O-scena ovvero l’ Irrappresentabile in teatro di Nausica Hanz


“Se la processione che fanno e il canto del fallo che intonano non fosse in onore di Dioniso, ciò che essi
compiono sarebbe indecente; la medesima cosa sono Ade e Dioniso, per cui impazzano e si sfrenano.”
(Eraclito, frammento 15)

Da un’intuizione di Carmelo Bene prende spunto questo articolo e precisamente dalla reinterpretazione etimologica del termine osceno, che in Bene viene posto come o-skené: “osceno vuol dire appunto, fuori dalla scena, cioè visibilmente invisibile di sé” afferma Bene durante la trasmissione del Costanzo Show del
1990 .
Osceno è tutto ciò che non esiste sulla scena, che viene posto ai margini del vedere perché di natura sporca, lurida, ripugnante, offensiva; eppure molte opere performative contemporanee sono riconducibili ad una oscena perché si collocano nella sfera dell’irrappresentabile, in quanto introducono nello spazio teatrale elementi taboo, perversi e vietati dalla norma.
È in questa tensione tra il poter vedere e il vedere tutto che si situa il perturbante, un teatro estremo in cui lo spettatore diviene destinatario di quell’atto di dis-velamento della scena da cui non è escluso nessun elemento: tutto è in superficie, viene annullato qualsiasi spazio nascosto, non ci sono più segreti e il confine tra dentro-fuori, vero-falso, arte-vita è stato rimosso per permettere allo spettatore di poter abbracciare l’opera nella sua interezza.
I lavori performativi di Jan Fabre e della Societas Raffaello Sanzio sono due esempi di teatro in cui la dimensione dell’irrappresentabile assume un carattere principale, la loro è un’arte che svela, un palco che conduce lo spettatore a vedere ciò che prima era vietato allo sguardo: l’inguardabile viene ora esposto nella sua forza cruda.
L’osceno è esploso (o per usare l’efficace immagine di Castellucci) ha subito un’emorragia, ha riversato in teatro l’indecente e portato l’arte verso una zona perversa, limite, pericolosa. In questo teatro è la materia

Socìetas Raffaello Sanzio - Tragedia Endogonidia

Socìetas Raffaello Sanzio – Tragedia Endogonidia

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Prospettive. I fotografi che hanno fatto la storia della fotografia: Irina Ionesco – Omaggio di parole


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Corpi

Non ti ho chiesto il numero
né il nome, è anonimo
il sangue che scorre
le cosce sono mantici,
torchi ad alta pressione

sono salito per gambe
affilate come rasoi
mi sono spinto nel ventre,
ne ho fatto nido
casa di pochi istanti

nessun “permesso” né inchini
sulla soglia, la nostra è storia
di corpi che cozzano per lasciarsi
d’impronte nude
sul vetro degli sguardi.

di Leonardo Renzi

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E subito gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista.
Atti degli Apostoli(Cap. 9, v. 18)

[Portrait de femme]

Scena prima.
Mi vedi? – nessuna luce a Damasco*.
E cado se guardi e cadi.
Scena seconda.
Mi vedi? – non va bene questa luce.
Non la dividi. Sai prendere solo un pezzo di me?
Scena terza.
Mi vedi? – ricuci tatua all’innocenza la luce.
Rivestila. Ne sei capace?
Scena quarta.
Non guardare la scena.
Tornare è impossibile. Riesci a rifare lo stesso ritratto?
E non nominare l’anima – indumento da bocca. E rivestiti. E copri la luce prima di vedermi.
Le mia ciglia tratterranno i tuoi occhi e quelle distrazioni cadute sui sogni. Toccali. Puoi?
Trapezi archi a precipizio e io desquamata che cado cado se guardi la fame come fosse l’ultima.
“L’abbandono, fiore pubico!”
Aggràppati al vuoto. Non ti salvi se guardi. Mi vedi?

* Irina è una ballerina quando, in un teatro di Damasco, il suo partner accidentalmente la lascia cadere. Convalescente, inizia a interessarsi alla pittura e alla fotografia.

di Maria Grazia Insinga

ii

Ti spii dietro un sipario.
Cede lo sfondo, aperto è il varco.
Feritoie su un corpo sovraesposto
in chiaroscuri e giochi d’ombra.
Lo stupro avviene nel silenzio
in piena luce,
in omertà di narcisismo e di pudore.
Liquefatta dondoli sull’orlo,
poi, nel dopo, celi il taglio e le infezioni .
Immortalate mortificazioni del sè, in te
Cristallizzate eternità di sguardo in me
Ancora mi offri un’inguardabile spettacolo.
Vojeur.

di Valeria Raimondi

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E’ qui che ti vorrei
come un cristallo lucido in preda alla follia
pungente fra le gambe che non ti concedono tregua
e nella bocca , come un vizio rialzato al pensiero
languido fino a che non mormori ancora
l’ultimo verbo sazio di lussuria .
E’ qui che ti vorrei
con la giusta pressione dentro la carne
vestito , affilato , tagliente
mentre io ti resto accanto estrema
fuori da ogni logica di compulsione
senza cartilagine
come senza amore

di Rosaria Iuliucci

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Irina e le amiche di Vincenzo Mancuso

Prenderne due
in disarmo nel gioco della lampada:
è questo che si pensa
dosando la luce. E’ importante sapere
qual è il gusto
e a cosa vada l’equivoco è un fatto
di discepoli e/o feticisti.

Meglio un velo, ma non dispiace.

Da un buco a vari buchi
da scultore incallito rivolto alle immagini
diventa chi di testa riccia perisce.
Lo scopo è fare
della pelle propria l’altra esposta
usando solo un dito nichelato.
Chi finirà dell’attimo
sopra i monti e chi eviterà di passare
la lingua mantenendo mesta la traiettoria?

E belle chi lo dice: l’opera piange storta.

Prolassata riderà
sulla tensione che è il peccato.
Sarà chi scatta prendendo la neve
senza perversione
ogni volta che le pareti sono letti
con gemiti o disapprovazione nel gioco del talento.

I modelli fanno la scelta
ma lei da artista non antepone
non secca capezzoli di Veneri
e ciò che sfoga è in bocca al neonato
e sulla lente che si abbassa entrando.
Sorelle, amiche o competitors
disegnano una strada, una stanza o il vaglio
per soci di vetro, sembra.
Si gode. Anche questo
fanno le pellicole.

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La bambina nella scatola

Dietro ogni cosa bella
c’è stato qualche tipo di dolore.
(Bob Dylan, Not Dark Yet)

La storia di Irina Ionesco e di sua figlia Eva suscita scandalo da quarant’anni, ed è certamente un caso unico nel panorama dell’arte contemporanea per le implicazioni etiche e morali che lo accompagnano.

Irina Ionesco, nata a Parigi da padre violinista e madre trapezista, viene abbandonata all’età di quattro anni. Spedita in Romania, paese da cui provenivano i genitori, Irina viene cresciuta dalla nonna e dagli zii nell’ambiente del circo. Nonostante sognasse di diventare ballerina, a causa del suo fisico asciutto ed elastico verrà indirizzata verso l’antica arte del contorsionismo. Dai 15 ai 22 anni gira l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente con il circo; durante il suo spettacolo si esibisce con due serpenti boa, e più tardi dichiarerà: “ero diventata schiava di quei serpenti, e alla fine ne ho avuto abbastanza”.

Durante una convalescenza a causa di un incidente di danza a Damasco, Irina comincia a disegnare e a dipingere; abbandonato il circo, viaggia per qualche anno con un ricco giocatore d’azzardo iraniano che la copre di gioielli e abiti lussuosi, prima di studiare arte a Parigi. Poi, ecco da una parte l’incontro fortuito con la fotografia (l’artista belga Corneille le regala una reflex nel 1964), e con gli scritti sulfurei e trasgressivi di Georges Bataille dall’altra.

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Le sue fotografie, che inizialmente ritraggono amiche e amici agghindati con gli abiti che Irina aveva nel suo stesso guardaroba e fotografati al lume di candela, conoscono un immediato successo fin dalla prima esposizione. Già da questi primi scatti sono evidenti quegli elementi che attraverseranno tutta l’opera della fotografa: l’erotismo feticistico, i costumi di scena ricercati e barocchi, le pose teatrali, le collane di perle, e i dettagli gotici (teschi, corredi funebri, composizioni floreali).

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Ma le fotografie davvero controverse di Irina Ionesco non sono queste. Dal 1969 in poi, Irina decide di fotografare sua figlia Eva, di appena 4 anni, nei medesimi contesti in cui fotografa le modelle adulte. Cioè nuda, in pose da femme fatale, e agghindata soltanto con quegli accessori che avrebbero dovuto renderla un’icona dell’erotismo.

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Siamo negli anni ’70, un’epoca in cui i tabù sessuali sembrano cadere ad uno ad uno, e chiaramente il lavoro di Irina si iscrive in questo contesto storico specifico; ciononostante le foto creano un grosso scandalo – che ovviamente porta fama e successo alla fotografa. La critica discute animatamente se si tratti di arte o di pornografia, e anzi per qualcuno le fotografie proiettano un’ombra ancora più inquietante, quella dell’istigazione alla pedofilia.

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Ma in tutto questo, cosa prova la piccola Eva Ionesco? E’ in grado, data la sua tenera età, di comprendere appieno ciò che le sta accadendo?

Mia madre mi ha fatto posare per foto al limite della pornografia fin dall’età di 4 anni. Tre volte a settimana, per dieci anni. Ed era un ricatto: se non posavo, non avevo diritto ad avere dei bei vestiti nuovi. E soprattutto non potevo vedere mia mamma. Mia madre non mi ha mai allevata; il nostro unico rapporto, erano le foto.

Eva Ionesco diviene ben presto una piccola star: nell’ottobre del 1976, all’età di 11 anni, viene pubblicato un servizio su di lei sul numero italiano di Playboy. E’ la più giovane modella mai apparsa nuda sulle pagine della rivista. Seguono alcuni ingaggi come attrice (il primo nell’Inquilino del Terzo Piano di Polanski), fra i quali spicca il suo ruolo nel film “maledetto” di Pier Giuseppe Murgia, Maladolescenza, del 1977. Il film racconta la scoperta, da parte di tre adolescenti, della sessualità e degli istinti crudeli ad essa collegati, in un ambiente naturale e privo di sovrastrutture (in un chiaro riferimento al Signore delle Mosche); le due attrici protagoniste di 11 anni e il loro compagno di 17, nel film sono impegnati in scene di sesso simulato e mostrati mentre si dedicano a torture reciproche e contro gli animali. Il film non manca di una sua poesia, per quanto efferata e disturbante, ma nei decenni successivi viene ritirato, censurato, rieditato e infine condannato definitivamente per pedopornografia nel 2010 da una corte olandese.

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Da tutta questa serie di attività di modella a sfondo erotico, decise e volute dalla madre, Eva riuscirà a liberarsi proprio nel 1977, quando Irina perde l’affidamento della figlia. Eppure l’ombra di quelle fotografie perseguita Eva ancora oggi. E se madre e figlia non hanno mai avuto un vero rapporto, per anni si sono parlate soltanto per interposti avvocati.

Non vuole rendermi le stampe e i negativi. Continua a vendere un numero enorme di quelle fotografie. In Giappone si trova ancora un sacco di roba, libri, CD erotici. La gente crede che Irina Ionesco significhi soltanto foto vintage con una piccola principessa che viene spogliata. Ma io me ne frego dei reggicalze! Bisogna dire le cose come stanno: voglio far proibire le foto in cui mi si vedono il sesso e l’ano.

I processi giudiziari, per mezzo dei quali Eva ha cercato di riappropriarsi dei propri diritti e di farsi riconsegnare dalla madre gli scatti più espliciti, hanno avuto un amaro epilogo nel 2012: il tribunale le ha riconosciuto soltanto parte delle richieste, e ha condannato Irina a versare 10.000 euro di danni e interessi per sfruttamento dell’immagine e della vita privata della figlia. Ma le foto sono ancora di proprietà della madre.

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Nel 2010 Eva ha cercato di liberarsi dei fantasmi della sua infanzia curando la regia di My Little Princess, un film in parte autobiografico in cui il personaggio della madre è affidato all’interpretazione di Isabelle Huppert e quello della bambina a una sorprendente Anamaria Vartolomei. Nel film, l’arte fotografica è vista come un’attività senza dubbio pericolosa:

Isabelle Huppert carica la macchina fotografica come un’arma. L’immagine rinchiude, rende il personaggio muto. Fotografarmi, significava mettermi in una scatola: dirmi “sii bella e stai zitta”.

E in un’altra intervista, Eva rincara la dose:

Spogliare qualcuno, fotografarlo, rispogliarlo, rifotografarlo, non è violenza? Accompagnata da parole gentili, naturalmente: sei magnifica, sublime, meravigliosa, ti adoro. […] Volevo raccontare una persona senza coscienza né barriere, dispotica e narcisa. Una persona che non vede. Fotografa, ma non vede.

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Il valore artistico dell’opera di Irina Ionesco non è mai stato messo in discussione, nemmeno dalla figlia, che le riconosce un’incontestabile qualità di stile; sono le implicazioni etiche che fanno ancora discutere a distanza di decenni. Le fotografie della Ionesco ci interrogano sui rapporti fra l’arte e la vita in modo estremo e viscerale. Esistono infatti innumerevoli esempi di opere sublimi, la cui realizzazione da parte dell’artista ha comportato o implicato la sofferenza altrui; ma fino a dove è lecito spingersi?

Forse oggi ciò che rimane è una dicotomia fra due poli contrapposti: da una parte le splendide immagini, provocanti e sensuali proprio per il fatto che ci mettono a disagio, come dovrebbe sempre fare l’erotismo vero – un mondo immaginario, quello di Irina Ionesco, che secondo Mandiargues “appartiene a un ambito che non possiamo conoscere, se non attraverso la nostra fede in fragili ricordi”.
Dall’altra, la ben più prosaica e triste vicenda umana di una madre fredda, chiusa nel suo narcisismo, che rende sua figlia una bambina-manichino, oggetto di sofisticate fantasie barocche in un’età in cui forse la piccola avrebbe preferito giocare con i compagni (cosa che Irina le ha sempre proibito).

L’innegabile fascino delle fotografie della Ionesco sarà quindi per sempre incrinato da questo conflitto insanabile – la consapevolezza che dietro quegli scatti si nascondesse un abuso; eppure questo stesso conflitto le rende particolarmente inquietanti e ambigue, addirittura al di là delle intenzioni originali dell’autrice, in quanto stimolano nello spettatore emozioni contrastanti che poche altre opere erotiche sono in grado di veicolare.
Irina compirà 78 anni a settembre, e continua ad esporre e a lavorare. Eva Ionesco oggi ha 48 anni, e un figlio: non è davvero sorprendente che non gli abbia mai scattato una foto.

di Bizzarro Bazar

Sylvia-Irina Ionesco

dannate
provvidenze ti schiodano
le mani per togliermi via
il non pane quotidiano che affama
la bocca da indurti
in tentazione senza rimettere
il debito

-incarnevoli i frutti
dell’ orto_d’osso-

di Sylvia Pallaracci

Prosa Giovane: Daniele Baron – Il Diario di Hermes


Maia Flore

Maia Flore

giorno n. I (neve)

il silenzio intorno e le orme a sporcare l’immacolato bianco: mi ha sempre fatto pensare tutta questa neve, non l’ho mai trovata riposante: il buio più cupo, più refrattario alla luce, terreno nero sepolto di pietre sorde, come il cielo in una notte senza stelle, a tratti affiorante, lancia occhiate torve sotto quel candore – qualche cosa si nasconde a rammentare la cenere del consumato ribollire della natura in fiore – gli scheletri delle piante evocano quel silenzio, fatto più di parole soffocate e di non saper dire piuttosto che di placida contemplazione – eppure in quell’ingoiare cotone avverto la violenza dell’ineluttabile processo di morte e di rinascita e mi sento di poter abbracciare la terra, mi annullo, come l’ombra a mezzogiorno aderisco totalmente al mio corpo disperso in mezzo a quel freddo marmo grezzo…

[…]

giorno n. III (equazioni lineari)

piede che schiaccia il petto e pesa dolce sul cuore, accolto poi nei suoi capelli biondi sparsi, profumati come grano = miele succhiato attraverso il suolo come nettare nel tentativo di strisciare come un serpente ai suoi piedi sacri, per quanto sudici (equazione orizzontale dell’amore passionale e divino)
ano che espelle l’ombra viva dell’anima, tutto ciò che non vogliamo sapere e subodoriamo = occhio che contempla il sole, per esserne accecato, spuntato in cima al capo come un osceno e beffardo buco dello spirito, a volte gonfio come un fallo, occhio pineale, erutta come un vulcano tutto ciò che forma il non-sapere (equazione verticale di Bataille)
accecamento per troppo vedere, nei campi di grano colpo di pistola e corvi che improvvisano una danza estiva = notte cimitero di stelle, grido in fondo a nere cantine umide, ratti sonnambuli rosicchiano idee chiare e distinte e istinti fermentano sotto forma di sogni in botti d’infanzia (equazione del veggente)
vene gonfie alle tempie riscaldate dal sole, ciondolo d’oro al suo collo nascosto nel profumo del seno, luccicante richiamo per gazze sempre in calore e tranquillamente affacciate alla violenza animale e cieca, moneta per comprarsi il lusso, al di là di ogni regola e di ogni invidia = putrefazione e materia fecale, acque sporche del pozzo nella cui freschezza amiamo in pieno giorno inumarci, cadavere sotto la luce della luna, argenteo riverbero delle acque salmastre di un porto ignoto (equazione alchemica)
IO = DIO (equazione della potenza)
sé = altro (equazione del divenire)
x è l’incognita del de-siderare, fiume che ci attraversa e ci disperde come particelle nel mondo, acqua nell’acqua, terra nella terra, fuoco nel fuoco, aria nell’aria…

 […]

 giorno n. V (a-capo)

nel testo sogno di interpretare e scrivere l’a-capo come assenza di capo o senza-capo e non come andare a capo nei due modi ammessi: come lirico passaggio (a-capo poetico), o come interruzione necessaria e logica al discorso, punto a capo (a-capo prosaico):
fine non evocata e giustificata dal principio
principio che non contiene alcuna armonica fine
improvvisa impensata interruzione.
E andare a capo senza accorgersi che
lo si è fatto
e farlo senza
necessità
a-capo significa: dare in pasto ai lupi il sapere accumulato, sentire l’eccitazione nascere da eserciti di idee in marcia senza comando, il loro solletico per tutto il corpo suscita erezioni meditate, il loro brulincante avanzare orgasmi di senso, il loro fermentare piacevoli deiezioni di sofismi cupi:
nubi, onde, tori, torri,
monte che s’ammantano di luce
sgualcite pagine di un diario: cartello stradale
mentre un mantello d’ambra mi ricopre come un sudario
il Battista ritrovato in un vagone letto durante il passaggio in galleria
danza con il capo sopra il vassoio
felice offerta di questo viaggio illuminato
per quanto notturno
occorre decentrare il volto come il cuore, volgerlo a sinistra, cercare l’ombra in cui giacere là dove non si trova: in pieno sole, nell’arsura dell’occhio divino – alzare le braccia verso il cielo per strapparne brandelli, alla cieca, dilaniare avidi l’azzurro come carne cruda di carcassa ancora calda (eleganti avvoltoi sanno lodare la ferocia – impariamo dalla loro pazienza nel volteggiare!):
c’è del nero oltre lo strappo ricucito della volta celeste, ferita di dio:
ecco la soglia!
è necessario de-capitare
il grano è maturo…

Andy Prokhwanderlust

Andy Prokhwanderlust

giorno n. VI (doppio ovvero i gemelli)

si comunica con il proprio Altro attraverso lo specchio in frantumi in una stanza vuota senza porte e senza finestre; i molteplici pezzi dell’immagine che ci sta davanti, nostro riflesso, rappresentano l’urlo ibernato dell’impossibilità di comunicare…
Immaginiamo che ogni pensiero, che ogni sentimento, che ogni espressione del nostro viso, che ogni singola fibra del nostro corpo, di notte venga rubato da un Altro che sia del tutto simile a noi – tutto ciò che con certezza pensavamo ci appartenesse, di diritto, nostra proprietà privata e intima, ci viene con altrettanto diritto portato via da questo ladro silenzioso e a nulla valgono la legge, a nulla l’autorità, a nulla le resistenze, non c’è nessuno che possa vedere e denunciare il fatto: quell’Altro appare identico a me e nessuno può contestargli di avere sottratto ingiustamente qualche cosa, poiché in fondo quell’Altro sono Io.
E’ il mio gemello identico: è specchio delle mie azioni, ripete meccanicamente ogni mio gesto, di proposito nello stesso modo, una frazione di tempo infinitesimale dopo, ma del tutto impercettibile dall’esterno e dagli altri, come l’aggiunta di un’eco alla mia voce – a chi non è capitato di provare questa sensazione: per la prima volta ha udito la propria voce registrata e gli è sembrata diversa, meno dolce, più metallica, quasi contraffatta, come la voce di un altro, e si è vergognato di avere pensato di parlare in un modo e invece di essere stato udito dagli altri sempre in un altro modo? Proprio questa è la sensazione che la presenza silenziosa dell’Altro porta con sé – possiamo non accorgecene mai, ma quando la intuiamo non ci abbandona più, come un’ombra che ci segue, la nostra ombra sempre attaccata al corpo, assenza di luce che si anima e che agisce al nostro posto e a nostra insaputa, quando vogliamo riposare (salvo poi venirci a narrare tutto con dovizia sadica di particolari, bisbigliando fastidiosamente nell’orecchio e prolungando così la nostra veglia).
Il nostro gemello è il retropensiero che ci smentisce dicendo l’opposto quando affermiamo qualche cosa come principio. Quando noi diciamo: “No”, lui dice: “Sì”, quando aneliamo alla luce, lui volge i propri occhi verso la tenebra, quando affermiamo di qualcosa che è bianco, lui intende nero; quando ci allontaniamo da una situazione spiacevole, lui ci si avvicina pericolosamente, quando decidiamo di sorvolare su qualcosa, lui interpreta il volo come un lasciare la scia di lumaca-aeroplano sul cielo…
A volte il mio gemello può interpretare i miei oscuri istinti meglio di quanto possa fare io e metterli in atto al mio posto: a nulla varrà allora tentare di rinnegarlo, di staccarmi dal cordone ombelicale che ci lega, a nulla varrà dire: “Io sono diverso, non sono lui”, solo perché non ho portato a realizzazione ciò che ho desiderato: ci penserà lui, mi guarderà di nascosto con i suoi occhi duri e con un ghigno che ben conosco, mentre si avvia a fare ciò che non riesco a fare. Quando affonderà la lama nel petto della vittima, quando sentirà il caldo sangue bagnargli le labbra, penserà a me, suo debole compagno da guidare sempre e da cui non si può separare mai, sua condanna e suo unico amore.
L’Altro cerca di cullarti in visioni consolatrici, dipingendoti diverso da ciò che sei, ma tu sai che l’immaginazione nasconde la rugosa realtà: ti dice che sei re in un castello, mentre fredde catene ti fermano i polsi e sbarre rigano il cielo; quando per miracolo potrai guardarti da fuori, con lo sguardo dell’Altro, ti vedrai simile ad uno scarafaggio che incespica stupidamente, muovendo le zampette in modo incontrollabile, come lo scarabeo e la sua palla di sterco, ostinato nel fare il contrario di ciò che ora ti pare ragionevole.
Ma la consapevolezza e il distacco durano poco: non ci si sbarazza facilmente del proprio gemello-altro che ci ingoia come un cannibale.
Ogni tanto ti chiedi se lui non sia in fondo altri che te stesso ma, per così dire, forgiato, plasmato, dallo sguardo delle altre persone: la tua passeggiata per strada, il tuo viso, la tua pettinatura, il tuo volto, le tue mani, tutto te stesso, anche la tua figura vista da dietro, la tua nuca, la tua schiena, tutto ti arriva filtrato dallo sguardo degli altri. A questo punto, ti dici: “Ecco! Gli altri mi rivelano ciò che sono per loro, in pubblico. La folla è lo specchio in cui mi vedo finalmente, ma, in fondo, io non sono così!” e ti piace rassicurarti al pensiero che nella tua tana sei al sicuro da quell’immagine pubblica falsa, dall’Altro che sei in piazza, che nei tuoi cunicoli puoi custodire e sottrarre a sguardi invidiosi e minacciosi, tesori e prede… Attento! Attento che quell’Altro non penetri di nascosto nel tuo nascondiglio e non ti faccia l’agguato alle spalle per usurpare il cantuccio dove pensavi non albergasse il pericolo! Sei proprio sicuro di custodire tesori, o si tratta soltanto di escrementi?
Sconcertato e esausto, dopo questo gioco di maschere, vorresti finalmente avere la pace che si raggiunge nel sonno e pensi di affogare l’Altro o nell’azione o rinnovando l’esercizio millenario del “Conosci te stesso”; vorresti che il tuo amato gemello (che ti aspetta a casa, che accende per te la stufa, che per te affila i coltelli) sparisse o non fosse mai esistito e pensi di sbarazzartene o con un gesto pubblico plateale oppure con la conoscenza esatta di te…
Tutto ciò è vano: una volta instaurato il gioco di specchi e la moltiplicazione dei punti di vista, l’unica speranza è vagare nel labirinto tenendo a bada le voci che lo percorrono, cercando l’uscita.
Occorrerebbe, lo sappiamo, risalire a prima della separazione, a prima del concepimento mostruoso dei gemelli, nell’utero…

[…]

giorno n. VIII (estasi)

“fa’ del tuo corpo il tempio che io sarò autorizzato a profanare, renditi preziosa al mondo al solo scopo di abbassarti davanti a me:
bocca aperta quando dici spirito – io intendo carne
occhi celesti quando contemplate il cielo – io so che sognate l’abisso
mani delicate e dita sottili, strumento preciso di lavoro e studio, accarezzate libri sacri  – io so in quali lordure vi sporcherete
viso serio e fine, serenamente affacciato a sorrisi di circostanza – io so dell’osceno abbandono, dello scompiglio, del rossore che si compiace di sé
voce flautata e intelligente sguardo, che sa mettere tutte le cose in ordine – io presento inarticolati gemiti, simili a preghiere soffocate, ed il roteare delle pupille perse nel bianco, come boa nel mare per immersi pensieri subaquei
capelli sempre riuniti in geometrie precise – vi vedo già sparsi ad accogliermi come un mare odoroso
andatura graziosa e incedere orgoglioso nella postura eretta – io immagino l’eccitante ritorno al quattrozampe animale
vorrei che il tuo pensiero più indicibile venisse ad alta voce declamato dall’altoparlante di una stazione come l’annuncio di un treno in arrivo o in partenza
vorrei che qualche cosa nel momento dell’abbandono al rapimento della frenesia mi ricordasse il tuo contegno dolce, misurato, musicale, della vita di tutti i giorni: un tuo abito, una tua espressione, un lampo negli occhi, un minimo dettaglio ancora intatto per quanto ormai isolato
e parimenti vorrei che, mentre ci troviamo in pubblico, io indovini da un tuo sguardo, o da un sorriso, qualche cosa che solo io posso sapere, che solo a me svelasti allora, quando eri persa”
quando ci incontreremo, so che non sarò più io,
avrò abbandonato me stesso,
sarò fuori – là dove sarai…

giorno n. IX (nigredo)

nessuna corrente magnetica tira i miei pensieri che ristagnano come acquitrino
e riluce il giorno in paesi che ignoro, mentre qui la notte si è fatta perenne,
senza magnificenza di aurore boreali…
e non penso e dunque non sono
nei recessi del mio corpo fermentano sordi i cattivi istinti: hanno  fessure e
antri ciechi e pioggia all’eccesso per lussureggiare come piante in foreste tropicali
un’insana atmosfera come un ronzio cupo tutto ghermisce, ricamando trapunte di febbre
il nero corteggia il verde turgido della vegetazione cieca, divenendone linfa
colonne verghe di una cattedrale limacciosa
guardano in su
senza speranza di veder luce, tanto è fitta la cupola,
e creano l’abside vulva, dove il seme sparso abbondante germina lo spazio per  l’assunzione pluviale
attraverso l’abbassamento infinito…
e radici s’infittiscono e annegano nella terra ogni segno chiaro e distinto,
marce radici – ebbre d’acqua,
soffocanti ramificate ripetizioni di ripetizioni…
e germogli immemori proliferano
sulla putrefazione precoce di ciò che nacque sempre rasente il suolo
demente abortito agonizzante fin dall’origine…
Cosa posso essere, se essere devo?
Ragno – segretamente laborioso –
che suscita ribrezzo solo a chi non si capacita
dell’inconcepibile osceno del creato –
intesso i fili delle voci che si avvitano nel mio cranio, come spifferi che gracchiano tra le orbite vuote del mio teschio,
come filamenti luccicanti di stelle che tramano nel buio
intesso, intesso, un invisibile ordito – buono solo per filtrare polvere, pare…
e affamato rimango privo di prede
intesso, intesso, ancora convinto del possibile miracolo –
ma per ora sto immoto inespressivo come una maschera di scena, abbandonata
dietro le quinte, risparmio i movimenti
guardandomi da fuori al rallentatore della noia
e sognando l’arsura silenziosa del deserto al meriggio,
la sua matematica precisione nel sottrarre liquidi e vitalità,
gioco a fare il morto
attendendo che una farfalla spensierata
nell’orrore del mio respiro intrappoli la sua gioia
e non penso e dunque non sono…

Elena Oganesyan

Elena Oganesyan

giorno n. X (putrefactio)

di ogni forma presagire la de-com-po-si-zio-ne
l’informe carezza al solvente, mai doma nel palese recesso
alla superficie cieca di una radura aperta e sommersa
e fitta ampia veduta murata
il segno del marcire fruttato, dolce come occhi gonfi
leccati dal mosto, fin nel rosseggiare dell’alba:
denti guasti nella bocca del mattino
moltitudine e deserto della mente
menzogna detta a fin di realtà
rabbocca il sogno – gusto di tappo:
sappiamo – fin dentro le ossa: fin nel midollo
fin nello sporco prezioso brillare – che tutto ciò che si dona
è in pura perdita…
“leva l’ombra – ti prego!”
geme la pupilla contratta dal sole penetrante
mentre dalla ferita nera del tramonto stuprato
germoglia il seme in falde terrose di gonna…
ma il cappotto – abitudine di un vecchio stepposo quasi inanimato –
giochi di polvere, polvere di giochi: chiasmo meccanico –
allo scheletro attaccapanni che lo imgobbisce
lasciato appeso durante l’estate
cocciuta memoria che sogna il marmo  –
il cappotto è l’anima assente
di pietra vorrebbe la propria statua
e la dimora
ma ora la scia di infantile trionfo s’alza:
mi risveglio in lacrime ebbre di rugiada al
fendente del gallo:
lacera l’aria:
annuncia
la fine
di ogni
speranza
e l’eccitante                 agonia                della
bellezza…

giorno n. XI (attesa)

«Chi credete di ingannare? In fondo voi sperate che qualche cosa venga  sottratto all’oblio. Che l’azione appianatrice del tempo lasci svettare qualche prezioso ricordo. Voi sapete che tutto è destinato a finire e fingete di averne piena contezza. Vi compiacete addirittura nell’enumerare le cose periture. Ma tutto ciò è artefatto: è evidente che vi illudete, che il vostro cinismo è simulato, che dietro il paravento della lucità si nasconde l’illusione di salvezza, che il vostro protestare e animarvi indignati contro ogni illusione è ipocrita. Altrimenti cosa fareste?! Avreste maggiore riguardo per ciò che si perde? Vivreste appieno? E’ evidente: voi volgete lo sguardo altrove e siete pronti al sacrificio pur di avere la certezza di un salvacondotto per l’al-di-là»
attendendo si vive
è vita l’attesa
probabilmente disattesa:
è attendere
ciò che per sempre non si saprà:
macchia cieca
luce dietro palpebre di morto
sciogli il nodo
accogli nel grembo le mie lacrime
io non è più
nemmeno un dio traduce in parola
il torto pesare del mondo
e il volo di libellula dello sguardo senza volto
mentre l’ala fa da àncora
alla rinascita in controluce
non giudicare ciò che rasente nasce –
il terreno meglio accarezza chi si piega senza umiltà,
chi sporca la grazia superba nel fango
bruco –
non potenza di farfalla
ma essere perfetto in sé
solo per chi ama l’opaco
divenire sempre lo stesso
del presente scevro di peso e di traino

(innocenza)

fumoso fermo-immagine come un racconto di guerra di nonno
cento pensieri foderati di nubi
come zucchero filato appiccicosi e lievi
inondavano cuscini
con gorgoglìo di risa e frescura –
bagnare il letto era un segreto amaro
come risvegliarsi colpevoli e
stare là in eterno rovello
se ancora in sogno si fosse
o se strappasse la rugosa realtà
necessaria tuttavia
una confessione
“tutto s’aggiusta” pensavi
e presto giunse l’irrimediabile come un ritornello
inopinato accadere e avanzare di ogni stagione

(esperienza)

divina impostura è ciò che si dà senza soluzione
all’ansia matematica di sapere:
si fa beffe del nostro affannarci
e piccoli restiamo di fronte al mistero:
il mai saputo che mai si saprà
è tutto ciò che c’è da sapere!
tragedia della nostra condizione:
si risolve in gioco di parole –
solo il balsamo del silenzio
è esatto nel non dire lo scandalo
della nostra dimora
fessura a cui avvicinare l’occhio
solo per essere inondati dall’erezione cieca
di luce in crepe di terra arsa
come pelle vista da vicino
istoriata …
ne aspiro l’odore
amo affogare ebbro
nell’abbandono a mondi
di nebulose di corpo
e dalle stelle
distoglier lo sguardo…

Biografia:

db

Daniele Baron, nato a Pinerolo nel 1976, vive in provincia di Torino. Dopo una prima formazione principalmente scientifica, i suoi interessi volgono verso un ambito artistico e letterario. Le sue passioni si concretizzano soprattutto nella pittura e nella scrittura. Nel 2004 si laurea con lode in Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi su Jean-Paul Sartre, intitolata “La morale dell’autenticità”. Dopo gli studi, trova lavoro come impiegato presso un Comune. Nel frattempo continua l’attività di ricerca in ambito filosofico appuntando il suo interesse in particolar modo sulla filosofia francese contemporanea, sull’esistenzialismo e infine sul pensiero di G. Bataille. Insieme sviluppa il desiderio di elaborare un personale percorso di ricerca teoretica per una filosofia del divenire.
Tiene un blog personale: http://barondaniele.blogspot.it  e collabora alla rivista di filosofia on-line “Filosofia e nuovi sentieri”: https://filosofiaenuovisentieri.wordpress.com .

L’inguine di Daphne e i danni del desiderio


[…] non possiamo non volere; il desiderio è parte di noi, ma nessun desiderio può avverarsi da solo. C’è un prezzo da pagare, un prezzo molto caro, per una carezza, una parola. Un po’ di distruzione.
Una distruzione controllata. Il desiderio corrode. È un acido languido. Annienta piano.
Vogliamo ciò che ci distruggerà. 

Non c’è scampo dalla fine. La fine è desiderio e desiderio è fine. Il desiderio è ricerca. Una caccia alla bellezza.

Si può morire di bellezza;
quando si avvicina non te ne accorgi;
è come un vento che ti sfiora piano e porta via un pezzo di te.

Un vento che corre con tanti piccoli ami da pesca sulle dita ossute; la bellezza ti strappa pezzetti di carne e se li porta via.
Ti lasci scannare col sorriso sulle labbra.
La bellezza è un vento che insegue e non si lascia trovare.

Puoi solo lasciarti consumare.

 [L’Inguine di Daphne, Spettacolo teatrale “I danni del desiderio”]

Quali sono i danni del desiderio? Quanto male può fare lo spasmodico inseguire le proprie voglie? Questo il concept principale dell’album “I danni del desiderio”, seconda opera in studio del collettivo artistico, l’Inguine di Daphne, un collettivo artistico polifunzionale fondato da Dagon Lorai ed Egon Viqve nel 2004, si basa principalmente sull’unione di forme espressive diverse unite in una comune direzione artistica, fondendo la potenza creativa dei suoi membri alla pluralità dei mezzi di espressione utilizzati. Nelle esibizioni live del collettivo la musica non è mai sola: c’è videoarte, poesia, pittura, teatro sperimentale, mimo, giocoleria, arte circense e fotografia. 

Inguine

Il desiderio è terra fertile per sogni voraci, culla dell’uomo;
il desiderio ti svolge, s’evolve nella forma di bolla in divenire;
i
l desiderio ti spinge sull’orlo di tutte le cose; precipizi di polvere in cui lanciarsi a braccia aperte;
il desiderio è un coltello che trafigge anche dal manico;
il desiderio del bene genera il male e il desiderio del male genera il vizio.

Dal desiderio non c’è salvezza.
Nelle sue spire siamo schiavi travestiti da padroni.
Il potere è un’illusione,
il controllo non esiste:
il desiderio è un macinino arrugginito che traballa verso la distruzione.
La dolce, dolcissima distruzione.

[L’Inguine di Daphne, Spettacolo teatrale “I danni del desiderio”]

Dal desiderio amoroso e distruttivo della Salomè di Wilde a quello lascivo di Histoire de l’œil di Bataille a quello del potere di Macbeth, la vita e l’evoluzione del desiderio nell’animo umano non è mai stata semplice.

È sopratutto il desiderio in sé a dare vita alla persona che lo abita; il suo raggiungimento è una conclusione, una pausa da un nuovo desiderio, eventualmente un nuovo inizio, ma è nel desiderio che si vive, è il desiderio a torcere l’anima, che porta all’azione, che disfa, costruisce e distrugge con incessante puntualità. È una lunga pausa da un punto all’altro della vita in cui si agita la vita stessa. Non è nel compimento in sé che si trova il piacere, ma nel desiderio che si vive. Il proprio obiettivo è poca cosa rispetto al momento in cui lo si desiderava, ed è in questa perenne ricerca che si impara a vivere.

Inguine2

Abbiamo incontrato, per l’occasione, il compositore e una delle voci del collettivo per discutere delle loro opinioni comuni sul desiderio alla base della vita e dell’arte:

Dagon Lorai: Il desiderio è come una droga. Una volta svanito, sfumato, esaudito, improvvisamente è tutto vuoto, spento. Quando hai appena finito di fare l’amore, quando hai appena finito di suonare, non ne hai più voglia, sei spento; arriva il vuoto, quello che fa paura, sei tu ad essere vuoto. È stato solo il desiderio del sesso, del palco, a farti arrivare al sesso e al palco; ma dopo non c’è più niente.

Alessia De Capua: eppure non puoi farne a meno. Si vive del desiderio e per il desiderio, ed è un continuo prendere e lasciare, un alternarsi; il desiderio è in continua evoluzione, come tutti noi.

In questo senso, il desiderio e l’arte stessa sono strettamente collegati: portano con sé l’angoscia, scavano nel profondo dell’anima e nel cuore degli uomini senza tregua. Nessuna delle due prende dalle emozioni positive dell’uomo ma dalle loro lotte, i loro dubbi, le angosce, i segreti, la loro parte più oscura che, pur considerata la peggiore, è l’unica che mette in una vera luce tutto ciò che c’è di buono al mondo.

Alessia De Capua: è la verità: solo con il dolore e la sofferenza puoi capire delle cose e arrivare ad una consapevolezza di quello che conta, di quello che è bello, la luce; vedi tutto in un modo diverso.

Dagon Lorai: mi permetto di citare De Andrè per questo… “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Per fare una metafora sciocca, nella vita più tocchi il fondo più rimbalzi. Non puoi andare in alto se prima non sprofondi.

Alessia De Capua: Sì, ma non succede sempre; non tutti trovano la chiave per poter risalire dal fondo. È difficile. Bisogna conoscersi molto bene.

Dagon Lorai: per noi la chiave è l’arte

Alessia De Capua: esattamente; è solo con l’arte che riusciamo a risalire dal fondo

Qual è, per voi il fine ultimo de “I danni del desiderio”?

Dagon Lorai: sarebbe meglio riuscire a capire quando sopravvivere alle voglie. Affrontare il desiderio, riuscire a sopravvivergli. Non lasciare che i desideri ti consumino come accadde a Jim Morrison o Bukowski.

Alessia De Capua: Un desiderio che ti ammazza non ha un fine, un senso. Il desiderio è vita: è quello il senso.

Dagon Lorai: il significato dell’album è meno oscuro di quanto si pensi. È la speranza. Non a caso il primo brano dell’album si intitola “Viva Per sempre”.

L’Inguine di Daphne sono:

Alessia De Capua (voce)
Dagon Lorai (voce, chitarre, piano, synth e archetto)
Egon Vive (chitarre, suoni e piano)
Alexandr Sheludcko (basso, contabasso elettrico e violoncello)
Dario AlContrario (batteria)

Foto: Giuseppe Barbato

Sito Web: http://www.inguinedidaphne.com

Contatto Stampa: info@firstfloorfactory.com, dagonlorai@hotmail.it

articolo e intervista a cura di Daniela Montella

Voci D’arte: Hans Bellmer


“Il corpo è paragonabile ad una frase che vi spinge a disarticolarla, affinché, attraverso una serie di anagrammi infiniti, si ricompongano i suoi veri contenuti” (Hans Bellmer)

Hans Bellmer nasce a Katowice nel marzo del 1902 e muore a Parigi il 23 febbraio del 1975.
Pittore, scultore e fotografo, conosciuto per le bambole a grandezza naturale, principalmente di femmine adolescenti.
Iniziò il progetto della bambola per opporsi al fascismo del Partito Nazista dichiarando apertamente che non avrebbe fatto nessun lavoro per sostenere il nuovo stato tedesco. Rappresentate da forme mutate e da pose non convenzionali le sue bambole erano dirette specificamente al culto del corpo perfetto allora dominante in Germania. Bellmer fu influenzato nella sua scelta artistica dalla lettura delle lettere pubblicate da Oskar Kokoschka nel 1925.
Si narra che iniziò questo progetto a causa di una serie di eventi personali, soprattutto per quanto riguarda gli amori irraggiungibili, l’aver assistito ad una performance dei Tales of Hoffmann di Jacques Offenbach, nel quale un uomo si innamora tragicamente di un automa e il dono di una scatola di suoi vecchi giocattoli. Dopo questi fatti lui iniziò a costruire la sua prima bambola.
Diede in maniera esplicita un sesso alle sue bambole, rendendole giovani ragazze.
Furono anche d’ispirazione delle bambole che aveva visto al Kaiser Friedrich Museum. Visitò Parigi nel 1935 ed ebbe contatti con Paul Éluard; ma dovette tornare a Berlino perché sua moglie Margarete stava morendo di tubercolosi.

La Bambola (Die Puppe), libro anonimo di Bellmer, contiene dieci fotografie in bianco e nero della prima bambola di Bellmer arrangiate in una serie di “tableaux vivants” (figure viventi). Il libro non gli fu attribuito, lui lavorò in isolamento e le sue fotografie rimasero comunque sconosciute in Germania. Infine il lavoro di Bellmer fu dichiarato “degenerato” dal Partito Nazista e lui fu costretto a fuggire dalla Germania in Francia nel 1936.
Il suo lavoro fu ben accolto nella cultura d’arte parigina del tempo, specie tra i surrealisti sotto André Breton, per i riferimenti alla bellezza femminile e l’attribuzione sessuale della giovinezza. Le sue fotografie furono pubblicate sul giornale surrealista Minotaure. Aiutò la resistenza durante la guerra, facendo passaporti falsi; e fu rinchiuso nella prigione Camp des Milles a Aix-en-Provence per gran parte della Seconda guerra mondiale.
Dopo la guerra, Bellmer visse il resto della sua vita a Parigi. Non attese più alla costruzione di bambole, e spese le decadi seguenti creando disegni erotici, incisioni, fotografie sessualmente esplicite, pitture e stampe di ragazze adolescenti. Nel 1954 incontrò Unica Zürn, che divenne la sua compagna. Hans Bellmer continuò il lavoro negli anni sessanta.

Ad altri l’universo sembra onesto. Sembra onesto alle persone oneste perché hanno gli occhi castrati. È per questo che temono l’oscenità. Essi non provano alcuna angoscia se sentono il canto del gallo o se scorgono il cielo stellato. Generalmente, godono i “piaceri della carne” a condizione che siano blandi.

G.Bataille, Histoire de l’oeil, 1928.