi del mondo. Avrei amato fare una di quelle professioni canoniche che ti prendono a diciottanni e ti scaricano alla pensione naturalmente, senza deviazioni. Invece il mio curriculum somiglia un po’ alla Salerno-Reggio, la nostra africa stradale, un patchwork di esperienze ai limiti del fallimento produttivo che avrà fatto sorridere o giocare a paper-basket diversi selezionatori, chissà. Gran parte dei miei lavori sono stati impiegatizi, impegni che ho dato in “prestito” per inseguire mete faticose, personali e collettive, che non mi riguardavano esattamente. Fondamentalmente, ho “imparato a scrivere” nei miei anni alla cayenna informatica, tra una riunione di consulenti incravattati e uno di quegli arzigogoli logici della programmazione o della sistemistica che spezzano le cervella, in mezz’ore furiose di travasi animistici, di nascosto a colleghi e capi-ufficio, con l’incombenza del rientro cristologico del pendolare romano, al maledetto capo opposto della città.

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“L’attitudine di farsi scivolare addosso ogni porcheria, la massa delle incombenze che ci ipnotizzano, la crosta di ultracorpo intangibile in cui imbozzoliamo la pena e la seccatura residua, quell’inerzia di schiavo che ci rimane dopo la centrifuga, nel potere assoluto di una faccia globale che governa tutto, una faccia che non si sa bene, se non che è piena di rughe che hanno l’andamento e la distribuzione dei grafici finanziari.”(14 – Roma Termini)

Estraggo dal tuo blog: “Si scrive per ridurre le distanze, per disegnare una prospettiva, tra l’intima lontananza di sé e l’orizzonte fisico che attende i tuoi passi. “ Qual è la tua prospettiva e come nasce il tuo blog?

Idealmente, mi piace rappresentare il percorso della vita come una tensione dinamica perlopiù irrisolta, una specie di lungo trekking che si muove tra l’universo interiore e quello del mondo visibile, sociale, incorporando azioni, sogni, deviazioni, relazioni, scavando il significato con attrezzi inclusivi. Avere una coscienza delle cose che ci riguardano, pubbliche e private, che sono infinite, a volte contraddittorie e spiacevoli, è un po’ il compito di ognuno al mondo, la radice dell’umanità se vogliamo, e anche della salute mentale. La scrittura può essere un mezzo di ricerca e una sintesi fenomenale di questo processo, penso a una scrittura che diventi febbre, metodo, ma anche svelamento e confronto, movimento verso il collettivo. Scrivere di domenica o scrivere per riempire i cassetti o i circuiti mediali degli amici o gli scaffali delle accademie non è un’attività tanto auspicabile, secondo me.
Non so bene da dove venga fuori il mio blog, so che nasce in ritardo, l’anno scorso, dopo che per anni avevo cordialmente detestato il suo formato mediale personalizzato. Per diversi motivi avevo smesso di scrivere, tre anni in cui m’ero avvicinato ai mondi della pubblicazione editoriale ma niente di quello che m’era stato proposto mi soddisfaceva in pieno, è stata un po’ la vecchia storia del gioco e della candela, fino a piantarla lì. Poi qualcosa è maturato, forse anche una piccola ribellione sensata contro il concetto di finalizzazione produttiva, ho affidato al blog il bagaglio dei miei desideri di fuga e ho aspettato che il mezzo mi desse una mano a chiarire e formulare nuovi obiettivi, non solo nel campo della scrittura.
Ho ricominciato naturalmente a scrivere senza pormi obiettivi, focalizzandomi su uno dei miei piaceri preferiti, quello di spostarsi, viaggiare, esplorare ambienti diversi, una cosa limpida e pura su cui sono tornato retrospettivamente, scrivendo le mie esperienze in forma di reportage, all’inizio, per ritrovarmi in breve nell’ambito del racconto di invenzione. E’ un po’ successo che dalla narrazione dei miei ricordi s’è rifatta strada la fiction, fa un po’ ridere ma mi sono in parte “riscritto” e completato, inoltre ho preso vecchi racconti e li ho ri-editati o re-interpretati, tutto questo lavorio è finito nel laboratorio del blog, poi è stato filtrato e messo in posa per Geografie Fuori Luogo, la mia prima antologia di racconti.

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“E cosa ci diremo, ancora, in breve. Cosa sembreremo, in una lettera fuori dal tempo, possibilmente, ritrovata dietro una libreria, una di quelle piccole vergogne che capitano agli amati come noi. Che mentre finivi la doccia l’attesa non passava mai. Allora mi sono alzato dal letto, sono sceso nella hall e ho parlato il mio inglese fascinoso col boy della reception. Gli ho chiesto se per caso servisse una pistola, nel caso a uno venisse voglia di fare due passi fuori. Lui ha riso come Jim Carrey, con una bocca spropositata. Non ha capito che non stavo scherzando.”(8 – Near Manhattan)

Geografie Fuori Luogo, come mai questo titolo? E come hai scelto i racconti che ne sono contenuti?

Il titolo è arrivato prima dell’idea dell’antologia, è stata una di quelle intuizioni da asporto che capitano sotto la doccia, fischiettando, una mattina; mi sembrava elastico, suonava bene, comunque. Poi ci ho meditato un po’, sentirsi fuori posto in qualche momento-luogo è una delle esperienze comuni alla coscienza di tutti, di mio ci metto un’attitudine particolare a sdoppiarmi, ad evadere dall’obbligo dell’esserci pienamente, una geografia e un tema fondante per me, una cosa che m’ha creato diversi problemi in passato, finchè per amore o per forza il demone non s’è un po’ placato e s’è messo a scrivere e ad andarsene in giro per il mondo anche in solitaria, bontà sua. E dunque viaggiando fuori dall’occidente e dai binari del turismo di massa, quanto possibile, si incontrano circostanze e persone e culture per cui appariamo noi quelli dissonanti, fuori norma, ci si raschia sempre un po’, in definitiva; ma anche quando abitiamo luoghi familiari ci sono le incognite, le domande fondamentali, i destini e l’amore che ci sfuggono, cose che occupano luoghi precisi del corpo emotivo che ci contiene, messi per lo più su percorsi di cui ci sfugge una localizzazione compiuta. Ciò che tiene vivi è una dissonanza, in effetti.

“Siamo sempre quel buio cui è destinato un controluce improvviso,
non abbiamo altre bussole al collo.”(7 – Celestun)

La scelta dei racconti è avvenuta sulle coordinate della extra-territorialità geografica o emotiva, posti interessanti o particolarmente densi dove sono passato, compresa la metropolitana di Roma dove l’ambiente ti fa sentire facilmente il Blade Runner degli sfigati. C’è poi un racconto di fantascienza, mia antica passione adolescenziale, sono arrivato a possedere qualche centinaio di Urania, al tempo. In subordine, il criterio è stato selezionare scritture con registri anche un po’ differenti tra loro, ma comunque di un livello che ho ritenuto essere sufficientemente congruo e maturo.

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Ciò che scrivi nel libro, ci mette davanti ad un modo di vivere diverso, quanto di questi luoghi è rimasto in te?

Molto, naturalmente; è anche vero che, da altro punto di vista, luoghi sconosciuti illuminano parti di te al limite del percepibile, e quando questo succede quei luoghi te li prendi e li tieni stretti. Un buon esempio può essere il reportage di viaggio che apre l’antologia, non a caso, l’esperienza del passaggio in un non-luogo perfetto, la Guinea Bissau e le isole Bijagos, che ho raggiunto faticosamente tra le secche organizzative e lo sfacelo sociale di quella che è la quart’ultima economia del mondo. E’ stato un viaggio molto intenso in cui mi son trovato a domandarmi seriamente che senso avesse spezzarsi la schiena e annoiarsi giornate intere su taxi collettivi e camion lentissimi che sembrano non arrivare mai. Ho concluso provvisoriamente che avessi bisogno di mettermi alla prova, di confrontarmi col limite esistenziale, per ordini di motivi che ancora non afferro pienamente. In ogni caso, mediamente, gli africani sopravvivono alla scarsità e all’eterna attesa che passi un veicolo buono con una compostezza e una dignità che sbalordiscono; anche solo questa percezione è qualcosa di buono da portarsi a casa, così come fermarsi mezza giornata a osservare come i meccanici locali intervengono sulle vecchie Peugeot 504 crollate in assenza totale di pezzi di ricambio: veri scultori della giunzione a fuoco, dell’incredibile ferraglia arrugginita da riciclo con cui compiono miracoli. E noi ce la meniamo col marketing dei prodottini mentali del Downshifting.

“Così adesso, come uno sputo in partenza dal labbro schifato del deserto libico. Solleviamo le nostre ossa rosicchiate di visioni, il kif ci ha pascolato zonzo dentro sogni diversi resi lucidi e crudeli dalla fame. Adesso è il momento di dirci: barca stronzo pidocchio presto!”(16 – Nero a Settentrione)

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Fuggiresti in uno di questi luoghi? Se si quale? E a fare cosa?

Oh si, questo è un sogno che mi insegue da che ho memoria, una fisima nata da bambino, suggeritami dalla frequentazione degli eroi di Emilio Salgari e dalle carte geografiche didattiche degli anni 60, quelle con il rilievo delle figure degli animali e dei selvaggi locali, cose che mi facevano sgranare gli occhi a lungo, vere piccole ipnosi precoci. In realtà sono già fuggito in tutti questi luoghi e in molti altri ordinari non-luoghi, molto vicino casa. C’è un appartamento a Roma, al Prenestino, un sesto o settimo piano fatto di intonaci anneriti e scrostati, con un grande balcone assurdo al livello della truce rampa di tangenziale che gli passa sotto il naso, dove andrei a dormire volentieri un paio di notti alla settimana.
Proseguendo, non mi piace nemmeno troppo l’idea di spiantarmi completamente in qualche isola felice, penso concretamente a uno o più luoghi dove mettere piede seriamente, per periodi di tempo che consentano di mischiarsi con la vita e la cultura locale, col biglietto per l’Italia in tasca un paio di volte l’anno. Due sono le regioni terrestri che ho candidato al progetto, Centramerica e India. Credo anche che, pacificato e liberato se stesso, ognuno abbia l’opportunità di scoprire attività di “lavoro” naturali, ecologiche e produttive a completamento del piacere di vivere ed esserci, semplicemente.

Cosa pensi dell’Italia oggi? Del suo futuro?

Non lo so, ritengo che in merito abbia già detto tutto il politico più fine e incisivo che abbiamo avuto negli ultimi cinquant’anni, uno che si chiama Corrado Guzzanti.

“Dovrò trovare il coraggio di smettere di accarezzarla, ora, come se fosse questo l’ultimo dei giorni e io, solo una lontanissima frazione di me che testimonia in silenzio. E andarmene stanotte stessa, forse, prima ancora che le torni tutta intera questa vita sorprendente, un po’ malinconica, che teniamo nascosta negli occhi.”(9 – Jaisalmer)

Ringrazio Alessandro per questo viaggio attraverso il suo libro, attraverso il suo punto di vista.

Libro acquistabile tramite l’autore e/o la casa editrice: http://www.edizionismasher.it/alessandrogabriele.html

The Sorrentino Post – news dalla Grande Bellezza americana di Alessandro Gabriele


[Antefatto Bollywood-like: Se sei italiano e ti occupi di comunicazione oggi, non dico nemmeno di “cultura”, Paolo Sorrentino deve per forza sembrarti una specie di cometa numinosa che passa, uno di quegli asteroidi che non ha ancora deciso se sfiorarti solo dall’alto o centrarti invece in pieno. E’ in odore di divinità che dovresti comunque inscrivere il fenomeno, muoverti, prenderlo, spolverarlo, alzarlo e metterlo con cura in qualcosa di simile a quegli opulenti altarini da viaggio che tengono i veicoli indiani sotto il parabrezza, e andartene via di casa in un itali-hindi sentimental mood con Shiva, Laxmi, coroncine di fiori profumati, Taj Mahal in scala, Colossei di plastica che s’illuminano e Sorrentino sorridente in mezzo a una folla di fedeli sciamannati, braccio fuori dal finestrino e Raffaella Carrà appalla, muoversi al ritmo, “a far l’amore cominci tu”, una preghiera e uno sputo di betel rosso sanguigno sulla macchina del vicino, mentre il paese di ogni Traffico ti viene addosso inchiodandoti con la puzza e la merda in strada, senza nemmeno avere più a conforto la cultura dei millenni che sopravvive e fa sopravvivere, invece, quel caotico fratello speculare che abbiamo nel subcontinente indiano.]

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Adesso che premi e commenti sono stati assegnati e ognuno s’è schierato manovrando opinioni, ipocrisie, celie, fondato interesse, ansia culturale o semplice curiosità, si può rimettere in luce con un po’ di calma La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, chiudere il ciclo di questo boomerang e andare anche un po’ oltre, forse.

Credo d’aver capito senza rifletterci molto infine, per semplice sfregamento mediale delle tante che ho letto al riguardo, che il film sia un sincero capolavoro. Ci ho messo tanto a convincermi, dopo che la sera in cui tentai di vederlo caddi addormentato dopo una mezz’oretta appena di non-narrazione.
Ho amato molto la risonante potenza simbolica de: L’Amico di Famiglia, la narrazione semplice e ossessiva di un personaggio disgustoso e del suo dettaglio geniale, quella maledetta sacchetta oscillante fissata alla cintura. Le Conseguenze dell’Amore l’ho trovato avvincente, poetico e bellissimo, una lenta ballata sottomarina sulla fuga dell’identità. Alla visione de: Il Divo, è mancato poco che m’alzassi dalla sedia per applaudire a scena aperta, tanto ricco di genio visivo e narrativo m’era apparso quel film. Davanti alla Grande Bellezza sono arrivato invece prevenuto, dopo aver passato l’esperienza americana di Sorrentino con Sean Penn, che mi aveva fondamentalmente deluso.
La Grande Bellezza è forse la prima compiuta e consapevole opera italiana sulla post-modernità che ci vive, perchè è questo esattamente il paradosso, la cultura americana ha diffuso il concetto del “post-”, lo ha osservato e narrato e sta anche andando oltre.
Siamo noi italiani, unici al mondo, quelli che invece sto post lo viviamo concretamente nello sprofondo della storia e della civiltà da cui veniamo tanto quanto oggi nel quotidiano dei giorni, nell’attualità dei fatti che ci capitano. Ci siamo suicidati nei millenni con la cura certosina degli esaltati fino a perdere il concetto di cultura, ovvero le funzioni che muove, la realtà che trasforma, oggi il meglio che può dirsi di noi è qualcuno che pensi ancora la cultura come una bella scultura da mettere in una teca illuminata, possibilmente a pagamento, ma anche di questi qualcuno ne son rimasti pochi.
Il film, in sé, gode di una magnifica scena iniziale che è perfetta e dice tutto. Nelle sequenze di ballanti e ballati, nelle luci, nell’aria, nelle facce, nel trapano dance della Carrà che cementa l’immagine, una ribollente Guernica tricolore che esce dallo schermo per comprenderti sotto braccio come si fa con un paesano timido e ritroso. E taglia e allude e ritma e sottoscrive e dice talmente bene che non servirebbe davvero altro minuto di narrazione tantomeno altra nota di commento.

[Intervallo utopico: questo dovrebbe essere il Cinema, una specie di oracolo di Delfi moderno. Tu paghi il biglietto ed entri in sala, senza sapere cosa t’aspetta, col fatto che la proiezione potrebbe durare dieci minuti come duecento, in piena libertà espressiva, e col fatto che la par condicio dei sentimenti richiede che si “sorteggi” tra lieto fine, chiusa ambigua o sfacelo indigeribile che sia, a insindacabile giudizio dell’autore. Nessuna pietà per gli eroi-sentimenti monoblocco. Solo così, scardinando il contesto amorfo del -pago otto euro pretendo (e m’aspetto)-, il Cinema potrebbe davvero mettere in moto qualcosa di vivo e autentico nel cuore degli spettatori.]

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In realtà, il primo motivo fondante di un capolavoro è sempre la messa in riga delle coscienze, e Sorrentino c’è riuscito in maniera clamorosa, ha messo in fila e in connessione tutti, senza distinzioni di classe, tutti insieme e in ogni luogo, in Italia e nel mondo, quelli che lo vivono, quelli che ne parlano e quelli si distaccano. Parliamo di: presidenti del consiglio, bigliettai, tromboni intellettuali, fanatici dei forum, rumeni arrivati ieri, esperti di cinema, calciatori, preti, semplici passanti, casalinghe, fin dentro i gruppi neo-etnici da finestra sociale, tipo: il Popolo di Roma che, con perfetta discognizione di causa, ha più volte “dichiarato”: Ahò, noi la Grande Bellezza ce l’avemo e ci vivemo, voi blablabla, rosicate!!!!!!
E qui entrano in ballo gli americani con l’Oscar, che per il film straniero non è mai dato a caso. Loro sono pragmatici, sanno che gli Oscar in casa devono sottostare ad alcune regole mainstream, in quelli fuori casa dimostrano invece sempre l’intelligenza di lettura che hanno.
Ma chi sono sti americani, e cosa hanno precisamente visto dentro la Grande Bellezza, oltre il banale mediale che già s’è detto.
Intanto, contro i nostri tre millenni, gli americani sono tali da nemmeno tre secoli. Parliamo di gente in gran parte socialmente deviata che fu mandata alla ventura in un altro continente, gente che collettivamente, invece di deprimersi o esaurirsi sul posto in un fuoco di guerriglie psicopatiche, mise le proprie tare al servizio di un sogno di conquista civile generando, forse, il primo autentico mito della modernità.
Erano scarti, sono stati corsari, conquistatori, Bounty Killer, schiavisti, profondi riformatori, inventori di sommovimenti giovanili che hanno riscritto il limite sociale, poi ancora padroni arroganti del mondo, poi ancora, oggi, hanno inventato e subito la crisi fino a perdere di nuovo il timone reale del pianeta.
Nel frattempo hanno sviluppato una società ricca di contraddizioni e un humus culturale che, invece, rimane di una straordinaria vitalità concreta, propositiva e allusiva. Quando la cultura fa corpo unico, congruente, puoi leggerla dall’alto o dal basso senza perdere nulla del messaggio che trasporta.
“Non è importante che tu cada, piuttosto è come e quante volte ti rialzi che fa valore e differenza”. E questo, qualsiasi nonna americana te lo potrebbe confermare.
Ma anche se ti sposti in alto, vedi questo immenso paese che pullula di laboratori, mostre, dibattiti, letture e rappresentazioni pubbliche, editori e corridoi di pubblicazione a vasto raggio, establishment anche, certamente, ma nel pentagono di Hollywood non si fa mai mancare la sana quota di autorialità indipendente o il “genio” espressivo anticonvenzionale, qualora questo si presentasse, da chiunque.
Gli americani sorgono, crollano, risorgono e si reinventano, e questa è pura vita, laddove noi pratichiamo ossessivamente una specie tutta nostra di pascolo afono, asintomatico, scollegato depressivamente dai sentimenti storici che ci hanno fondato. Insisterei, la vera urna delle ceneri post-moderne sta allungata qui, tra Tarvisio e Lampedusa, mica a Manhattan.
Cosa possano aver visto gli americani tra i pixel della Grande Bellezza sorrentiniana comincia a trapelare.

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Immaginate un missile di treno superveloce pieno di manager o ex-manager dell’esistenza che sfila rallentando appena su marciapiedi dove la gente ben vestita, ma con incredibile sguardo spento che balugina da dietro gli occhiali scuri, sta ferma sempre nello stesso punto, alle stazioni italiane, ad aspettare un treno che non si ferma più, che se per sbaglio lo facesse verrebbe preso immediatamente d’assalto e saccheggiato. Una specie di Far West stanziale che per forza li manda in palla di fascinazione, gli americani, loro l’hanno inventato il Western, così come i vaccari che cavalcano i buoi selvaggi, ma non hanno invece mai assistito a un rodeo sociale in cui le regole sono metaforicamente invertite, il bovino cavalca l’umano, e soprattutto il bovino vince sempre la gara, col cazzo che si fa sgroppare via da esseri quattrozampe che delegano a Brunetta o Franceschini, alla Binetti o alla Boldrini.
Ci sono realtà raccontabili, molte altre rimangono nel novero dell’indicibile ombroso. C’è qualcosa di profondamente speculare tra noi e loro, comunque.
I “giovani” americani sono abituati a recintare anche pezzetti di “rovine” che hanno trent’anni appena di storia, figuriamoci come possono rimanere nemmeno rispetto a noi, ma agli antichi romani che nella capitale già intorno Cristo potevano vantare la presenza delle rovine dei primi insediamenti tribali al colle Palatino, sette secoli prima.
Ma la “bellezza” non c’entra niente, o quasi.
C’entra assai più, nell’indicibile, la dimensione del “grande”, l’invidia, il fatto che loro siano costretti a ubriacarsi duro per dare sfogo agli istinti più bassi, noi invece siamo un intestino vivente così, naturalmente, e finiamo pure per delinquere assai di meno in strada, che è un grosso problema sociale che hanno loro, invece. Noi delinquiamo tutti ridendo alla Gambardella, nei salotti importanti o in quelli outlet Mondo Convenienza di casa, ai livelli alti di un distillato morale, e ce ne compiaciamo pure.
How they’re fucking doing it, holy shit! Penseranno forse loro, guardandoci.
L’ombra americana ci invidia perdutamente, mentre la loro luce social-puritana ci condanna alla forma peggiore di sberleffo, quel sorrisino condiscendete pizzaemmafia, quell’analogo di occhiata terribilmente suggestiva che si prova per la sfiga altrui quando passi in autostrada e di là c’è un incidente della madonna con schizzi di sangue e traumatizzati che si muovono a scatti come marionette, un sospiro dio-ti-ringrazio per non essere io, e una carezzina in più ai bambini stampati contro il finestrino, e mettici pure un’onesta grattata di maroni che non guasta mai.
E dunque torniamo a finire nel nostro salotto post-moderno.
Il problema del nostro paese è una forma rara di consunzione storica, uno smarrimento di meccanismi narrativi, un’Identità frammentatasi sulle onde degli eventi fino a diventare impalpabile come sabbia, e in questa debolezza attaccabile da perversioni distruttivo-masochistiche, da sentimenti collettivi ancora forti che tuttavia vagano senza ancoraggi generando danni o, nella migliore delle ipotesi, ripetitività e noia, disinteresse.
Messa così, l’Italia equivale all’impianto significante liquido del film di Sorrentino tanto quanto a quello della maggioranza dei romanzi di Don De Lillo o Chuck Palaniuk. Ma un Palaniuk, almeno, i suoi caratteri li ama, gli consente sempre una via di uscita creativa dal disastro che sono. Ed è precisamente questa attitudine diffusa oltreoceano che fa grande e viva e futuribile la ribollente cultura americana.
Così l’America ci ha premiato, infine, ma noi non abbiamo capito bene il perchè e il per come, e continuiamo un po’ a scambiare questa storia per un’epifania turistica davanti al Colosseo.
E intanto, al buio di tutto, la Carrà di Sorrentino insiste a passeggiarci avanti e indietro nel cervello.

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di Alessandro Gabriele – aereoplanini.wordpress.com

Molesini Still Life (Officine d’Autore) – Intervista di Alessandro Gabriele


«Dovevate perciò rendere orribile il vostro bel mondo ordinato,
affinché questo vi guastasse il piacere di vivere troppo fuori di voi.
(C.G.Jung, Il libro Rosso – Liber Secundus, pag.116)

m1*
Non c’è poesia e non c’è prosa, ci sono autori e molto altro, ci sono condizioni di spazio mediale che ne determinano la profondità incidente del segno, c’è una società di umani pressapoco che gira il timone delle cose del mondo, intorno. La dimenticanza e la riduzione a caos colpisce tutti, pochi autori si raccolgono in pacchetti di grida che escono nel reale tangibile, salgono e scendono tra cielo e terra mostrando una possibilità, un percorso, una luminescenza di veglia che sta dietro le parole ben appostata nei modi, nel respiro, nelle ferite che si coltivano come fossero orchidee e come se queste non fossero che da svendere.

*

-Al nostro zoo oggi-
al nostro zoo oggi ghepardo ghepardo dove stai andando.
Torna alla tua zona ghepardo ascià torna là altro cespuglio
di fiori odori dell’erba verde di cattura sopra vivenza
mangia questo carne poi invento un canto che calmi
la tua ricerca di emozioni semplici, velocissimo gattero
che vai più forte delle auto in superstrada affi-peschiera
se uscivi non mangiavi nessuno, vero, stavi lì certo perso
a chiederti cos’è un recinto della pioggia in prima vera

*

Questa luce persistente, da molti punti di vista, rifiuterebbe anche di essere compresa, se l’atto della comprensione si riducesse a un mero recinto di pascolo affermativo/negativo. Certe volte invece non si è proprio nulla, nulla che non sia un saliscendi di esistenze fuori dalle frasi, le parole sono solo chiavi inglesi che riparano gli snodi del tracciato, non c’è alcuna interpretazione possibile, solo flusso.
Pensavo anche a Franco Arminio scrivendo queste frasi, pensavo soprattutto a Silvia Molesini: due autori diversi come una coppia di antitesi, stretto e antico Franco, larga e in perpetua mutazione Silvia, che tuttavia condividono alcuni fondamenti di metodo.
Entrambe scrivono senza vestirsi, sono autori di confine che saltano naturalmente tra poesia e prosa, incisione e volo, intimo e sociale, solitudine e contagio da finestra sociale. A entrambe piace rischiare, Franco e Silvia sono convinti della “necessità” di sporcare la lingua che usano, sostenuti dal basso da un desiderio di sovrapporsi il più puntualmente possibile al percetto primario, così come questo nasce nell’intima lontananza pre-frontale della materia.
Silvia l’ho letta la prima volta intorno al Duemila, albeggiava ancora la Rete, i popoli espressivi li incontravi facilmente raggruppati dentro i pochi snodi collettivi dei forum di scrittura. Aveva già tutto Silvia, lirismo e frana e sequenze uniche di interroganti percussivi, l’enjambement usato come un tamburo ad accompagnare, il neologismo come una tastiera evocativa di molti spiriti, l’istinto animista di inseminarsi verso ogni ganglio vitale riflettente.

*

Pascale Francesca
impietritemi davanti
occhi celestissimi (loro)
un serpente, die serpenti
Francesca no, è bruna castagno,
donna toro.

Pascale si avvicenda e dice
“il tuo finto coraggio”
dice “baby”, dice
“attenta a Boston”
che di Boston si muore, lei sa
quei parcheggi incustoditi :
il culo dei building:
smalìziati
amore.

Perché io sono una Pascaleamore.
Le ciocche quasi bianche
la bambola mia kajal
l’uomo minimo che la fa e
il tempo fra di noi che ha
una gran bella grana b/n matt.

Che la carta di Pascale è mia
fatta pietra devant moi
alanina
blu timina
infinitamente corporea
mia puttana mia puttana puttana mia, mia bimba mia, bambina.

Adesso vedi
Pascale Francesca
impietrite (a me) davanti
glauche cerulee cyan.

Francesca no, è cespuglio, è nera
non fa che cercare motivi
e dice
“vero che tu ci credi che si guarisce?”
e crede, lei, crista, rossa
nei precursori dell’io
fossero garanzia d’amore.

Che io sono un amore di Francesca
ai piedi della croce
ho pianto pianto magenta
e per ogni lacrima cadere
1) un segno consacrato
simbolo
2) un simbolo fatto
cielo
e mia anima mia amina anima mia e bimba mia e sfacelo.

*

Pascale Francesca è una delle liriche più conosciute di Silvia, la si può citare quasi come un manifesto attivo, “programmatico”. Oggi i testi di Molesini sono reperibili in una quantità tale di stazioni web che è persino inutile enumerarle tutte. Daremo qualche accenno mirato verso la fine, ora chiacchieriamo un po’.

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Silvia, il tuo disperderti fin dentro i diverticoli più remoti della rete è un istinto illogico o una caccia mirata?

M: Certamente cerco qualcosa, una sorta di visibilità, luoghi fertili, contatti e confronto. E anche mi muovo senza criterio maggiore, spesso guidata da un demone che non vuole distinguere. Ma l’elemento informante di questa “dissipazione” è, credo, un aderire al meccanismo di rete, pulsionale ed insieme ideologico: mi sento guardata da qualcosa che posso immaginare a mio piacimento e lo sposo pienamente nel suo confermarsi fuori dal potere stabilito dalla stratificazione degli apparati monetizzati.

Una parte di te sembra tendere a un limite di perfezione formale, giocando anche a fermarsi un passo prima magari, un’altra parte versa il contenuto immediato, dionisiaco, preoccupandosi solo che si distribuisca bene sul territorio del comunicabile. Come funzionano in te, ammesso che tu riconosca questa rappresentazione dinamica, questi due vettori?

M: Sì, li riconosco, con i loro antitetici: la rottura dell’involucro e l’organizzazione cognitiva del portato. Due parti che continuamente si confrontano e anche confliggono, per dirla breve tutto il materiale scritto si gioca sulle possibili combinazioni di questi quattro tra loro (è stato possibile pensarmi senza uno stile, sono molte). Ma credo si possa parlare di struttura, vedo un (chiamiamolo) percorso nell’insieme testuale che disegna figure derivate da una specie di ceppo identitario. Quindi questi due vettori e i loro opposti contribuiscono al segno, temo in egual misura.

*

All’uscita dall’incantesimo vanno in fila le cose
che si autodenunciano poco dopo la porta :
c’è il grande poeta illuminato dal Morte,
il fido che lo segue nominando gli enigmi.
Ci sei te, un bugigattolo recalcitrante pare
e la lunga sfera che si è inventata tutti i
sostenendo fosse possibile ellissarsi in muta-
re e poi c’è questo piccolo corto sordo lì
che eleva al quadrato e moltiplica tre, e
la bella donna quieta quand la si mi re
furiosa invece sulle linee atonali e molte
altre creature dall’estatissi-autunnate. Le
principali mettono in causa-affetto amore
disciplina e sguazzamento poi vedono loin
ed è l’improvvisarsi santi unti e honorées
per il caso spicciolo che l’ alti parla al te:
ce n’è una che te la auguro non saper mai
da che parte sputa, il bigio invece contento
che ha due capre da mungere: l’esplodimon-
do dopo la tazzina.

*

Alcuni poeti si credono collegati direttamente a un seno celeste, indiscutibile e indivisibile, vogliamo invece parlare di come nasce l’ispirazione, demitizzandola anche un po’? E’ sotto la doccia, in un’ora di lavoro, nelle more dell’insonnia, in certi languori insanabili che fanno tremare le porte chiuse, dove e come nasce il tuo segno?

M: Mi è capitato di scrivere al bar, riportando le frasi degli avventori e bevendo con loro. La notte è il luogo che preferisco. Sentirmi guardata, come ti accennavo sopra. Travolta da un sentimento violento ma anche asciuttissima, come dovessi redigere un rapporto. Poi completamente avvolta dalla natura, come mi pare spesso accada in genere, o dopo aver letto un testo complesso. Alle volte è una frase semplicissima ma ficcante a dare il via. Ma non centrerei il mio scrivere sull’ispirazione. E’ una specie di discorso/canzone che sto portando avanti da “sempre”, diciamo identitario, a me conformato. Sembra brutto detto così, e il senso della sua inutilità mi è, soprattutto ultimamente, piuttosto presente. Ma tant’è, e diventa materiale di lavoro.

La poesia si può editare? Solo l’autore o altri, e come può farlo? Quali sono secondo te le linee “critiche” principali, se ritieni che ci siano, secondo cui si possa valutare con un minimo di oggettività un testo poetico?

M: Penso di sì, come qualunque testo. Resta che con la poesia (in tutte le sue forme) si vanno a toccare elementi esiziali, nucleari, fragili se intaccati. La stessa operazione di sintesi implicita in quel tipo di scrittura è già un lavoro pieno di presupposti che, anche se errati (per quello che voglia dire), rendono un unico difficilmente rettificabile. Il bel testo di Dante Isella, L’idillio di Meulan, riporta una sorta di editing fatto da Gadda a Montale e le riflessioni di Contini sull’analisi delle varianti che permetterebbe comunque di individuare il nucleo duro autoriale.

Da un altro lato, si diventa autori anche perchè si cede a una pulsione “narrativa”, che in alcuni nasce dalla persistenza ossessiva del dialogo rappresentativo interno; quando questo coro trova una forma di quadratura espressiva, ci si scopre talvolta autori semplicemente mettendo giù nel tempo ciò che stando dentro era classificabile solo come sintomo. Il problema può diventare troppa “ispirazione” da gestire. Che rapporto hai coi tuoi stati creativi e con la patologia quotidiana delle storie personali che interseca tutti?

M: Non mi pongo il problema dell’eccessiva ispirazione, come accennavo più su. I testi contribuiscono alla realizzazione di un disegno, anche i meno buoni. Nella nostra corrispondenza iniziale ti dicevo quanto mi fosse difficile scegliere: indubbiamente il problema pratico/organizzativo esiste, si fa sentire anche in termini di fruibilità. Come ogni patologia, volessimo inquadrarlo così, grande beneficio trae dall’incontro con l’altro, chi ci sceglie.

Strutturalmente, il tuo Significante è molto attivo, sale e scende tra i livelli batesoniani spiazzando e comunicando una consapevole vertigine. E’ anche un po’ una deformazione professionale, questa, o è tratto tuo istintivo?

M: La professione di medico psichiatra e la poesia si sono mosse assieme. Non so bene, sicuramente non ho rapporti facili con nessuno di questi due mestieri. C’è una formazione lunga che solo in parte ha dato risposte a domande primarie che mi parrebbe riduttivo ricondurre ad istinti. Continua.

Il tuo Significato si esprime scavando con necessità negli orti del neologismo, ne fa quasi una missione, talvolta ospiti sequenze che sembrano davvero i costituenti di una neolingua. Ti è stata fatta anche qualche “dotta” obiezione, talvolta, così par di capire da un’intervista che ho trovato in rete. Vuoi riassumerci come la vedi e la senti tu, al riguardo?

M: Penso alla lingua come ad un attrezzo. Il suo uso deve servire la costruzione della cosa che ho in mente. Ovviamente a mia volta sono (la cosa che ho in mente è) serva della lingua e non posso uscire dal codice, non esisterebbe né significato né significante senza quest’interazione. Faccio quello che posso.

*

*

Ciò che scrivi ha un tratto selvaggio, quasi logo-patico, se mi permetti l’esagerazione, eppure scorre su binari narrativi, certe volte s’incontrano vere stazioni di prosa in ciò che esprimi, il tuo progetto Castello lo testimonia ampiamente. Ti pare sana e/o necessaria la vecchia distinzione fondante tra prosa e poesia, dopotutto, considerando anche che tutti siamo ormai collegati a flussi omogeneizzanti di presenze, fisiche e mentali, che ci avvincono dai nuovi giocattoli mediali?

M: Ogni distinzione ha senso, è utile, ha valore informativo. Quando studiavamo le cellule si davano nomi ad aggregati conformati solo in virtù della capacità discriminativa del microscopio ottico, apparentemente inutili in seguito all’avvento dell’elettronico. Ma quelle forme c’erano, davano notizia dell’esistenza di quella particola in “quel” modo e in quel modo dimensionate parlavano. Altre narrazioni/forme possibili cambiano i nomi alle cose, nel tentativo invincibile di rappresentarle per quello che sono, ma non è detto che a una visione più precisa corrisponda l’intero.

Credo che come comunicatori di rete, condividiamo ormai più di un quindicennio di esperienze nei quartieri espressivi del cyberspazio. Ricordo quel bellissimo saggio di Pierre Levy, Il Virtuale, in cui si concludeva che la nuova esperienza nascente avesse la solita benedizione del demone bifronte: un’incredibile opportunità per l’uomo, se si fosse riusciti a intenderla e sopportarla come una tensione aperta non circoscrivibile, oppure un’occasione sprecata, con la deriva di una riduzione ai confini dell’Ego e generazione di ombre. Chi secondo te sta vincendo la battaglia per il controllo della rete-web, la luce o l’ombra? I poteri forti o la nobiltà di un collettivo sociale non-schierato?

M: Mi fai pensare a: Rifrazioni scomposte su corpo 12, la narrazione che abbiamo condiviso, pensata da Guido Conforti, testi seriali e interagenti tra loro nella tessitura di una rete di ragno. C’erano zone di separazione invalicabile e le sinapsi, che invece permettevano il contatto. Le personalizzazioni creavano l’estensione della rete ed il contatto faceva sì che si potesse catturare la mosca. Credo si debba stare nel compromesso, la rete ha comunque in sé gli elementi per poter gestire grandi autonomie.

Le Rifrazioni 12 sono state un grande esempio di riflessione attiva sull’esperienza della contaminazione espressiva in rete. Avremmo dovuto, secondo te, fare un passo consapevole in più per rendere “leggibile” il mutamento sinaptico dell’organismo che abbiamo scritto, o era sufficiente così?

M: L’esperienza del “romanzo a rete” concepita da Guido è stata uno dei risultati più fertili della nostra pur esistente aggregazione nella rete informatica, a mio avviso. Così come altri percorsi paralleli come le riscritture seriali collettive, il riportare davanti agli occhi di tutti testi introvabili o difficili, la costruzione di blog di ampi respiro e intelligenza. “Rifrazioni” poteva essere reso più leggibile? Forse sì, io penso, aumentando il numero e la varietà delle sinapsi. O accorpando i singoli percorsi in capitoli ampi non direttamente integrati, come fa Bolaño, certo così mettendo in discussione l’intera architettura del progetto. Ma la vera leggibilità a questo tipo di esperienze la dà il farle entrare in un meccanismo diffusivo, cosa che non abbiamo fatto.

Che consigli ti sentiresti di dare a chi sta cominciando a scrivere e intende andare avanti oggi, lo dissuaderesti gentilmente? Quale strada complicata gli prospetti?

M: Ah, non consiglierei niente. La scrittura, come ogni cosa venga utilizzata per stare-nel-mondo, è un oggetto mutaforme.

Poco sopra, abbiamo sfiorato il concetto di “patologia”. Salutiamoci con un tributo ad alcuni padri o spiriti dispersi, secondo prospettiva. Avevano visto bene Jung, nello sdoganare un po’ la funzione patologica, e Hillman, nel rovesciare il tavolo dei presupposti clinici, oppure sono verità che all’Ego vanno somministrate in dosi minime?

M: La visione psicoanalitica ha nella sua stessa struttura gli elementi di questo supposto ribaltamento. Non credo Freud abbia del resto mai utilizzato questo termine, se non in quella magnifica chicca che è “Psicopatologia della vita quotidiana”, in cui parla di noi tutti nei nostri comunicativi inciampi. Jung allarga il campo di intervento con coraggio ma tutto procedeva comunque verso una dimensione di integrazione, anche progressiva, del mal-rimosso in quanto parte del Sé. Lo stesso concetto di crisi epigenetica, in tutte le sue declinazioni, come quello fondante del “transfert positivo irreprensibile”, veicolano grande attenzione e rispetto per la cosiddetta parte malata, che è funzione e accesso e barriera. Last but not least Jung bisogna leggerlo tutto, come stai facendo anche tu, perché roba così (e coltissima) non l’ha scritta nessuno.

*

L’autunno metodico posa accanto nebbie. A te, nel tuo poco segreto denso, appare come un mal di stomaco, potente, una morsa che stringe fino a tirarti su la bile.
Per questo Gravida sei amara. E cattiva, urli a gran fiato le quattro porcate che conosci, sbatti le porte scendi dall’auto-in-corsa trattieni il bicchiere. Ti rifiuti il pensiero, nella sua riflessione, lo spazio di mediazione e ogni altro filtro.
Per l’autunno Gravida sei grigia, invece, grigia del lago gocciolante che ti invade, attornia il nodo dello sterno, sfonda (per “fa da sfondo”) e illustra (per “mette in evidenza”) il tocco aritmico della punta che ha pestato il cuore (ci me ponse? dice il cuore). Non ti coricherai più con lui, brodo vapore, per scoraggiare reflussi e doglie. All’autunno che uccide il sole e gialla e rossa le foglie ai cedui ( per rianimare crisantemi ) dici:
– cosa fai di febbre e inedia, vecchio demonio, perché mi prendi l’anima, tu che nessuno la vuole, tu che moltiplica rimandi, tu che non aspetta niente, lei che sei accecante, lei che ti trascini dal bacino, lei che urgi come un cuscinetto scorticato
cosa vuoi di me allora, è evidente che un’anima non potrebbe interessare, questa cosina ridicola che non fa assolutamente nessuna cosa, l’ombrina dell’ombra di un cane, il picciolo del caco e la mai luminosa pietruzza blu.
Una miseria da far sbadigliare uno psicanalista.-
Ma lui, lui, sembra avere altra intenzione, un’idea diversa di cosa possa essere. E ti affascina e calma questo rimanere, suo, sparso, decaduto, impotente. Nelle frange della condensa, lungo le melme, sulle foglie del fico che macerano in pozzette: ecco un ricordo.
Qualcuno ti insegna a mettere a letto le bambole. Le copre bene bene, che non prendano freddo, e sta con loro finché non si addormentano. Il rumore della lavatrice è una ninna nanna sottile, tu osservi questa piccola situazione sospesa che ti diventa pensiero, possibilità di quiete e cura.
Lui HA un’intenzione diversa. Produce altri suoni dove si incontrano lepri, fagianelle e storlini. Lascia indisturbate le anatre e non raccoglie i funghi. Dimentica, sbiadito, i cattivi rapporti con gli altri, o li ricorda appena e poi non pensa a te, che non c’entri. Per te ha costruito una crocchia, si chiama “altrove”. E una barchetta, si chiama “storia” e ti ci ha vista salire, grassa d’ira e d’accidia col tuo groppo malato, e ti porta sul Sarca docile giù giù fino al Mincio, così, per sbaglio innamorato.

*

Molesini compone i suoi testi anche direttamente negli Status della finestra sociale, in interazione istantanea con la musica e con ogni oggetto del collettivo umano che popola la Rete e presso cui ama disperdersi.
Silvia è una scrittrice preziosa, ha raccolto il meglio di una prospettiva beat-dinamica, impegnata, reading-like, che era tipica di autori degli anni Sessanta e Settanta e si applica con convinzione a esprimersi nel reale di oggi utilizzandone ogni nuova modalità mediale che sorga, in questo ponendosi sulla cima di un’onda psicologica, artistica e comunicativa che scavalca i tempi e ogni gadget “post-” si voglia apporre all’esperienza dell’uomo nel domani interrogativo che si fa strada.
Rimane poco altro da dire che non sia un grazie sentito all’autrice, per la disponibilità a spendersi fuori dal ruolo, per la poesia, per le cose dette e per come sono state dette, per l’ombra di ulteriori domande implicitamente seminate.

*

Quando si ferma, Silvia la trovate qui:

nascitaemorte.altervista.org
myspace.com/molesini
youtube.com/user/molesini
soundcloud.com/molesini

Se volete osservarla in missione mentre crea, collegatevi a Facebook (una volta tanto, con un buon motivo).

(Silvia Molesini (Bussolengo 1966) ha pubblicato le raccolte Nuova noia (Ibiskos ed. 1987), L’indivia (Campanotto ed. 2001), Il corpo recitato (I figli belli ed. 2004), Lezioni di vuoto (Liberodiscrivere ed. 2006), Cahier de doléances (Samiszdat 2009), 13 algebriche mistiche (voici la bombe 2010). È presente in diverse antologie, su riviste letterarie e siti web (Le voci della luna, Filling Station, L’ortica, Critère, Niederngasse, Progetto Babele- Il foglio letterario- Historica, Absolute Poetry, Lettere Grosse, La dimora del tempo sospeso, Podcast di Poecast, La poesia e lo spirito, Private, Tellusfolio). E’ stata segnalata nel 2008 con Esanimando al Premio Montano e al premio Mazzacurati/Russo con Cahier corpo piccolo. E’ redattrice della rivista indipendente di poesia e teatro Niederngasse e di Vdbd. E’ coinvolta nel progetto di diffusione poetica orale Letteratura Necessaria curato da Enzo Campi. In rete sta lavorando a CASTELLO.)

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Castello è una sfiziosa ciliegina sulla torta di Silvia, una narrazione poetica tesa, difficile, emozionante, che a partire da se stessa tenta l’affresco di una psiche collettiva epocale.

http://silviamolesini.wordpress.com

articolo di Alessandro Gabriele – http://aereoplanini.wordpress.com/

Procidana (un cuore comunista ripreso dall’alto) di Alessandro Gabriele


1

Ci sono persone e isole che nella vita svettano come alti lampioni sul lungomare ideale che percorri, mentre tu col muso arrossi alle frustate degli eventi o sbollisci in un sorriso, sollevi l’espressione e trovi una luce che spinge in porto sicuro tutti i diobuono, i semmai, gli “altroquando” dei nervi che solleticano gli istinti dispersi, un po’ efferati, di tutti.
Procida è stata il nostro porto elettivo in anni che sono già molto passati senza troppi ragionamenti, senza nemmeno avvertire, del resto, che durante questo lavorio di lancette il mondo dei fatti sociali che ci ordina s’è spinto ancora più giù, in qualche caletta isolata, costosa ed esclusiva, un mare che raggiungere ancora costa fatica, e non è più una vibrazione di piacere quella che sposta i remi sulla barca, si galleggia d’istinto come si riesce, fidando nella cecità fortunata delle correnti.
Era Vera a Procida quel nostro alto lampione solitario, il nostro abuso collettivo di feticci e slogan fuori moda in un tempo che cominciava a trasmutare tutto: Hedge Fund e Che Guevara, Derivati e trattini, sex in-ex-stream, colture e fabbriche smantellate, Underground questo e quello, avvocati come nuovi cecchini negli snodi del possibile, La Mafia oggi ci vai a mangiare ridendo, è underground di genere, è diventata una catena di ristoranti alla moda in Spagna e tu Cotugno che l’hai inventata non ti giovi nemmeno del Brand, però ospiti intellettuali sbolliti che gli viene buono citare Marx come vecchio da rileggere, forse qualcosa d’umano aveva intuito davvero, almeno quel tipo di salotto che si smonta in fretta come fosse un’Ikea al contrario, gli amici acculturati spingono avanti il carrello e il giro si perde nelle more dei serial casalinghi.
Veruska, detta Vera, ci raccoglieva al porto di Procida. La sua salda statura svettava, invariabilmente ondeggiante, per raccogliere prima l’occhiata di complicità degli amici sulla piccola folla che si radunava in accoglienza al molo dei traghetti. Vera era puro Underground, vissuto senza sconti.
Scendevamo io, tu, gli altri, quelli che non conoscevi e che non avresti immaginato, dalla sua tana nell’isola Vera aveva lanciato la solita generosa ventina di inviti, estendibili a chiunque altro, erano questi gli ordini di campo per la Pasqua apocrifa che avremmo rappresentato tutti a Procida, la più introversa delle tre sorelle, nel golfo chiassoso di Napoli.
Le dorsali viarie dell’isola, esterna sinistra Corricella, centrale paese, esterna destra per spiaggia Castello, in una geografia semplice come la schiena di un asino, riuscivano ad attraversare il corpo isolano tenendosi in un’atmosfera intima come di anni italiani precedenti il boom nonostante le macchine ti sfiorassero alla solita maniera schizoide di oggi.
Soltanto a Pasquetta rituale partenopeo chiedeva che la crema più scura dei popoli vesuviani si rovesciasse al porto e invadesse come un’armata stracciona ogni spazio libero delle poche spiagge e dell’interno profumato dai limoni, scalciando urla in accenti slabbrati e palloni addosso alle signore scure sedute nelle icone delle porte su strada, e tutto il caos pan-dionisiaco che ingravida da sempre il golfo.
Vera ci spiegava la particolare salvezza procidana col fatto che l’isola godesse naturalmente del controllo capillare camorrista, seconde ville e motoscafi veloci avevano garantito una certa distanza dallo sviluppo selvaggio delle cose umane.
Poi, se eri sceso dal traghetto attracollato di eccessivi pesi, Vera insisteva per evitare il tuk-tuk-taxi e farsela a piedi per quei tre quarti d’ora che prima salivano nel panorama aperto, poi pianeggiavano in una serie di curve tra mura strette che celavano le limonaie esposte, con l’eccezione del cancelletto, un anno aperto e l’altro chiuso per il pericolo di frane, che si apriva nella luce del giardino panoramico dell’isola di Arturo, dove Morante e Moravia usavano scambiarsi gli amori e le lettere.
Si seguiva Vera trotterellando un passetto dietro, l’ampia falcata del suo metro e ottanta di mezza slava e i racconti delle cose del mondo sociale e politico con cui accorciava le distanze spingevano a una forma di umiltà vagamente contegnosa. Il piccolo nodo si scioglieva col soccorso dell’isola che tornava a scollinare, sul pianoro dove si aprivano le discese a mare sul lato di Vivara. Si era giunti al cuore dell’ospitalità, il gruppo faceva circolo e Vera assegnava gli alloggiamenti possibili, i più alternativi che avrebbero dormito anche in terra negli stretti quaranta metri di casa, gli altri parcheggiati lietamente a pensione Savoia, una vecchia struttura fatiscente di carattere fascio-umbertino, dotata di un giardino di limoni vasto e bellissimo e percorsa dal fascino delle cose che resistono tignosamente, andando in malora.
Si riusciva a stare felici negli ultimi fremiti degli infissi schiodati, sussurranti, nelle more dei rubinetti gocciolanti, delle infiltrazioni di umidità e rumori, delle scale sbilenche. L’albergazione vintage di Anastasia e delle altre due sorelle ottuagenarie che gestivano l’esercizio da una vita, era ancora uno dei motivi antropologici segreti, fondanti dell’isola, insieme all’umanità ruvida che odorava d’antico, alla testa matta di Girone che ti sbraitava addosso il menù della trattoria sul mare oppure semplicemente si girava e se ne andava per i cazzi suoi, e se volevi ordinare qualcosa dovevi inseguirlo e blandirlo, certe volte non v’era certezza alcuna.
A Pensione Savoia, piuttosto, potevi esserti intascato tre limoni di straforo di notte, nel giardino, tra quelli caduti in terra, ma non c’era verso. La mattina che andavi a saldare il conto, dio solo sa come Anastasia facesse, è probabile che condividesse ormai il sistema nervoso delle tubature marcite, dei labirinti di spifferi, fino all’estensione delle radici nella terra; lei intonava comunque sempre, dal retro nebbioso di due vecchi fondi di bottiglia, lo stesso canto: “E voi(tu), avete preso pure tre limoni, è ovéro?”
Era overo si, si confessava senza vergogna e si tornava sempre a Savoia, comunque, consapevoli che il miracolo delle sorelle ottuagenarie avesse il maledetto tempo contato di quei rosari indigeribili della modernità, che si sarebbero invariabilmente presi la Pensione, a breve.
Vera attendeva tutti a ogni ora dalla sommità di palazzo Guerracino, quel bellissimo edificio rosso antico che sovrasta il panorama di Solchiaro, aspettava sulla terrazza a giro di cui da qualche anno aveva affittato il piccolo superattico, nella nobiltà trasfusa sugli oggetti del mondo alternativo che eravamo noi tutti ancora, pur molto vicini ai quaranta ambigui anni di una vita. Può dirti il peggio quest’ala sconsiderata dell’esistenza, non sei più giovane e nemmeno pienamente adulto, hai ancora slanci eroici ma qualcosa di sottile nella fermezza delle gambe comincia a farti tremare, alcuni si chiudono e diventano il paguro di se stessi.
Vera rappresentava il nostro comunismo intimo, disperso e raccolto a rituale animista, in anni in cui già si faticava a credersi collegati ad altro di politico che non fosse uno sbaglio di gioventù. Lei incrollabile, come una madre generosa con le guance scavate dall’utopia, abitava una porzione celeste del palazzo che fu residenza di riposo dei regnanti napoletani, un paio di secoli dietro, una porzione alta da cui vedevi il mare ovunque girassi lo sguardo incredulo.
Entravi dentro casa e ti coglieva un brivido, un abbaglio, stavi lì con la borsa in mano senza sapere bene dove poggiarti, facevi conto di metterti a leggere tutta la rincorsa di scritte a vernice o pennarello che saliva sui muri, le leggevi una per una ed erano tante, erano fuori posto, fuori anima, fuori ogni considerazione che avessi mai potuto avere dell’amore, nella forma più nuda e sconveniente che si potesse concepire.
ABEL VIVE, i caratteri più grossi.
E poi una fuga di frasi in font manuali e colori diversi a trafiggere l’intonaco bianco e fin nei soffitti, si traversavano come scambi ferroviari punti e virgole e binari di senso che invitavano a oltrepassare la soglia della camera da letto; c’era logos solidificato fino accanto alla finestra di Solchiaro, dove il sole tuffava le sue grazie nei vapori dell’orizzonte nudo a mare.
Erano Violeta Parra, Mercedes Sosa, Amparo Ochoa, erano poesie e illuminazioni sulla morte che spurgavano dal tratto più ingenuo e occulto di Vera, era Abel che viveva fuori da ogni grazia e comandava a bacchetta le truppe semantiche dell’impossibile requiem, così come aveva comandato le missioni Ong argentine nei territori desolati del Chaco. Il fantasma di un medico di Buenos Aires con cui Vera aveva condiviso un tratto portante di destino e l’unico vero amore possibile che può capitarti in una vita, quella congiunzione che passa una volta soltanto, che non ti farà mai a pezzi con le dinamiche o la stanchezza, con il conto del privato e il disinteresse per gli ideali.

2

Vera sapeva come trattarsi con ironia, le sue esagerazioni invitavano alla partecipazione rispettosa più che al velato obiettare di un silenzio, un po’ come capitava per il tradizionale mare ai faraglioni di Chiaiolella; i cartelli erano chiari, c’era scritto: Vietato Attraversare, pericolo di frane. Eppure è lì che si andava tutti a sdraiarci sull’onda del suggerimento di Vera, salendoci addosso con i discorsi e le clownerie, con le freccette di sabbia e sassolini che ci piovevano addosso ogni tanto dal costone alto.
Vera era riuscita a tirarsi fuori da un anno in cui era davvero naufragata a Procida. Come un vapore spezzato dalle tempeste, aveva chiuso la propria carcassa pericolante nel rimessaggio del tetto di palazzo Guerracino e ci aveva versato ettolitri di alcol dentro, pronta a lanciarci il proprio zippo ardente sopra.
Un giorno poi, come le pure forze della natura, aveva sfebbrato improvvisamente la stagione ed era tornata a produrre vento e luce. Vera è l’unica persona che abbia mai conosciuto per cui la generosità, il fare gruppo e distribuirsi, moltiplicarsi, connettere e condividere fossero tavole di una legge interna perfettamente congruente. Così il mondo aveva ricominciato a vorticargli intorno, si tornava dai misteri procidani come persone migliori, con un quanto di vita spremuta in più, con numeri di telefono su foglietti nei taschini o già sottobraccio a qualche forma di cuore tiepido, in arcana mutazione di stato.
Di un giorno che successe la tragedia, ancora forse qualcuno ne sorride.
Di un alba che seguiva una corta notte di veglie febbrili, di quei quindici sparsi che eravamo, delle poesie cantate in circolo semi-sdraiati sotto le stelle di Solchiaro, di Silvia con la chitarra da Napoli e la voce di un angelo senza titolo; inventava le parole lei, traslitterava semplicemente ciò che ascoltava senza sapere le lingue, il suono delle frasi dei tanghi argentini e dei fado portoghesi, ne estraeva idiomi inventati che poi trascriveva per comodità, fedeli alla quasi perfezione fonetica.
C’erano poi due suonatori uruguagi, ragazzi che Vera aveva arruolato qualche giorno prima incrociando una performance di strada in una stazione del Metrò. Gli altri intorno, stonavano e cercavano di stare al passo, sommersi dalla carezza delle copertine stese contro l’umidità della notte, nel calore di una semi-presenza a corredo che smuoveva le mani cieche di tutti verso qualcun altro, con il desiderio tiepido liberato verso un corpo differente, o anche solo verso l’idea di un qualche domani plausibilmente destinato.
Sparimmo tutti, poi, per un paio d’ore di duro sonno appena. Alla colazione delle sette affluimmo sparsi come randagi assottigliati, portati dagli odori del vento, ognuno pestato da differenti quadri onirici di coscienza.
Vera che sbraitava nel suo accento secco, sarcastico, mentre non smetteva un attimo di correre in giro a raccattare immondizie e distribuire tazze fumanti e biscotti rimasti non se l’aspettava nessuno, comunque.
In quelle due ore era andato via tutto, il corpo-voce di Silvia e la chitarra erogena di Esteban, Vera se n’era accorta per forza, per via che lei e l’uruguagio di strada era già una settimana che vivevano nel tetto del Guerracino, e la danza delicata che avevano condotto aspettandoci non poteva ammettere alcun tradimento dell’amicizia né della solidarietà, in un caso e nell’altro. Questa la ragione verticale, Vera.
Il motivo per cui molto di questo fu sciolto, come fosse solo una rapida esibizione di passi sporchi, fu che Vera lo considerò come un giro maldido di tango, una cosa che nella vita può sempre capitare. Nessuna vecchia carcassa ammarata che si rinnovi può sostenere una deviazione del genere per più di un tanto.
Per l’ennesima volta fummo grati a Vera, allo strano modo in cui ci riconoscevamo tutti, al suo disperdersi in un’idea di comunismo che non è mai morta, un sogno che ha continuato a vivere oltre le latrine politiche nell’anima di pochi intimi.
E tu te lo ritrovi vicino e in tasca e sulla guancia, persino, un giorno che eri Esteban, un uruguagio con un po’ di arte e molta poca parte in un paese estero, non avevi niente con cui pagare i servizi del mondo e sei stato raccolto, ospitato, nutrito di cibo e di storie, e ti si è dato anche il bastante per prendere un traghetto e un treno lungo per dove dicevi che ti sarebbe piaciuto andare a provare, dopo.
Scendiamo ancora le strade di Procida, incrociamo i molti caratteri ruvidi, introversi, dell’isola, schiviamo abbassandoci e sparpagliandoci le pallonate dei selvaggi rituali della pasquetta che ciacolano le neo-lingue del golfo.
Silvia viene giù trasognata e lenta, poco discosta da noi, quattro giorni pieni sull’isola senza cambiarsi, e solo la custodia della chitarra a farle compagnia in spalla.
Da qualche parte nell’isola grandi altoparlanti diffondono la festa, le canzoni neomelodiche, i presentatori proiettati nell’etere profumato vicino al tuo orecchio prigioniero. Nella distanza sentiamo invitare sul palco un bambino che vuole raccontare una barzelletta in tema alla festività che stiamo attraversando, scendendo verso il molo dei traghetti.
Con voce acuta, che fa a fette un paio di chilometri di barriere ambientali, il bambino racconta che c’è un Gesù sulla croce e queste tre suore gentili che vanno a portargli unguenti e conforto, e della prima che pietosamente leva il chiodo da una mano, della seconda misericordiosa che libera i piedi, del Signore che, guardandosi un po’ preoccupato, alla fine sbotta: “Oh, mò tu guarda se tre mignotte non me fanno cascà per terra!..”
Un grande gelo profondo avviluppa l’isola per l’eternità di un paio di secondi. Poi il presentatore rimette in moto il set che Procida è diventata tirando fuori non so che supercazzola dal cilindro, e noi veniamo sommersi da un nuovo neomelodico sparato a palla. Così ciò che ne possiamo ridere noi, abbandonati sulle gambe, e Silvia nella somma del proprio conto, che sbotta più forte di ognuno, nemmeno si sente alla fine.
Ora, così distante e spossessata di noi, l’isola di Procida appare nella tranquilla indifferenza che la abita realmente, nei vecchi abusi consolidati e nelle nuove incurie moderne; accade nelle strade, nelle mura, nell’aria e nei modi di tanta gente locale, nelle radici un po’ insensibili che affondano in terra e sono anche un po’ truci.
L’ultima volta che sono sbarcato a Procida, Vera non c’era più. Andammo comunque ad occupare una stanzetta malmessa che dava sulla bella terrazza panoramica di Pensione Savoia, ma fu tutta un’altra storia, oppure semplice il tempo trascorso. Anastasia ci comunicò, forse, la dipartita di una delle sorelle della storica trimurti ottuagenaria reggente, e disse poi che accidenti le malore, e non ci si faceva più ad andare avanti così, si stava per chiudere e buonanotte ai suonatori. Col tempo avrebbero riaperto altri, con i soldi per sistemare tutta la preziosa crosta di fatiscenza che avvinceva il luogo. Hotel Savoia, oggi, si prenota su internet, e anche palazzo Guerracino è stato rifatto a lustro.
Al teatro naturale della Corricella, invece, Vera ci portò sempre con moderazione. Si diceva che l’immagine più bella dell’isola, quella che gli americani e la Findus amano senza saper nemmeno che appartiene a Procida, quella specie di muraglione di presepe bianco senza tempo che rappresenta a nostra insaputa l’Italia nel mondo, non fosse altro che poesia accademica, solo il riflesso di una noiosa caverna platonica, e noi avevamo voglia di vivere con Vera.

3

di Alessandro Gabriele
http://aereoplanini.wordpress.com/

*Creatives I – Una Spia nella Casa della Scrittura


hem1«Se vostro figlio vuole fare lo scrittore o il poeta sconsigliatelo fermamente.

Se continua minacciate di diseredarlo.

Oltre queste prove, se resiste, cominciate a ringraziare Dio

di avervi dato un figlio ispirato, diverso dagli altri».

Grazia Deledda

In principio fu il verbo, non si discute. Certamente fu la scintilla che mise in moto l’universo, appena dopo che il primo sostantivo si svincolò dalla grande madre nulla col problema del punto interrogativo che lampeggiava nell’oscurità; in sostanza, a quale diavolo di materia-identità fosse più opportuno dare seguito e corpo.

Furono gli avverbi a permettere all’Uomo-tarzan di slanciarsi dinamicamente nella foresta del possibile, molto tempo dopo; per ultimi vennero gli aggettivi, i maledetti che giunsero infine a connotare gli oggetti nell’era della decadenza dal flusso naturale, quei figliastri di pesi estetici che crearono lo specchio dove poggiare l’immagine del demonio, almeno così la pensano alcuni Editor e quasi tutti gli insegnanti di italiano delle superiori.

Non si scherza con questa roba, è una cosa di cui ti rendi conto solo dopo diversi anni che la maneggi, quanto la scrittura abbia un carattere indipendente e sopporti a malapena di sorreggere i tuoi diari esistenziali, i dolori con cui cominci a scrivere da piccolo, i flussi residuali della tua coscienza volitiva che si fa strada e che in genere non interessano oltre la cerchia ristretta dei sodali che si rispecchiano in te.

La scrittura-scimpanzé ti è salita sulla schiena con una forma di cecità verso ciò che ti riguarda da vicino, e se ne sta andando lontano scansandoti con poca grazia, usa il tuo braccio come una mazza o come un archetto, punta a qualcosa che scopri di non sapere ed esce da te.

Sei caduto in un tritatutto, risucchiato da un’ebbrezza maligna che trasforma i pensieri in incipit ben formati, i tuoi amici in personaggi di storie vere o inventate, gli ambienti che frequenti in pericolose scatole metaforiche tra cui perdersi, col pericolo che un giorno il mondo possa mandarti una cartella Equiesistenziale dove ti si dichiara la morosità verso il collettivo e i buoni sentimenti, con tanto di bollettini pre-stampati di solitudine con cui devi necessariamente saldare i conti.

Fa freddo nelle case degli scrittori, questi danno fuoco e stemperano, soffiano, correggono e ricorreggono illusioni fino a pagarla cara, e anche dove ci sono brutti infissi d’alluminio e doppi vetri alle finestre, la semplice attività di star piegati d’inverno sulla scomoda tastiera di un notebook produce scoliosi, sciatica, reumatismi, brividi, coppini alla cervicale, groppi alla tiroide, laceranti malinconie che colano dalla fessura ambigua del climatizzatore Inverter. 

Ecco ciò che va augurato a chi s’è messo in testa di “scrivere”, finchè non siete sullo strapiombo di questo versante vi si pregherebbe di lasciar perdere o di non rendere pubblico niente, piuttosto, il mondo è già sufficientemente gravato di inutile carta e ciò che avete da dire voi è già stato detto infinite volte e meglio. Val la pena piuttosto coltivare un nervo se serve a divenire altro da sé, ad essere posseduto da una visione, da qualche forma di fuocherello inestinguibile, è solo questo che salva una scrittura dal fango del -luogo comune-.

Dimenticavo: tutto questo avviene solo se accettate di scrivere cose improbabili anche per anni, talvolta, credeteci, imparate a tollerare il fatto che tutto l’Ego grezzo che producete, insisto, non interesserebbe nemmeno vostra madre, se la prendete quella sera che è rimasta sola con la boccia del Cointreau a fare i conti con le verità essenziali della vita.

E’ solo allora, forse, in concomitanza col trasloco dell’identità dell’autore dal chiaro dei contenuti all’alchimia delle strutture narrative, al centro di una febbre che spacca le labbra, che si può parlare di letteratura, di “stile”, di quella parolaccia troppo abusata che si dice: “cifra”.

Il cerchio si chiude, ciò che di sé s’era perso con l’abbandono della tassa egoica ritorna come espansione dell’essere nel logos. Qualcuno è morto avvelenato dai fumi del proprio incenso o di alcol e solitudine, nel frattempo, i più furbi hanno ragionato molto e fatto l’amore compulsivamente per rimanere attaccati alla realtà, e/o all’establishment letterario. Per chi s’interessa di letteratura mainstream, oggi, non c’è alcuna differenza tra i due concetti, la realtà produce establishment e viceversa, con grandi aspersioni di liquidi seminali -ad ingraziandum-.

Il binomio sesso-scrittura è inscindibile a certi livelli, per le donne e per i maschi sensibili può essere diverso, d’accordo, giochiamo a sostituire la parola sesso con seduzione o sentimento ma il binomio non crolla affatto, è sempre il potentissimo dio Eros che canta dal profondo dei secoli sull’irresistibile trenino della scrittura, yep.

Ecco, se il Cerbero Savianofazio non l’avesse adeguatamente bruciata, userei la parola “narrazione”, questa è la mia personale, il laboratorio di scrittura che sognavo di tenere sta tutto dentro queste quattro amenità concettuali, che nessuno se ne sia accorto va anche meglio, avrei altrimenti dovuto giustificare tutto il desolato nulla che rappresento.

Vedi come va il mondo. Anni fa mi trovai quasi per caso a un incontro “illustrativo” di un laboratorio di scrittura con alcuni Editor professionisti, andammo io e un’amica, una con cui giocavamo a fare gli scrittorini rampanti, sono errori di gioventù, che volete; erano i primi racconti, io mentivo spudoratamente sui miei piaceri di leggere le minchiate che scriveva lei, lei chissà, sulle mie forme barocche d’ignoranza.

Nemmeno ci fecero sedere in sala che già spararono il costo esorbitante della storia, ma ciò che ci rese nulli, oltre che poco interessati a iscriversi, fu il fatto di scoprirci non interessanti affatto, noi stessi in primis.

Ci dissero che eravamo nessuno, senza nemmeno una lontana tossicodipendenza, senza un fratello Down e una madre mignotta, senza l’ombra di alcun pretonzolo che ci avesse mai inchiappettato, che cavolo avevamo mai di notevole da raccontare.

Ci guardammo, io e la mia amica nessuna, la voglia di scrivere come quella di sdraiarsi dal dentista de: Il Maratoneta. Ma loro almeno erano stati onesti e chiari, e noi incapaci anche di prenderci a schiaffi; fossimo stati furbi l’avrei dovuta portare di corsa sull’appia antica per stuprarla, e lei vendicarsi il giorno dopo mandandomi il canaro della magliana in licenza premio sotto casa.

Così funziona, a spanne, una buona metà del labirinto editoriale, una cosa che potremmo definire la colonna BarbaraD’ursiana del mainstream culturale. L’altra metà è ben presidiata da una sostanza scura, complicata, che si crea nello sfregarsi tra quanta aria riuscite a farvi intorno mediante le relazioni e alcuni muretti di contenimento logico-organizzativi, le famose regole del sistema, che vanno intese sia come canoni di autorità editoriale da cui non si deroga che come modelli del logos, della scrittura intesa come forma di comunicazione commerciabile.

E dunque una buona notizia per tutti: che abbiate nulla da dire, per questa seconda metà del mondo, non è affatto una tara, anzi, garantisce miglior margine di manovra al sistema che vi ingloba, rappresentate benissimo la mass bovina mediana che pascola in libreria sotto le feste.

Ecco perchè, infine, forse io stesso potrei avere qualche possibilità di emergere con il soave esprit delle mie nullità, con la mia narrativa intimista popolata di Jeremy Irons periferici, con mio padre che ha fatto l’impiegato triste tutta la vita guidando a quaranta all’ora una fiat 128, modello Rally (era il fatto che avesse la versione Rally, in particolare, che mi spezzava).

E dunque mi son messo alla prova qualche tempo fa. Erano due anni che non scrivevo, peggio di così non mi farà, mi son detto, un bel laboratorio di scrittura creativa, tenuto da una Editor vera.

Insomma, non mi ci hanno mica portato con la camicia di forza oggi qui, al laboratorio, benchè scrivere narrativa sia un delirio, nella sostanza, un’assunzione di responsabilità della madonna. Nel senso che chi scrive le fai lui le regole del mondo, in narrativa l’unica regola che abbia un senso è il grado di “credibilità” riprodotto, figuriamoci il grave che affligge gli scrittori, e io sono qui volontariamente per fare il mio sporco gioco.

Basta guardare le spocchie travestite che stanno già sedute in sala, i cappotti e le borse e i laptop che tracimano di sedia in sedia, con tutte le file che fanno alzare altre file intere, sorridendo nessuno sa bene cosa, tutta una muina intelligente di corpi emozionati per comporre i gruppi sodali di opinione sulla piazza letterata.

Tu (cambio di persona narrante, come l’Allegro Chirurgo ti suonano subito al laboratorio se fai una cosa del genere). Insomma proprio tu, entrando in ritardo, hai bucato quella mezz’ora strategica precedente in cui, persi nelle procedure del tesserino magnetico d’ingresso, gli aspiranti scrittori in fila si sono già incendiati come zolfanelli secchi strofinandosi addosso i saluti e le presentazioni e quarti sanguinanti di curriculum e qualcuno già il numero di telefono e un appuntamento, persino.

Così adesso, cercando un posto in sala, come una mina vagante osservi la fiera mugghiante e sei interessato al bestiame in esposizione, sicuramente, almeno quanto al Verbo che tra pochi istanti sarà distribuito da quello che appare come uno sconveniente palchetto felpato dove, tra le acque minerali distribuite, troneggeranno gli insegnanti.

La tua vecchia prof sta ultimando le procedure di installazione dei conoscenti e degli sconosciuti in un contesto amichevole, informale, moderno.

Lei ha dieci anni più di te, bella è ancora bella, occhi luminosi, sorriso dentifricio. Era lei per te, quella tenerezza alternativa delle mattine che la sadica adolescenza ti cagava sopra, lei, il disegno irresistibile delle sue lentiggini, che t’insegnava l’italiano al liceo. Ancora lei che conduceva i laboratori più all’avanguardia durante le autogestioni degli anni “70”, e tu non l’hai mai dimenticata. Fuori dalle arie narrattivo-corrosive che si danno gli scrittori, un po’ la ami ancora o peggio: hai una specie di lucchetto di Moccia arrugginito dentro e non sai dove cavolo inchiavardarlo.

Accanto a lei, vecchia letterata che nel tempo ha sfondato come editor professionista presso rinomate case editrici, stazionano nervosamente le giovani leve: una specie di editor tirocinante piccolo e scuro, che pare il figlio di un intellettuale sessantottino, e poi lui l’immancabile, capigliatura da Caparezza, sdrucito il giusto, le mani sempre impegnate in un tasca di cotone messicano dove armeggia col Pueblo e con le Rizla, lo scrittore giovane, ancora poco conosciuto ma di talento, tutto il tempo a rollarsi il nome con dieci paperine intorno, minimo. E c’è ancora qualcuno che si domanda perchè tutti in Italia vogliano fare gli scrittori.

Così, scegli di andarti a piazzare nella fila che scansano tutti, salvo gli oppositivi e quelli che se la tirano. Dalla prima fila si raccolgono gli umori migliori, si contano le rughe sulla della pelle degli eventi, e ci si può girare continuamente con sussiego o con qualsiasi altro cavolo d’espressione impostata tu abbia voglia, vivaddio.

Tutte le spocchie tengono uno o più lati d’ombra, non sia mai, ma nelle distribuzioni sociali medie le quote di grande maggioranza le tengono i falsi modesti, gli agnellini mentiti, quelli che si presentano defilati, che quando aprono bocca è tutto un seminare retoriche del proprio essere infinitesimale, e come un diesel borbottante, nei falsi-mod, la spocchia emerge sempre invece alla distanza, in maniera inevitabilmente feroce, non se ne esce. Per questo ho sempre preferito gli sbrasoni manifesti, sono più onesti e si perde meno tempo in cazzate d’aria compressa.

Mi girano un po’, veramente, sembra di essere in un cinema parrocchiale, più che altro, le sedie hanno la ribaltina insidiosa dove cade di tutto, sto sempre chinato a raccogliere qualcosa come uno che gli piace guardare le fesse da sotto, e dietro di me stanno non meno di ottanta persone che producono umidità ed esclamazioni di ogni risma, per lo più donne di ogni fascia generazionale, pronte per assumere il verbo.

Il che sarebbe pure la mia condizione ideale, come rimanere chiusi in una pasticceria da bambini, proprio, se non fosse che questo dovrebbe essere un Laboratorio di scrittura, e invito io qualunque mandria senziente a produrre altro che la propria caotica quota di sopravvivenza, in un posto come questo; come andare a una messa di fondamentalisti per imparare la storia delle religioni, una roba così.

La mente ha bisogno di storie, di produrle non di assorbirle, precisamente.

Cercare la scrittura in un Laboratorio, mediamente, è come provare a fotografare lo Yeti tibetano senza che Messner s’incazzi.

Ma cosa ci faccio io qui, allora.

Sei qui per ragioni ambientali, italiano lobbysta del menga.

Già, l’Italia, ci sono svantaggi e vantaggi, metti le italiane, sono le donne più belle e sensuali del mondo, soprattutto tra i quaranta e i cinquanta, soprattutto con il desiderio di apprendere, soprattutto quando tengono un libro in mano e una vaga storia per la testa.

Le persone deludono sempre, è solo questo assunto che bisogna amare del mondo e oplà, il gioco è servito.

Produco auto-aforismi per scaldare i motori, sono in prima fila del resto, non potrò starmene zitto troppo a lungo. Ho un sacco di carne al fuoco che preme, dentro, temo che il fumo di bruciato che già s’alza possa attirare troppe attenzioni che non voglio, oppure che voglio, non lo so, non mi sono mai capito bene in mezzo ai gruppi, tendo a tirare a indovinarmi.

Comunque, il mio amore dentifricio è suggestiva, squillante, e mi presenta come il suo allievo “prediletto”, ma si tratta subito di una bugia, sparata a casaccio. In realtà, son mesi e mesi che rifiuta di leggere i miei racconti con le scuse più improbabili, bastava un: “no guarda, sono piena di lavoro fin sopra i capelli”; ma no invece, m’ha attirato sapientemente nella sua rete di scrittura creativa e io ho fatto pippa, mi sono messo in stand-by umano, con lei e il suo lab.

Mi è stato promesso che questo è un livello propedeutico al secondo dove solo dodici discepoli avranno accesso, dove si entrerà nel cuore del lavoro creativo. Insomma si tratta di un purgatorio di passaggio e io in fondo amo i purgatori, si passeggia sotto gli alberi tutto il tempo senza bestemmie né opere pie, la mia condizione ideale.

Intanto tre signore della fila dietro la mia mi si sono già attaccate al collo per fare gruppo, una di queste mi accavalla e scavalla le gambe (che sa benissimo d’avere) sotto il naso, ripetutamente, tiene uno di quei piccoli tatuaggi vicino l’astragalo che segnalano la disponibilità delle chiavi di casa sotto il tappetino.

Mi si prospetta una laocoontica gang-bang intellettuale che mi sfiancherà in breve volgere, se un po’ mi conosco. Devo ricordarmi di ringraziare per l’opportunità concessa, umilmente, piuttosto.

Non sto scherzando, lei sa, ci sono gli affetti, e in definitiva: tutto sobbolle nel muscolo della conoscenza, a cominciare dal soffritto dell’inutile.

Che si bruci pure la pentola, dunque.

Sipario. 

Cohen

-Continua-