“La rabbia” di Marco Mantello [pt.2]


[seconda parte – segue da qui]

Vorrei approfondire la questione degli archetipi – complesso di Edipo e mimesis – e superarlo, se possibile. Abbiamo già perforato lo strato superficiale internettiano, andiamo oltre. Complesso di Edipo, appunto, Leo e Filippo finiscono per condividere la stessa donna, la stessa pulsione sessuale, lo stesso desiderio, ma ciò accade senza conflitto – paradigma della società contemporanea. E mimesis, Filippo perdendo i capelli nel primo, fondante, momento di crescita – di rifiuto – diventa del tutto somigliante al padre, tanto che le persone iniziano a confonderli. Mimesi che però pare trascendere il rapporto dualistico (e chiuso) padre-figlio, per tendere verso l’imitazione (aperta) degli schemi sociali condivisi.

Filippo diventa non solo simile al padre, entra a tutti gli effetti nella fase adulta e nella società. Come tu dici, diventa “individuo collettivo”. Questa, a mio parere, è la grande menzogna. Dire, studiare, essere convinti che il mondo si sia sempre guidato da regole costanti, conosciute e condivise, quando invece forse la verità è che la società si muove attraverso un meccanismo sì ripetitivo ma del tutto sconosciuto. E sconosciuto per lo meno ai più, alla massa, a chi non detiene davvero il potere.

[È questo il paradigma ultimo del tuo libro? È perché anche il potere pare aver perso la conoscenza del meccanismo stesso che siamo condannati alla cosiddetta “crisi” (economica)? È per questo che la rabbia monta, trasale, non riuscendo più ad essere gestita nelle pieghe del sistema?]

Sulla facoltà mimetica farei però una distinzione preliminare. Forse ha ragione Benjamin, quando associa l’imitare all’apprendere, e richiama il meccanismo del gioco.  Pensiamo alle prime associazioni che fa un bambino fra parole e cose e al potere che gliene deriva, in quella bellissima citazione da Agostino che apre le ricerche filosofiche di Wittgenstein. Ecco in una prima accezione la facoltà mimetica è associabile ai processi di apprendimento. E qui non si sfugge, c’è qualcosa di umanamente insopprimibile, anche nel potere stesso. Poi certo per me esiste la mala mimesi, l’imitare come riprodurre più o meno consapevolmente schemi maggioritari accettati, più che condivisi. L’imitare come assumere i colori della realtà, che spessissimo è un nascondersi, o un mero fare soldi.  Nemmeno in questa seconda accezione, Filippo Van Sandt è un imitatore. Filippo si deforma nelle sembianze del padre, ma la cosa semplicemente accade, che lui lo voglia o no. Qui, paradossalmente, ho accentuato l’elemento surreale, e incontrollabile, e misterioso del diventare il proprio padre, perché volevo mantenere un contatto con la realtà della società civile italiana. Però non tutto è insondabile, ecco, gli effetti di quei misteriosi meccanismi del reale cui accennavi nella tua domanda, sono sotto ai nostri occhi, li possiamo vedere, possiamo sempre intuirli, percepirli, giudicarli.  Credo e spero che una possibilità di scelta ci sia ancora, che esista ancora quel poco di libero arbitrio che ti permette quantomeno di dire no, a quei meccanismi. Rimane il sospetto che una generazione che dice soltanto no e brucia simboli deformati in piazza (la camionetta di Giuliani, dieci anni dopo, a Roma, qualche mese fa) non basti a se stessa, e assecondi quel processo di riduzione della realtà a immagini televisive, che ha fatto le fortune di tanta letteratura americana di fine secolo, generando talora un’estetica pop, più che una riflessione critica. Per me invece occorre riappropriarsi della politica, a tutti i livelli, ma qui debordiamo verso altri temi e forse la cosa andrebbe bene per un saggio dedicato alle élites e a quella totale cancrena che ci portiamo dietro dai tempi di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto: il concetto di classe politica, l’elemento oligarchico che governa le moderne democrazie occidentali, la formula politica del consenso attraverso il voto, la riduzione del concetto di opinione pubblica a uno dei tanti appelli contro qualcosa o qualcuno, che leggiamo sui giornali generalisti, assieme a tutti quei: “Sì, sono a favore di…”; “No, non lo sono”, senza un perché. Senza una riflessione pubblica che non sia mediata dal personaggio pubblico o dall’eroe di turno via facebook o twitter, o dal tradizionale mezzo televisivo. Basta un premi e invio. Forse quella tragica soluzione di continuità fra classe politica e gossip che ha caratterizzato i nostri ultimi 15 anni e inciso sul modo stesso di concepire i rapporti umani, e da cui non siamo ancora usciti, testimonia qualcosa di più profondo: quel meccanismo di falsificazione della realtà, e il dominio terreno dell’economia, a cui il potere stesso non sfugge, l’avvento di un nichilismo dei mercati dove a essere trasvalutati nella volontà di potenza e nei governi “tecnici” non sono più, o soltanto, i valori tradizionali, ma sovente quegli stessi diritti fondamentali delle persone che fanno ormai da cornice, alla dura sostanza della moneta e del pareggio di bilancio. Che cosa resta, allora, ai membri di una minoranza di benestanti che non ha potere, o che al più sta trasformando se stessa in tecnocrazia, pretendendo che la società si adegui alla propria percezione dei bisogni, oggettivati dalla scienza economica? Restano le carriere, resta l’immettersi in un flusso, il ridurre il dibattito politico nel peggiore dei casi alla fica, e nel migliore a formulette sulla concorrenza che abbassa i prezzi, in un paese dove viaggiare in treno non è più possibile e dove un monopolista privato spara avvisi delatori contro i cosiddetti ambulanti e ti obbliga a pagare un euro per andare a pisciare nelle sue stazioni ferroviarie, con tanto di spot di africani segregati in quarta classe.  Siamo al Titanic di De Gregori. E la cosa non riguarda solo l’Italia.  Oggi in Europa la classe politica diventa sempre di più uno specchio rotto della società civile. E ricerca il consenso, si autolegittima nella maggioranza innocua, e anestetizzata dall’eterno ritorno dell’uguale, e dalla forza livellatrice dell’abitudine. Questo comporta uno svilimento della democrazia partecipativa, in favore di presunte scelte necessitate.. Forse la narrazione dei fatti del G8, uno dei rari momenti in cui Filippo e il suo prototipo di fratello maggiore realizzato, Romano Bava Beccaris – due membri designati di un élite, appunto – manifestano quel conflitto di cui parlavamo, rappresenta il contatto ultimo con la realtà, il fare esperienza delle cose. Non basterà dire di no. E lo testimonia quel dialogo serrato al bar fra Romano e Filippo, sotto casa Van Sandt a Via Genova, con quel richiamo del secondo alla possibilità effettiva di riuscire a vivere, concretamente, in modo diverso, senza diventare carne da macello, o crearne sotto di sé. Da questo punto di vista Romano, col suo ripetere la formuletta solita dei progressisti in carriera, per cui il sistema si cambia dall’interno, rappresenta il caso tipico di una persona cambiata dal sistema, al suo interno, un ideale candidato del Pd alle provinciali. Mentre Filippo non cambia, non evolve, rimane uguale, resta contiguo al modo in cui Cecilia, la sua compagna in odore di aborto, lo apostrofava durante i  feroci litigi berlinesi: ‘Sei un bambino! Un bambino impaurito!’. Forse è da questa ambiguità, da questo nodo irrisolto fra lo stare dentro e lo stare fuori, che il romanzo è in parte caratterizzato.

Riemergiamo “dagli inferi”, vorrei concludere questa conversazione su un aspetto decisamente tecnico. Ebbene, ho una critica negativa da farti e spero che il tuo punto di vista mi aiuti a sciogliere il mio dubbio. Riguarda il tempo della narrazione. Più precisamente come sono scanditi gli eventi. Verso la fine del libro ho avuto difficoltà a collocare gli eventi in ordine “realistico”. All’improvviso la malattia di Leo, la relazione “incestuosa” fra Filippo e Marta, la morte, il funerale e l’epilogo mi sono sembrati innaturalmente accavallati, troppo ravvicinati. Ho faticato insomma a capire quanto tempo fosse intercorso tra un evento e l’altro. Devo dire che questa condensazione non ha indebolito né la trama né la comprensione della stessa ma, ecco, a tratti mi ha costretto a fermarmi, a rileggere qualche pagina indietro per fare il punto della situazione. Mi chiedo, quindi, se sia stato causato del lavoro di editing, se sia stata una tua scelta consapevole, se ti siano già arrivate altre critiche in tal senso, e ancora se anche tu hai la stessa impressione o se sono io che mi sto inventando tutto in preda a becera invidia malcelata.

[Cosa puoi dirmi a proposito? E inoltre (anche se forse una domanda del genere rischia di risultare poco elegante) quali altre critiche sono state mosse al tuo libro? Infine, sei pienamente soddisfatto della tua Rabbia e, in caso negativo, cosa cambieresti se potessi?]

Critiche sulla parte finale no, non ne ho avute ancora. Leggendo le recensioni e soprattutto parlando con persone che il libro lo hanno letto in tutte le sue stesure, nel corso dei quattro anni che ci ho messo a scriverlo, mi è stata rimproverata una eccessiva densità dei temi trattati, il fatto che scrivo in modo difficile; il fatto che questo romanzo è stato “scritto da un poeta”; il fatto che “la trama è esile, e talora si spezza”; il “ci si perde”; il “ci si entra con difficoltà”.  Quanto ai contenuti: un senso di già sentito nelle parti dedicate alle corporazioni letteraria e universitaria; una riduzione di quelle parti a satira, o a immaturità di chi scrive… Per quel che mi riguarda se si sente la poesia nel testo, ne sono felice. Secondo me un testo non va costruito soltanto in funzione della sua fluidità e scorrevolezza. Anche il lettore può dare qualcosa, sforzarsi un minimo, se crede che valga la pena finire un libro, al di fuori delle tradizionali aree riservate della spiaggia e della tazza del water. Invece la critica che rivolgerei alla Rabbia resta senz’altro legata alla resa dei tempi narrativi. Partivo da un manoscritto di quasi cinquecento pagine, ho dovuto ridurlo della metà, e sul testo dimezzato abbiamo fatto l’editing. Si tratta di un lavoro che in parte qualcosa di buono può dare, perché ti allontana dalla tua opera, te la spersonalizza, recide i legami affettivi, distrugge la bellezza del superfluo, del ripetuto e del non necessario, e in parte va fortemente controllato dall’autore, per la stesse identiche ragioni. Il finale della Rabbia, come del resto tutto il romanzo, erano in origine più dilatati e forse questa cosa si sente ancora dentro al testo dato alle stampe. La storia in origine si concludeva a Vicenza, dai genitori della Marta, con la sparizione di Filippo Van Sandt durante i festeggiamenti per la laurea della sorella minore di sua moglie. Vi era poi, nelle ultimissime righe, una rivelazione secca, di poche righe, circa l’identità della voce narrante. Alla fine abbiamo deciso con l’editore di eliminare quella parte, optando per una chiusa più asciutta, che non introducesse temi ulteriori, assieme a personaggi nuovi come i genitori e la sorella della Marta (gli individui collettivi).

Se mi sono permesso, direi gratuitamente, di chiudere questa recensione dinamica non solo con una critica ma anche calcando la mano con domande così provocatorie, è perché ho grande considerazione sia del prodotto letterario sia del suo autore (e la tua disponibilità, la tua franchezza qui dimostrate motivano da sole il mio giudizio). La mia, voglio precisare, non era una critica del finale, ma appunto ai tempi di narrazione che verso il finale mi sembrano troppo bruschi. Mentre invece ci tengo a precisare che proprio il tuo linguaggio (non poetico ma ficcante, attento e ricercato) e la profondità degli argomenti trattati rendono il tuo libro eccezionale, un grande libro direi. Quattro anni ben spesi.

Tagliando corto, brutale, non mi resta che consigliare la lettura de La rabbia. Voglio farlo così come ho iniziato, per negazione insomma. Sconsiglio vivamente anche solo di aprire il libro a tutti quelli che pensano di poter cambiare questo mondo. Sconsiglio di leggerlo anche a quelli che credono che questo mondo non cambierà mai. Non è un libro per persone che non sono totalmente aderenti alla realtà. La rabbia è per lettori senza fronzoli, non contaminati da fantasie sterili o nichiliste. La rabbia non è uno di quei libri che cambierà il mondo, o anche solo la nostra piccola Italia, se è questo che vi state domandando. La rabbia non è nient’altro che una diapositiva (o un’immagine Jpeg se preferite), un diaframma aperto per un tempo lungo almeno due decadi su quel che resta della nostra società. Roba per stomaci di ferro. La rabbia di Marco Mantello è qualcosa con cui dovete fare i conti se davvero avete intenzione di vivere con i piedi per terra, ossia su quel mare di merda che giulivamente ingoiamo tutti i giorni. Un qualcosa per fare i conti con quello che siamo diventati.

Profondo il grazie a Marco Mantello

Chiappanuvoli

“La Rabbia” di Marco Mantello [pt.1]


Marco,

scopro subito le carte, il tuo romanzo, La rabbia (Transeuropa, collana Narratori delle riserve, 2011), mi ha entusiasmato. Dalla prima all’ultima pagina. Del tutto trascurabili gli alti e i bassi a confronto del mio giudizio finale. Qui per trovare la quarta di copertina e una breve rassegna stampa.
Inizio col dire, per prendere un po’ le misure, cosa non è questo libro. Non è un romanzo riassumibile. Non è possibile, se non per mero merchandising editoriale, ridurlo a libro che tratta le vicende familiari di un famoso scrittore (Leandro Van Sandt) sul viale del tramonto e di un figlio quarantenne (Filippo Van Sandt) in lotta tardiva per la propria affermazione. Come non è un romanzo d’esordio nel comune senso del termine.

La rabbia è un intero, un solido, paragonabile a una sfera, se la narrativa fosse geometria (e credo proprio che la narrativa sia geometria). La rabbia è una fotografia dei nostri tempi. (Non a caso, è un primo romanzo andato a finire nella lista dei finalisti del Premio Strega 2012.) Una sfera dagli innumerevoli cassetti, se mi è concesso indugiare ancora nella metafora geometrica. Cassetti che s’incastrano. Che non si richiudono, dopo che il loro contenuto è stato violentemente rovesciato sulla faccia del lettore. Così ci si trova a masticare Genova – G8 2001, lo squarcio lasciato nella storia del nostro malandato Paese. A masticare le dinamiche del potere, quelle mutate e mai veramente mutate tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il potere trattenuto avidamente nelle mani dei padri. Ecco, il potere. Potere vecchio che ingolfa i cilindri del motore. Potere simbolicamente rappresentato nelle efficaci metafore del mondo editoriale e universitario: sistemi stagnanti di impossibile accesso, di faticosa permanenza se privi di chilometri di lingua e peli sullo stomaco, di straordinaria e ipocrita uscita se questa uscita avviene in diretta e a bordo di una cassa di mogano, come nel caso di Leo. Potere: questo sconosciuto per noi “generazioni di mezzo”. Né figli né padri totalmente, di certo condannati a vivere l’inversione repentina della mobilità sociale. Potere che decide (e come potrebbe essere altrimenti) della tua vita, ma soprattutto della tua morte. I cani lanciati dalla finestra da Leo Van Sandt non ne sono che l’espressione più macabra. E ancora il “potere” di abbandonare, come fa Filippo, la propria ragazza incinta spedendole appena una busta con i soldi per l’aborto. Potere che gioca con le nostre esistenze e la libertà di decidere della nostra fine, l’eutanasia, la dolce morte. Potere: questo pericoloso gioco nelle mani di pochi, che non permette neanche alla malattia di essere discriminante soggettiva. E tutto è sotteso a quel filo rosso, la rabbia appunto: pendolo tra follia e frustrazione. La rabbia, l’emozione dominante del secolo “postmoderno”: la barzelletta della nuova narrazione, del nuovo libro, quando invece siamo ancora sulla stessa trita e ritrita pagina.

[Iniziamo da qui il nostro confronto. Cosa non c’è nel libro di tutto questo? Cos’altro c’è ancora, invece? Cosa volevi esprimere mentre infilavi a lettere la tua “rabbia” dentro al pc?]

Mi interessava  tracciare un quadro dei possibili nessi fra rapporti di potere e vincoli affettivi, partendo da una letteratura dell’esperienza. Una letteratura dell’esperienza ti costringe a fare i conti con te stesso, a non assolverti, a non concepire i rapporti e le condizioni umane come una sorta di fotosintesi clorofilliana governata da leggi immutabili che lo scrittore trova e rappresenta, con la precisione di uno scienziato di fine ottocento, o di un esteta. Se invece parti dalle ferite, sei costretto a fare i conti con la tua storia, a non restarne fuori, a esporti, il che non significa buttare giù un’autobiografia di se stessi al quadrato, ovviamente, né sublimare. Quanto al discorso specifico sul potere, volevo evitare le dicotomie nette fra vittime e carnefici. Il padre e il figlio, i due protagonisti del romanzo, non si redimono né si ridefiniscono, sono specchi di un’epoca e il loro tratto caratterizzante è l’ambivalenza morale. Parteggi per l’uno e per l’altro e allo stesso tempo li odi, sono ora inamabili e cinici, ora indifesi e sconfitti. Mi colpisce, e lo trovo molto pregnante, il richiamo che fai al potere esercitato da Filippo, quando spedisce a Cecilia la famigerata busta con i soldi per farla abortire. Credo anch’io che La rabbia sia irriducibile a un’epopea familiare, o a un conflitto fra generazioni come avviene – che so? – in Pastorale americana, dove predomina la generazione dei padri, o nei Demoni di Dostoevskij, dove si traccia una visione del tutto rancorosa del nichilismo delle nuove generazioni, elette a capri espiatori della propria coscienza morale. Mi viene in mente, piuttosto, il saggio di Pasolini sui giovani infelici, dedicato alle colpe dei figli, con quel rovesciamento del paradigma edipico in tutte le sue varianti: il pagare colpe non proprie per via del Fato, o di una procedura burocratica, o del puro caso, come insondabili segni della propria colpevolezza. Era importante  partire da figure archetipe, e valorizzare il determinismo ma come condizione storica attuale, non come condizione umana mutuata della tragedia greca. (grassetto nostro) Nulla si muove, nulla cambia e la volontà non ha potere, oggi, qui e ora. Credo che la nostra epoca, e la storia italiana degli ultimi anni in particolare, siano dominate da un’alternativa secca, taciuta, che nessuno confessa a se stesso nel momento in cui sceglie per l’una o l’altra via: o la clonazione sociale o il fallimento. Questa è a mio avviso una prerogativa del potere, a tutti livelli, il fatto che definisce gli scopi, e le alternative, accollandoti le sue responsabilità come se fosse colpa tua, o suo merito. Il fatto che ti permette di intuire in anticipo quali saranno gli effetti delle “tue” scelte, o cosa non accadrà nella tua vita se rimani fermo. Ecco in questa sorta di chiaroveggenza inconscia, e inconfessata, e sovente banalizzata nel paradigma dell’immaturità, come può essere quando devi vestirti in un certo modo per andare a lavorare da Philip Morris, o da McKinsey, giace lo spettro di una società gerarchica, e classista, e direi statica, immota, e il paradigma stesso della falsificazione dei rapporti umani, filtrato dal bisogno di affermazione sociale, che muta in rabbia. Credo che una delle costanti, da parte di chi un potere lo detiene veramente, a livello economico o politico o familiare o di corporazione italiane o quello che vuoi, sia non tanto e non solo la colpevolizzazione dello ‘sfigato’ di turno, dell’escluso, quanto il girarsi dall’altra parte quando il cadavere scorre sul fiume, continuando a bere il proprio cocktail, assieme a quelli che hanno fatto la scelta giusta. Devi contare qualche cosa, devi essere qualcuno o diventarlo, perché possano considerarti un nemico, o un loro pari. Beninteso, io il mio libro non l’ho pensato affatto come un bignami del ‘siamo tutti colpevoli’, ecco questo no. L’ho scritto partendo da una  visione critica dei cosiddetti ‘figli’ e delle loro colpe, è un libro sull’assenza di conflitto, e sulla dispersione dell’identità, e direi sulla massificazione dell’identità, sulla non scelta. Così il determinismo. E il paradosso di un figlio che nell’unico momento in cui si oppone, dice di no – la scena senese, per intenderci – e abbandona la sua corporazione di appartenenza,, subisce un radicale e beffardo mutamento fisico, assumendo le sembianze paterne. Filippo diventa una copia di suo padre, nel momento di massima liberazione dalle catene.  Per spiegarmi ancora di più sui temi del potere e dell’identità, c’è questo passo tratto da una delle tante scene che ho dovuto tagliare dal manoscritto originario. Te lo vorrei far leggere perché segna un possibile passaggio: la stabilizzazione di quell’assenza di conflitto di cui parlavamo poco fa, da un contesto familiare a un contesto più ampio. Siamo alla fine della storia. Filippo è salito su in auto a Vicenza, dai genitori della Marta, incinta all’ultimo mese di gravidanza di loro figlio. La cena è finita e Filippo è di là in camera, sdraiato a letto e sente le voci dei commensali a tavola, berciare di politica e tasse…

– 

«Era come avere in testa un individuo collettivo, con quel senso maturo di dispersione e quel totale sovrapporsi di una memoria non sua ai ricordi più intimi e personali, ivi compresa la morte del padre.

Una volta superata la fase edipica, era l’individuo collettivo, a definire le regole di condotta, il ‘questo è da dirsi’ e ‘questo no’, il fare e il non fare, quando dove e perché. In una parola: la sua pragmatica coscienza adulta. Quando nasce un individuo collettivo, lo scorrere dei nostri anni resta confinato in una zona grigia del cervello, ingannevolmente atemporale, a metà strada fra il non accaduto e il già successo. Questo non tanto perché l’individuo collettivo è impregnato dei valori che un’astratta società di uomini ci infila dentro, ma perché la società quella reale, storica, attuale, circoscritta alle proprie conoscenze di tutti i giorni, si compone di individui collettivi. Nel loro agire pubblico e privato, hanno la costanza di un gocciolio lentissimo. Essi tendono a ricondurre le persone nell’alveo dei loro limiti, la loro forza è centrifuga. Come un anestetico proiettano il senso della normalità su chiunque faccia, effettivamente, qualche cosa di diverso. Attraverso la mediazione dei rapporti affettivi, o della semplice solidarietà fra estranei, essi creano il controllo sociale. Da quando suo padre era morto, e Filippo era diventato adulto, era come se esistessero due memorie, nella sua testa, la prima delle cose che aveva creduto di vivere come Filippo. La seconda di quelle stesse cose ma viste con gli occhi dell’individuo collettivo. Così era successo per Genova, l’appuntato Capranica e i corsi universitari ad Arezzo, così per Cecilia e il loro soggiorno a Berlino, così sarebbe successo anche per Graziadei e la Task Force antieutanasica, o per la nascita di Leo jr.. Tutti eventi doppiati da voci non sue, che diventavano, con il tempo e l’abitudine, la sua voce. Questa progressiva erosione delle esperienze individuali, questa chiara preveggenza in negativo di futuri certi, questa rappresentazione anticipata e del tutto attendibile delle azioni e delle reazioni, si manifestava quando rimaneva solo. La morte stessa non avrebbe dato conto degli stati di sospensione permanenti. ‘Parioli alti candidato allo Strega!’ lesse dalla Cultura e poi…»

– 

…e poi hanno candidato te allo Strega.

[fine prima parte – segue qui]