Contest: I racconti della Mezzanotte – I° Edizione – Antonio Del Prete – “Lo scrittore”


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Lo scrittore di Antonio Del Prete

Non oso descrivere o raccontare gli strani avvenimenti e esseri che popolano i mie sogni da quando ho memoria, ma la cosa, che forse più mi spaventa, è che hanno un non so che di familiare, di rassicurante. Eppure non sono visioni di paesaggi o montagne splendenti, non sono ricostruzioni di antiche città in gloria, anzi, esseri orribili (forse antichi dei o antichi popoli di cui non si ha memoria?) popolano lande deserte e sconfinate nel caos più totale. Eppure mi consolano, mi rassicurano. Ora non sto qui a raccontarvi di ogni singolo avvenimento o delle emozioni e sensazioni che mi suscitano tali visioni, anche perché potrei essere definito malato dato che insinuano in me un tale senso di conforto, mi limiterò a narrare o meglio rivivere alcuni mie incubi o meglio dire sogni e le relative emozioni e conseguenze che hanno apportato alla mia vita terrena.

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Contest: I racconti della Mezzanotte – I° Edizione – Ilaria Pamio – “Cristo Nero”


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CRISTO NERO di Ilaria Pamio

C’era una volta…
in un paesino piuttosto lontano, una casetta piccola piccola con un grande portone di legno di rovere.
Le strade di questo paese erano tutte ciottolose e, tra le duecentocinquanta anime che lo abitavano, c’eravamo io e mia sorella.
Di giorno facevamo quello che fanno tutti i bambini: andavamo a scuola. In aula eravamo in venticinque e c’era un’unica classe elementare. Il pomeriggio giocavamo con altri bambini del vicinato, o talvolta, noi due soli.
La nostra maestra odorava di vecchia minestra. La pelle libera da trucco, vestiva con colori sciatti e quando raccoglieva i capelli in uno chignon, le si intravedeva un’unica ciocca grigia.
I bambini della classe avevano età differenti e, in base a quella, a fine mattinata ci venivano assegnati i compiti.
La mamma odorava sempre di sapone. Aveva i capelli lunghi, che spesso legava, perché le avrebbero dato fastidio se le fossero passati davanti agli occhi mentre cuciva. Faceva riparazioni per la nostra piccola comunità. Nostro padre aveva l’hobby per il legno. Preparava mobili e, di tanto in tanto, piccoli oggetti da mettere in casa.
Mio padre e mia madre si erano conosciuti in chiesa, ai tempi delle elementari. La mamma scostava di poco il foulard che teneva sulla testa, e girava lo sguardo verso la panca dei bambini, dove il papà le rimandava occhiatine complici. Si erano sposati senza nemmeno conoscere il calore dei loro corpi, pochi anni prima di essere maggiorenni.
L’alito del papà mi avvolgeva la testa mentre mi spingeva sull’altalena. Maria invece ne aveva la nausea quando le dava il bacio della buona notte.

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Contest: I racconti della Mezzanotte – I° Edizione – Luigi Pellini – “La notte del maiale”


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LA NOTTE DEL MAIALE di Luigi Pellini

Durante la tempesta, la corrente era fuggita. Un fulmine si era schiantato contro i tubi che imbrigliavano l’elettricità domestica, liberandola. Ci fu un boato, che implodendo come una stella morente risucchiò dentro i due serpenti fiammeggianti avviluppati tra di loro. A seguire: il silenzio ieratico degli elettrodomestici.
Dalle finestre, le persone guardavano fuori in attesa di risposte, con il lungo passare delle ore trapuntato ai loro sguardi. “Verranno i cacciatori”, pensavano, “e con i loro segugi meccanici staneranno le scintille, batteranno il sentiero elettrico e riporteranno la bestia nelle nostre case, accenderanno la luce come Efesto ha fatto con le ombre, e il tempo tornerà a morire”. Ma intanto il vento maltrattava i cavi della corrente che ondeggiavano sotto la pioggia come una fascina di vene vuote.
Quando scese la notte, via della Speranza era affogata nell’oscurità e nell’acqua battente. Nessuno avrebbe riparato il danno fino all’indomani. Nei piccoli paesi tutto è più lento, anche le urgenze, saette che prima di centrare il bersaglio rallentano un poco per godersi il paesaggio.
Fu a quel punto che Mario detto “Il Brazil” andò in strada. Percorse a memoria tutta la via fino a raggiungere la grande villa dei Bettinelli. Suonò, constatando che nemmeno lì l’elettricità era tornata. In casa c’erano Bettinelli Senior, capitano di industria, sua moglie Marta e Jr., detto “Cagiva”, perché ogni qualvolta si ricordava d’essere vivo gridava come un banditore “CAGIVA CAGIVA”.
Cagiva aveva 31 anni, era lo scemo ufficiale del paese.
Il Brazil spinse il cancello. Aperto. S’indirizzò verso l’adito. Trasse un profondo respiro, poi prese a bussare violentemente contro la porta blindata. Il ventre dell’abitazione rumoreggiò, poi la porta si aprì nervosamente. Un fascio di luce investì Il Brazil in faccia, facendogli strizzare gli occhi.
– Che vuoi, Mario? – Gli chiese il Bettinelli.
– Hai sentito quella cosa del killer?
– Quale cosa?
– Di quel tizio che spacca la testa alla gente con una spranga, e che si mette una maschera da maiale.
– Ho sentito. Ma perché me lo chiedi? Lo hai visto? I telefoni non vanno, sono tutti scarichi.
– No, non l’ho visto. Ma ho il sospetto che qualcuno dirà in giro che è passato di qui.
– Come?
Il Brazil era uno pratico, non aveva mai considerato la violenza solo perché non gli era mai stata utile. Sollevò il piede di porco che stringeva in mano, e lo calò come un martello sulla fronte del Bettinelli, inchiodandogli la morte istantaneamente nel cervello. Il capitano d’industria precipitò al suolo come un qualunque altro stronzo di questa Terra. Lo sentì gorgogliare per qualche istante, dibattendosi sul pavimento come un pesce tirato fuori dall’acqua, poi più nulla.
– MARTA – Gridò Il Brazil, – MARTA ,CORRI, SONO IL MARIO, IL BETTINELLI SI SENTE MALE.
Confusamente sentì qualcuno che si precipitava dalle scale verso l’entrata. – Mioddio mioddio – pigolava con tono supplice una vocetta di donna.
– Mioddio.
Fu l’ultima cosa che disse. Il Brazil caricò la spranga dietro la spalla come una racchetta da tennis e colpì con tanta forza che metà della faccia di Marta esplose in una coreografia pirotecnica di sangue e denti. Il suo corpo morto rimbalzò contro la parete, accatastandosi poi sul cadavere del marito. Finché morte non vi separi.
Il Brazil scavallò le due sagome, raccolse la torcia per terra, e chiuse la porta dietro di sé.
Fece un paio di passi, poi si levò con attenzione le scarpe, che erano foderate come tutto il resto da sacchi della monnezza, e proseguì.
Il Brazil, cinquantacinque anni e non sentirli. Meccanico, giardiniere, operaio, imbianchino, puttaniere affamato di brasiliani. Ne aveva fatte di cose nella vita, ma mai nessuna che gli avesse regalato un cuscino morbido dove far atterrare il culo. Poi quella giornata incredibile, quella serie assolutamente imprevedibile di eventi che lo spingevano verso il trionfo. Prima suo cugino, impiegato di banca, che gli aveva spifferato dei sessantamila prelevati dal Bettinelli quella mattina stessa, poi il temporale, il fulmine che li aveva isolati dal mondo, la scarsa reattività degli operai della rete elettrica, e per ultimo quell’aborto della società che se ne andava in giro per la provincia a scartare i crani della gente, vecchiette più che altro. Praticamente il destino gli stava gridando “prendi quei cazzo di soldi, fai credere che lo scemo è l’assassino che stanno cercando, e goditi un ricco e godereccio prepensionamento”. Non si negò una risata.
Decise di aggiungere un tocco gotico al suo crimine. Trascinò Marta in cucina, sistemandola su una sedia. Con del nastro adesivo le saldò un cucchiaio di legno nella mano. – Bella mamy – le disse, – Se non fosse che mi piacciono calde, mi ti farei.
La faccia di Marta era una poltiglia di carne. La mascella martoriata penzolava deformandole il viso, mentre la lingua sembrava una murena acquattata nella sua tana, pronta a saettare dall’ombra per azzannare una preda.
Al Bettinelli toccò il posto in poltrona con il suo terzo occhio aperto di recente, per meglio godere delle offerte televisive.
I soldi erano ammonticchiati senza cura in un mobile della sala, spiccioli. Appena 120 banconote da 500 euro, la sua merda al mattino faceva più volume.
Spazzolò quanto gli era dovuto, si preparò per il gran finale del suo piano: far credere a tutti che Cagiva aveva ammazzato i suoi, e che era in realtà il Maiale, lo sciroccato che aveva fatto precipitare nel terrore la provincia.
Fuori la pioggia pestava contro i vetri delle finestre. La stanza di Cagiva doveva essere di sopra. Prese il piede di porco e si preparò a lasciarlo nelle mani rotonde e sgraziate di quel poveraccio. Un disgraziato ricco, che presto avrebbe finito i suoi giorni in qualche clinica per malati di mente di lusso. Quasi gli aveva fatto un favore. Con la torcia illuminò le scale. Marmo, severo e freddo. La parete si arrampicava verso l’alto tutta candita di pacchiani quadri a tema bucolico.
Anche se scalzo, gli sembrava che i suoi tendini cigolassero troppo rumorosamente. Il momento richiedeva solennità, presto ci sarebbe stato un importante passaggio di consegne, il lupo avrebbe regalato i suoi denti all’agnello.
Il buio era pesante, l’aria che si respirava era viziata e povera di ossigeno. Con la torcia sciabolò nel corridoio, dove tra tante porte anonime e serrate, una si presentava con un inconfondibile poster di una moto Cagiva affisso sopra.
“Il mio porcellino”, pensò Il Brazil, “peccato non aver portato una bella mascherina”. Cagiva non era tipo da dare di matto, sarebbe stato calmo e tranquillo come sempre, come quando i ragazzi del paese lo prendevano a sassate. Il massimo che avrebbe fatto sarebbe stato ripetere quell’unica cosa che sapeva dire: C AGIVA CAGIVA CAGIVA.
Il Brazil spalancò la porta, dalla stanza esalò un odore terribile.
– Fottuto piasciasotto.
Non c’era nessuno. Ma non poteva esserne sicuro. Tutto era caos, come se una granata anticarro fosse esplosa nell’armadio. “Dio che vomito” pensò. Diede una rapida occhiata al letto, sotto al letto, in mezzo ai cumuli di vestiti puzzolenti. Nulla. Magari dormiva nella stanza di mammina. Fece per uscire, ma poi gli venne una curiosità, se tutti i vestiti erano per la stanza, che c’era nell’armadio? Quando ci puntò dentro la piccola torcia, quasi gli venne un infarto, poi però la felicità lo travolse. Appese tra gli abiti c’erano delle maschere da carnevale con tutti gli animali della fattoria, tra cui quella di un maiale. – Che cazzo – disse ad alta voce- – meglio di così non poteva andarmi, è una cuccagna. La tua infanzia felice ti ha fottuto, Cagiva – E mentre diceva ciò, non si accorse che la maschera da porco non era appesa come tutte le altre, ma qualcuno la indossava, e lo fissava con occhi affamati. Quando Il Brazil si voltò, il maiale scivolò silenziosamente dall’armadio, sollevando sopra la testa un rugginoso e sporco piede di porco.

Luigi Pellini, Marchirolo
entropiazero@hotmail.com

Primo Racconto: http://wordsocialforum.com/2015/09/04/contest-i-racconti-della-mezzanotte-i-edizione-adriana-pedicini-un-viaggio-senza-fine/

Secondo Racconto:http://wordsocialforum.com/2015/09/23/contest-i-racconti-della-mezzanotte-i-edizione-rosario-campanile-maria/

Terzo Raconto: http://wordsocialforum.com/2015/10/02/contest-i-racconti-della-mezzanotte-i-edizione-anna-laura-morello-amerika-amerika/

Contest: I racconti della Mezzanotte – I° Edizione – Anna Laura Morello – “Amerika Amerika”


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AMERIKA, AMERIKA di Anna Laura Morello

Luglio 1989

Pensavo che non sarei mai riuscita a lasciare gli Stati Uniti. Neanche morta. E invece eccomi qui, senza tracce sensibili. Sul corpo almeno. Guardo le mie mani abbronzate e penso all’anulare. Neanche quello porta nessuna traccia: lo scolorimento a fascetta tipico degli sposati, intendo. L’anello l’avevo perso su una spiaggia del Delaware. Era di mia suocera. Mi aveva detto che era un brutto segno, poi aveva ripreso a ridere con quella faccia simpatica e dura e quella abbronzatura fangosa, color Florida. Teneva un bicchiere di vino bianco in mano, era seduta sul divano: vattene fin che puoi – aveva detto in un sibilo, quasi qualcuno potesse essere lì in ascolto. Aveva smesso di ridere all’improvviso. Qui non c’è niente – mi aveva detto muovendo le labbra sottili. “Read my lips”. Indossava una camicetta arancione. Per un attimo mi era sembrata un’aragosta: anche lei avrebbe potuto essere sacrificata da un momento all’altro. Quel che restava di me in quel paese lunare dove in ogni centro commerciale c’era una città che non c’era, in cui la gente si muoveva solo in macchina e mangiava in macchina e dormiva in macchina e scopava in macchina e si ammazzava in macchina, era qualche libro d’Arte, pochi indumenti intimi ed una Volkswagen Cabrio nera con tettuccio crema presa a rate, oggetto inedito in un quartiere white trash. Nel corso del mio ultimo anno erano iniziate delle stragi inspiegabili. L’America allora sembrava sul punto di sciogliersi come un enorme marshmellow al fuoco, assieme ai contadini, agli yuppies, ai blue e white collars, agli operai di Chicago e Detroit ed alle grandi distese della cintura del grano. Io puntavo già la vista a est dell’Oceano, distratta dall’Europa. Ma quando mi decisi a tornare a casa, mi portai dietro anche la storia di Louise.

Per tutti gli anni ’80 i centri commerciali, le cattedrali del XX secolo, “l Grandi Mall”, con i loro favolosi contenuti, le merci, erano cresciuti a dismisura. Dispensavano, da golose vetrine, candide ostie sotto forma di dunkin’ donuts, pizzi bianchi per verginità scadute, spray sublinguali all’efedrina per l’indolenza, giubbotti e scarpe antisfiga che innalzavano il ceto sociale in un lampo luccicante di carta mastercard plastificata. Questi articoli sostituivano le carni lucide e gonfie dietro inviolabili vetrine che avevano affamato le masse per più di un secolo: era l’ora dei grandi vermi, l’era della fame di cose che non sfamava mai e dopo il rush iniziale rendeva apatici e insoddisfatti. Gli obesi si moltiplicarono. Camminavano dondolando sotto le luci rosa mentre altri in overdose da zuccheri rimanevano spiaggiati come elefanti marini ai bordi delle casette di plastica e sulle panchine, sempre di plastica, dei fast foods. Nel giro di pochi anni i Malls divennero più abitati delle città, creando periferie scucite ridotte a un rettangolo di rigagnoli e reticoli filiformi che correvano lungo i pali della luce con una stazione di servizio, un parrucchiere che mandava ventate mortali di ammoniaca, un ferramenta sguarnito la cui scritta era stata issata nel 1950 e un pub in legno marcio che dava sulla ferrovia. Le vetrine fissavano in riga i binari della stazione. I treni non si sarebbero fermati più. Ma i negozi del grande Mall erano lucidi e lisci di marmoreo vinile, scrigni aperti, nuvole rosa, effluvi paralizzanti come serpi incantatrici. I frigoriferi, gli articoli per la casa, gli abiti che si moltiplicavano di continuo nelle fogge e nei colori: osservarli dava all’inizio un piacevole giramento di testa, seguito da un solletico al petto e poi una sensazione simile a un insetto impazzito che iniziava a ronzare dentro. Da quel momento in poi veniva sprigionata l’urgenza incontenibile di comprare e di calpestare chiunque si trovasse lungo il cammino che dagli stands portava ai camerini. Un giorno imprecisato in quelle enormi cattedrali sempre piene la gente aveva cominciato a sparire. La security fu raddoppiata, dentro l’edificio e nei parcheggi. All’inizio si era pensato a un serial killer. Fu chiamata l’FBI. Gli uomini in nero fecero dei sopralluoghi, presero delle impronte e raccolsero vari reperti. Degli scomparsi nessuna traccia, neanche un capello. I media iniziarono a emettere dei comunicati sulla sicurezza nei Malls: girare in gruppi, armati di fischietti, mazze da baseball, telecamere amatoriali, secchi di vernice e walkie-talkies. Nutriti gruppi di vigilantes improvvisati vennero fagocitati in un pomeriggio. Famiglie intere sparivano sotto l’occhio delle telecamere. Ma la gente continuava ad andare. Il richiamo delle merci era irresistibile: un nuovo trapano multi-funzione a motivi camouflages stile Rambo, tende di plexiglass verde fosforescente con dentro pesciolini semoventi, integratori agli ormoni sessuali, nuovi fuseaux a scaglie effetto triglia che suscitavano urgenze incontenibili. L’idea di possedere le cose era più forte della morte, anzi si può dire che il possesso e la morte corressero sul filo dello stesso rasoio. Un pomeriggio sul presto, nel caldo soffocante di un Luglio oltreoceano, una trippona coi capelli gialli cotonati alla Dolly Parton di nome Louise partì sculettando alla volta del Mall per ricchi di North Hampton. Le lamiere della sua automobile, una cadillac color crema stridevano un poco nell’aria immobile del parcheggio. L’enorme edificio fumava come una torta bavarese ghiacciata appena tolta dal frigo.
I capelli le cingevano il volto come un’aureola quando Louise passò dal piazzale infuocato alle porte scorrevoli del grande Mall. L’aria dei condizionatori regolati al massimo formava un spesso fronte di aria fredda, talmente compatto da essere calpestabile e palpabile in tutte le direzioni. Chissà pensò Louise – forse si formerà una perturbazione di aria umida e pioverà qui, proprio di fronte alle vetrate formando una cascata. L’idea di un clima artificiale la solleticava, proprio come i filari di banani e baobab sintetici disposti in fila lungo gli interminabili corridoi. Louise alzò lo sguardo verso il cielo incandescente dove il sole occhieggiava attraverso gli enormi lastroni di vetro scuro montati sul tetto. Faceva fresco, ma si sentì pesante, affaticata. È ora di far benzina – pensò Louise. L’insegna rosa dei Dunking Donuts le mise l’acquolina. Entrò in un casetta color confetto. Un’enorme ciambella al neon bianca e rosa si tuffava ritmicamente in un tazzone di caffè. – Posso esserle utile? – Una faccina di scricciolo abbronzato spuntò da sotto il banco. Indossava una voluminosa cuffia bianca e un cappellino da baseball a strisce bianche e rosa. Sul camicino bianco era appuntato un badge plastificato con il nome “Mandy” scritto a macchina. « Ciao Mandy, vorrei quattro ciambelle con glassa rosa e stelline argento…» disse Louise con convinzione. « Quelle con le stelline argento le abbiamo finite Signora, ci dispiace » rispose lo scricciolo con espressione accorata. « Abbiamo quelle con glassa rosa e trucioli di nocciola, se no quelle con glassa bianca e stelline d’argento. Louise incominciò a far ruotare gli ingranaggi della sua testa, focalizzando l’attenzione verso quella che doveva essere la decisione più importante della giornata. « Guardi.. mi dia quelle con la glassa rosa allora, lo so’ che tanto è zucchero colorato e non fa differenza, ma anche l’occhio vuole la sua parte. » « Ha ragione Signora. Il donnino continuava a mantenere quel sorriso di plastica per tutta la durata dell’operazione. Fasciò le ciambelle come neonati e le ripose nella loro scatola di cartone colorata. « Qualcosa da bere? disse in un soffio. » « Sì » rispose Louise decisa. « Caffè chiaro da litro e doppia panna con dolcificante. » « Doppia panna, benissimo.» Lo scricciolo tirò appena fuori la lingua. « È un po’ fiacco oggi pomeriggio, non le pare? » disse Louise. « Eh, sì, in effetti…molti sono andati al mare.» « Non sarà a causa di tutti quegli omicidi? » « Le sparizioni, intende? Mi dispiace ma non ho il permesso di parlarne. » Notò che lo scricciolo aveva ancora lo stesso sorriso incollato in faccia. Non muoveva un muscolo. Le mani nervose riponevano in fila le ciambelle da sotto lo spesso vetro del banco-frigo. « Sembrano più belle lì che nella scatola, non trova? » « Mi dispiace Signora, ma non ho il permesso di parlare neanche di questo… » « Senta Mandy, ho notato che lei non ha un’aria molto salubre…mi sembra un po’ malaticcia, mi scusi se insisto…» Louise estrasse un biglietto da visita bianco con impresso uno stormo di fenicotteri verdi. « Vede? » Disse sventolandole il biglietto sotto il naso « Sono pranoterapeuta, scuola californiana: le prime due sedute sono gratis. Le altre, 50 dollari all’ora, detraibili dalle tasse. » Louise allungò il cartoncino e lo poggiò sul banco. « Io sono certificata, lo sa, in giro è pieno di imbroglioni. Ho un metodo di cui ho il brevetto, la doppia rotazione delle scapole, se vuole le faccio vedere…» « Lasci stare Signora…» il sorriso dello scricciolo cominciò a fondersi con il rossetto color glassa rosa scuro. Lo spesso trucco marca Avon diede i primi segni di cedimento. Poi il pancake coprente per il viso incominciò a colare giù come un gelato alla nocciola. « Lei è così gentile..Io sono molto malata, sa, faccio la chemio nel retrobottega del negozio. Non posso fare assenze ingiustificate, lei capisce.» « Sì, capisco. Mi dispiace.» disse Louise, sorseggiando il caffè assieme all’adrenalina che le sgorgava piacevolmente nel petto. Le situazioni nuove e insolite erano sempre fonte di adrenalina a buon mercato. L’adrenalina fa dimagrire. E fa riflettere, anche. Pensò Louise. « Bene » disse Louise, guardando un bene imprecisato punto nell’aria. « È ora di andare, direi. » Afferrò la scatola delle ciambelle. « Ecco qui » disse trionfante, scaricando sul banco una grossa manciata di monetine « sono 10 dollari… il resto mancia!» « Ma..Signora, il conto è di 4 dollari e 99 cent e io non ho il permesso di…» « Non mi faccia storie! Se li è meritati! Questi sono i cinque, gli altri cinque se li metta in tasca!» Louise bevve un’ampia sorsata di caffè caldo fissandola negli occhi. Chissà per quanto ne avrà ancora – pensò. Lo scricciolo abbassò lo sguardo: aveva delle ciglia lunghe come ventagli che le oscuravano il volto. Si guardò intorno, poi afferrò le monetine facendole scivolare dentro un borsone bianco. « Buona giornata, e in bocca al lupo per quella cosa lì..della chemio, intendo » Louise sorrise comprensiva. « Grazie Signora, Buona giornata anche a lei..ma..non starà mica andando a far compere, vero?» « Ma certo che sì, cosa crede che sia venuta a fare qui, a prenderci del fresco?» « Signora non lo faccia, è pericoloso! Di questi tempi!» « Sciocchezze!» Le rispose secca Louise « Di compere non è mai morto nessuno!» Si allontanò dondolando. Le anche le facevano male, per via del peso. Voglio quel vestito azzurro di crêpe di seta che ho visto l’altra volta – pensava. Forza Louise, un altro sforzo, il negozio deve essere in fondo al corridoio principale… Ciondolò lungo l’enorme navata del Mall deserto, attaccandosi a ogni vetrina, indecisa se entrare o meno. I condizionatori a pieno regime ronzavano nel pomeriggio immobile. Guardò in alto, verso il cielo annerito dalle vetrate. Il Mall era la navata di una cattedrale gotica. Proprio così – decise. Per un attimo le merci sistemate dietro le vetrine ebbero un fremito. Erano possedute da una strana luce. Un alone di santità sembrava circondarle. Louise ebbe l’impulso di inginocchiarsi e fare il segno della croce. Invece si sedette su una panchina di plastica azzurra e aprì la scatola delle ciambelle. Si sentiva osservata. Richiuse la scatola. Si guardò intorno e sotto le panchine, ispezionò la casetta del McDonald, i Baobab sintetici, i bagni delle Signore, le piastrelle di cotto del pavimento, le foglie in tessuto felpato dei Banani, ma niente. Lo Stato di New York, a sua insaputa, aveva promulgato l’Emergency Surveillance Act, ratificato in tutta fretta dal Senato e senza troppa pubblicità. Louise era americana e gli americani non leggono i giornali, tutt’al più seguono la CNN. Louise aveva provato a seguire la politica senza troppo successo. Si era addormentata nel salotto di casa con un cocktail in mano davanti al discorso di insediamento di Ronald Reagan. Il cocktail, un banana daiquiri formato gigante con tanto di ombrellino giallo e ciliegina candita, si era versato sul tappetone verde-pino a pelo lungo. La cosa era stata una vera scocciatura. La macchia appiccicosa non andava via e Louise fu costretta a portarlo in tintoria. Farlo pulire le era costato più del prezzo del tappeto stesso, aggiudicato a un’asta televisiva alla modica cifra di 19 dollari e 99 cent. Il conto della tintoria ammontava a 20 dollari. Il bilancio non era in pareggio e le sembrò che l’intera vita, quel giorno, non fosse stata in pareggio. Una sensazione alquanto sgradevole. Louise fece una smorfia, a ricordare quel giorno. Per un attimo sentì la terra aprirsi sotto i piedi. Ma era un pensiero che non aveva fondamento. La sua vita era in attivo, pensò. La sua vita era come Wall Street, il bull-market (1) che non avrebbe mai avuto fine. La sua vita erano gli anni ottanta, gli elettrodomestici e le macchine fiammanti prese a rate, i vestiti presi a rate, la casa presa a rate, la salute presa a rate, la sicurezza presa a rate. Ho l’assicurazione, nel caso dovessi finire in ospedale. Sono al sicuro. Pensò. Vide una stanza tutta bianca inondata da una soffice luce e il chirurgo, un uomo prestante sulla cinquantina con la faccia del Dottor Kilder, premerle sulla bocca una mascherina verde pisello collegata a una bombola d’etere, lo sguardo accorato e serio, le mani lunghe e curate. Louise non sapeva che grazie all’enforcement dell’Emergency Surveillance Act approvato da poco la Società per la Security nei Malls, a insaputa dei cittadini, aveva tappezzato di micro-telecamere i luoghi ritenuti in qualche modo pericolosi. Il Grande Centro Commerciale di Northampton era stato riempito di migliaia di telecamere della grandezza di una mosca. Perfino i water nei bagni delle Signore erano stati dotati di una micro-telecamera nel caso fortuito che qualcuno avesse nascosto qualcosa nelle mutande. Una bella testa di ariete per sfondare l’ultimo avamposto dei diritti civili in nome della sicurezza. Louise passò il negozio di the GAP con tutti quei vestitini da ragazza che ondeggiavano sotto i vortici dell’aria condizionata. Sembravano dei carta modelli ritagliati dai libri per bambine: fragili come farfalle, trasparenti come carta velina. Questa roba non fa per me – pensò Louise. Io voglio quel vestito azzurro che ho visto da SEARS. Voglio la seta sontuosa come un cielo compatto di un pomeriggio maturo, come la giornata di oggi. Com’era prevedibile, Louise raggiunse l’ultimo avamposto in fondo al corridoio largo quanto una statale a tre corsie: il negozio di SEARS. Vide vetrine che arrivavano a toccare il cielo e una moquette vellutata color senape che correva fino al soffitto. Un grosso lampadario a gocce finto antico incombeva all’ingresso. Voglio quello – pensò Louise. Poi immaginò i soffitti bassi di casa sua e decise che il lampadario sarebbe stato ingombrante come un cadavere. Più ingombrante del mio ex-marito, pensò. Immaginò Bob appeso al soffitto, con la 24ore incollata alla mano, che rigurgitava le bave di tutte le birre Budweiser scolate in una serata: pendeva di fronte al televisore oscurando la visibilità e farfugliando. All’incirca alla quindicesima “Bud”, Bob iniava a mandare zaffate di spazzatura dalla bocca e a sudare orina. Louise si vide nell’angusto tinello di casa mentre cercava di scacciare Bob a manate, ma non ci riusciva e lei si perdeva una puntata fondamentale di Beautiful. Si diresse in fondo al negozio, oltre le casse e gli eserciti di vestiti per donne in carriera, pre-maman, taglie petit e vestiti d’ordinanza per professoresse di liceo, tutti larghi e accollati con degli orrendi bavaglini e fiocchi puntati all’altezza della gola: la versione moderna dei vestiti dei puritani. Si fermò allo stand per “Hotties”: i languidi vestiti da sera, di seta, velluto, tulle e falpalà. Il vestito azzurro era ancora là, nella sua abbacinante semplicità, un ampia tunica al ginocchio senza tasche e maniche: un pezzo di cielo morbido che ti faceva sparire nel suo abbraccio. Louise entrò in uno dei camerini e indossò l’abito. Sentì addosso il fresco della crêpe di seta. Si guardò allo specchio: il chiarore dei faretti le incendiava i capelli biondi: era diventata un angelo, una donna nuova. Una rigagnolo di felicità prese a scorrerle dal petto. Questo me lo lascio addosso – pensò. Stava raccogliendo la borsa quando udì un gorgoglio irregolare provenire dal camerino a fianco, seguito da un tonfo. « Aiuto! » gridò una vocina infantile. « Tutto a posto là? » urlò Louise. Magari qualcuno si è sentito male. Magari qualcuno che è stato al McDonald, quelli di solito se la fanno addosso nei camerini. Troppi hamburger creano confusione e disorientamento spazio-temporale e può succedere di non trovare più la strada per la toilette. L’ho visto in tv. Una volta una casalinga di Fresno ha defecato nella cabina di un camionista, pulendosi con il poster di Miss Luglio 1987. E un’intera scolaresca nel Minnesota ha scaricato nel parcheggio una quantità di letame tale che hanno dovuto chiamare i pulitori degli zoo e un camion con pompa idraulica. Sono tragedie contemporanee – pensò Louise. A me non succederà mai. Piuttosto la faccio nella borsa. Decise. « Aiuto…» ripetè la vocina, ancora più flebile. Louise si aggiustò il vestito sui fianchi, uscì dal camerino e scostò il tendone color crema di quello a fianco. Non c’era nessuno. Vide un vestito da sera color smeraldo a maniche lunghe gettato per terra. Dalle maniche usciva della poltiglia gorgogliante come da un tubetto di dentifricio. Le ricordava il tubetto di crema al formaggio Cheddar che piaceva tanto a suo marito. Se lo sparava direttamente in gola. Fa male alle arterie, gli diceva. Ma lui non l’ascoltava. La fissava, riempiendosi le guance come un criceto in segno di sfida. Il colore della poltiglia era quello del pasticcio di carne, osservò Louise: il meat-loaf, che spesso preparava da ragazza, quando era casalinga a tempo pieno. Però questa non è carne di prima scelta – pensò. Dà sul viola e quando dà sul viola significa che non l’hanno macellata bene o che è vecchia, sentenziò nella sua testa. Intanto il pasticcio di carne continuava a uscire a fiotti dalle maniche e da tutte le aperture del vestito color smeraldo. Tra i liquami intravide qualche ciuffo di capelli castani, poi un apparecchio dentale, un’unghia smaltata di rosso carminio, del sangue rappreso, una catenina con dei fenicotteri d’oro e un by-pass coronarico. Louise si accucciò a terra, prese in mano un dente, lo osservò sotto la bianca luce dei faretti. «Ma da dove viene tutta questa schifezza?» – pensò a voce alta. Si accucciò a terra, affondando l’indice della mano destra in quel pasticcio semovente.
Non fece in tempo a rialzarsi che una voce stentorea da un autoparlante ruppe il religioso silenzio dei camerini: « Louise Chase, lei è in arresto per la strage del Centro Commerciale di Brookhaven e per l’omicidio di Candice Broom qui a Northampton, tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei in tribunale» etc, etc… Si voltò: non c’era nessuno. Che sarà mai? Pensò. Uno scherzo? Un’allucinazione? Un’esercitazione? Louise iniziò a correre disordinatamente, affannandosi tra stands multicolori, manichini con le mani adunche, manifesti pubblicitari di articoli per fitness, camerini fiammeggianti con tende di finto broccato e casse deserte. Alla fine riconobbe il grosso lampadario a gocce e guadagnò l’uscita. « Signora Chase si fermi!» continuò la voce nell’altoparlante « Si fermi! Ora!!» Louise prese a sbandare a destra e a sinistra come un moscone impazzito, urtando contro le vetrine ghiacciate. Vide i vestiti e le merci glassate dal gelo dei condizionatori, poi la strada a tre corsie che l’avrebbe portata all’uscita. La voce all’altoparlante si fece più suadente: « Louise, non renda le cose più difficili, se mantiene la calma ne parleremo insieme…» Louise si voltò, guardò in tutte le direzioni. Non c’era nessuno. Forse era in crisi ipoglicemica perché non aveva ancora mangiato le ciambelle. Mentre stava decidendo se la glicemia bassa potesse provocare o meno delle allucinazioni, sentì una fitta al cuore e si accasciò a terra in preda alle convulsioni. Il grosso corpo compatto di Louise prese a torcersi come una lumaca. Poi vide una sagoma nera sopra di lei. Non aveva occhi. Un moscone di plastica della grandezza di un uomo. « Signora Chase » disse il moscone con voce gentile « se lei adesso si arrende io mollo il Taser, ma lei deve alzare le braccia in segno di resa » « Mi arrendo…» farfugliò Louise e cadde svenuta. Louise venne portata via in barella, mentre un intero reparto di teste di cuoio scendeva in silenzio dal soffitto con corde da arrampicata. Sul piazzale era schierato il nucleo antiterroristico di Staten Island e il reparto celere di Brookhaven con un piccolo esercito di tiratori scelti e quattro camionette anti-sommossa. Louise si svegliò nell’ospedale del penitenziario femminile di Syracuse, Up State New York. Ho sempre voluto fare una gita in campagna qui in Up State, tentò di consolarsi Louise appena seppe la notizia, osservando la vegetazione lussureggiante che sbucava dalle inferriate. «Crede che un picnic me lo concederanno?» voltandosi speranzosa verso la porta. « Lei non uscirà di qui prima di averci spiegato come fa a liquefare la gente» disse un ometto segaligno vestito di marrone. « Forse mette qualcosa sui vestiti? Non ne abbiamo trovato traccia..le confesso signora che sono perplesso. Questa è la prima volta nella mia carriera…lei ci dice come fa e avrà uno sconto di pena…» Louise lo guardò: le dava le spalle, in piedi davanti alla finestra. Guardava pensieroso l’assolata campagna di Syracuse come se laggiù, da qualche parte, avesse intravisto la verità, immobile sotto la luce nuda. Era stempiato e masticava tabacco: si riempiva bene le guance, ciancicava soddisfatto facendo rumori orrendi e poi sputava un bolo viscido nel cestino della cartastraccia a intervalli regolari. Si voltò e la guardò sconsolato come se sapesse già tutto. Scosse infine la testa. « Louise, Louise…lei non collabora…ci dica almeno perché…» Strisciò fino al suo letto e si chinò sulla sua faccia, mellifluo: « Invidia sociale forse?» Louise scosse la testa. Una lacrima le scese dall’occhio destro. « Un matrimonio fallito alle spalle, abbandono del College, una serie di diete fallite, pochi amici, un lavoro che non la soddisfa…» « No! Non è vero! Io amo il mio lavoro! » protestò Louise « Il suo lavoro è osceno lo sa? Massaggiare, affondare le mani in tutti quei i corpi. » Fece una smorfia di disgusto mentre gironzolava attorno al suo letto agitando le mani. « Louise, Louise: otto anni senza rapporti sessuali…» l’omino scosse la testa in segno di disapprovazione – è per quello che massaggia, perché vuole avere un pò di carne tra le mani…» « I corpi sono lavoro… » si difese Louise. « Dicono tutti così. Lei è una frustrata sessuale, Signora Chase!» « Si sbaglia… » replicò Louise in un soffio e incominciò a piangere. « Si ricorda di sua madre? » continuò l’ometto per nulla infastidito. « Era una grande risparmiatrice…» Louise si soffiò il naso. « Grande risparmiatrice, è vero » Louise scrollò la testa in segno di assenso. « E non le comprava mai i vestiti che voleva…è vero Louise? È da lì che è iniziato, confessi, da quella volta che all’asilo ha ridotto a brandelli il vestitino nuovo di sua cugina con un paio di forbici, quello con tutte quelle ciliegine stampate sopra!!» « Questo è troppo! » rispose Louise decisa. « Mi risparmi la sua psicoanalisi a buon mercato!» « L’oralità frustrata è una faccenda seria » aggiunse l’uomo con amarezza, guardando il soffitto. Louise guardò il soffitto anche lei come se qualcosa fosse rimasto impigliato in un angolo. « Non finga di distrarsi Louise: le ciliegine sul vestito di sua cugina, Louise, le ciliegine…» la incalzò l’uomo Louise notò che aveva occhi castani appannati, inespressivi. Ebbe un moto di ribellione « Ma se ne vada affanculo, lei e le sue ciliegine…» « Lei voleva mangiarle tutte quelle ciliegine ma non ha potuto. Erano ciliegine di stoffa. Capisce Signora Chase? Da lì è originato il suo trauma.» Louise lo guardò: aveva l’aria soddisfatta. Su quella faccia incolore, un accenno di sorriso. Quand’è che la smetteranno coi corsi di psicologia all’Accademia di Polizia – pensò Louise… « Lei non può mangiare allora liquefa…o se vogliamo citare la Melanie Klein lei spacca, taglia, fruga.» « Lei non ha uno straccio di prova! Vorrei sapere dove sono finiti i miei diritti civili! » urlò. « Quali diritti?» Le labbra di Louise ebbero un leggero tremito. « Voglio andare a casa! » Urlò all’improvviso.
« Voglio il mio daiquiri alla banana gigante!! Voglio il mio fenicottero di pelucheeeeee! » Louise tirò fuori un urlo terribile, sepolto lì dentro da almeno quarant’anni, un urlo così forte che la udirono in tutti e sei i bracci del penitenziario.
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Louise fu ospite della prigione femminile privata di Syracuse per circa un mese durante il quale perse un po’ di peso, riprese a suonare la chitarra e riscosse un certo successo tra le lesbiche “butch” del braccio politico. Un giorno fu fatta chiamare dal direttore del penitenziario che congedò Louise con tante scuse e una vacanza premio in Europa. « Capisce lei sparisce per un po’» le disse consegnandole il biglietto aereo « così, tanto per far calmare le acque…» « Ma io sono innocente » protestò Louise. « L’innocenza è un concetto relativo mia cara. I giornali hanno fatto un bel po’ di battage pubblicitario, lei capirà. Hanno scritto su di lei due biografie, nei negozi di giocattoli ci sono dei pupazzetti-killer accessoriati, simpaticissimi fra l’altro, di nome Louise, sono uscite due marche di gelato dedicate a lei, una linea di ciambelle con la sua foto stampata sulla glassa e stanno pure girando un film: “The Horror Mall”, con Dolly Parton nel ruolo di protagonista…sa, io non ci posso fare niente…ci sono ben altri interessi in gioco». « Sembrano più importanti della legge…» « Più importanti no, diciamo diversi…» il direttore delle prigioni sorrise, comprensivo. « Voglio tornare a casa » piagnucolò Louise. « Quella è una faccenda un po’ più delicata. Le abbiamo riassegnato una nuova casa, in un altro Stato e lei potrà godere del programma protezione testimoni, nuova identità, nuovo lavoro. Una nuova macchina, perfino ». « Ma io…come sarebbe?» « Ci sono i parenti delle vittime, capisce? Tutti armati. Armati fino ai denti » il direttore si fece scappare un risolino. Hanno tutti diritto alle armi, si capisce. Ognuno di loro ha quattro armi registrate, fra cui un khalashnikov, qualche bomba a mano e un paio di mortai…è difficile controllarli. Con tutte le armi che circolano nel paese poi è praticamente impossibile…lei capirà spero.» « Ma io non c’entro niente. Io voglio il mio tappeto di pelo verde-pino, la mia televisione-mobile ad incasso con le colonnine in bronzo. La mia collezione di fenicotteri…» « Affanculo i fenicotteri. Mentre lei era qua a nostre spese sono successe delle cose più importanti dei suoi fenicotteri. Ora c’è un gruppo armato di estrema destra, del Tennessee, una branca della Supremazia Bianca, che si fa chiamare “Against all Malls”. Pensa che i Malls siano l’origine della decadenza della civiltà occidentale. Quei cazzo di Red-Neck (2) si sono convinti che ci sia un grande complotto, alla cui testa c’è lei. Ah, e naturalmente lei è ebrea ». « Ma io non sono ebrea » « Non importa, lo credono loro e ventimila dei loro adepti, per cui diventa vero. Capisce Louise, com’è il meccanismo? Adesso lei è ebrea, curioso no? » « Non ho niente contro gli ebrei, ma io non sono ebrea ». « Avanti, Louise, lei è un po’ ebrea…tutto quel suo lamentarsi e piagnucolare, dare la colpa agli altri anziché a sé stessa: è un po’ ebrea, mi creda ». Louise tentò di cambiare discorso: « Ma poi l’hanno preso?» « Preso chi? » chiese il Direttore sorridente. « Ma l’assassino, il serial killer ». « Ma non c’è nessun assassino, cara ». « Come nessun assassino, e le vittime allora? » « Si sono uccise da sé, suicidate se vogliamo proprio dirla tutta » Il direttore si accese un sigaro già iniziato e sparì dietro una coltre grigia e puzzolente. « Suicidate?! E perché? » « La loro voglia di vivere si era impigrita. È iniziato tutto con la grande campagna per il Bicentenario ». « I grandi festeggiamenti del ’76 vuole dire? Cosa c’entrano? » « È stata l’origine di tutti i mali….dopo il fallimento della guerra in Vietnam e la crisi economica gli Americani diventarono apatici. Non avevano più qualcosa in cui credere e per cui lottare. E sono diventati…grassi » disse il Direttore guardando Louise con disapprovazione. « Non protestavano più accettavano tutto, capisce? Erano pigri, indolenti, rinunciatari: le merci se li sono mangiati, anzi sarebbe meglio dire che si sono fatti ingoiare dalle merci» il direttore incominciò a disegnare anelli di fumo. « E a lei questo non potrebbe mai succedere…» « Io non vado mai nei Malls Signora, ho sempre pensato che fossero luoghi pericolosi ». « Ma quanto durerà questa strage?» « Non durerà in eterno. Gli analisti del Pentagono hanno già consegnato le loro previsioni alla Casa Bianca ». « E quali sarebbero?» « Dopo un periodo in cui infurierà il cannibalismo le cose si assesteranno da sole ». « E come?» « In realtà è abbastanza semplice. Si creerà una situazione di stallo: le merci e l’uomo si equivarranno sulla scala dei valori » Louise era incredula. « Si è trattato di una specie di reazione autoimmune, capisce? Le merci percependo l’uomo come un virus, hanno scatenato una reazione immunitaria di attacco. Fra qualche anno l’uomo saprà di valere quanto le merci, forse meno e potrà iniziare una fase di stabilità e di pace ». « Ma è orribile!» « Orribile, ma pacifico. Non avremo più disordini. Quando la prossima generazione si metterà in testa di valere quanto un paio di scarpe Nike, allora tornerà la calma ». « Come mai io non sono stata aggredita? » pensò Louise, fissandogli la cravatta marrone a pois gialli. Il Direttore lesse il suo pensiero. Era allenato a farlo. « Ci siamo convinti che lei possegga un’immunità naturale, Louise. Pensiamo che in fondo in fondo ma proprio in fondo a se stessa lei sappia di valere qualcosa, e questo l’ha salvata. » Louise uscì stordita e incredula dall’ufficio del direttore; percorse i lunghi interminabili corridoi delle carceri scortata da una secondina che le chiedeva insistentemente l’autografo. Dal fondo delle celle si levò un canto all’unisono, greve e accorato, uno spiritual delle carceri. Faceva più o meno così: « Louise, Louise, tu ci hai vendicati. Ci vedremo diversi, grazie a te Louise, nello specchio sempre uguale dei giorni ». La secondina, una messicana piccola e scura con la coda di cavallo e un piccolo orecchino d’argento a forma di giaguaro, faceva smorfie di disgusto. Il canto proseguiva, accarezzando i corridoi di PVC marmorizzato color verdolino, le inferriate grigie, le pareti a volta intonacate: « Louise Louise, tu ci hai liberati. Gli schiavi, lo abbiamo capito ormai, SONO LÀ FUORI». Dalle piccole finestrelle del carcere, all’ultimo piano, era stato fatto scendere uno striscione improvvisato con su scritto: Siamo con te Louise. Sull’autostrada che la portava all’aeroporto Louise vide i piloni dei cavalcavia imbrattati di vernice nera: Louise for president. Questo è tutto quello che so della storia di Louise. L’attendeva un Boeing 747 sull’asfalto sfrigolante dell’aeroporto di La Guardia. Fu vista per l’ultima volta camminare nel candore dell’afa con quella sua andatura dondolante, una piccola macchia azzurra ingoiata dall’orizzonte pieno di luce. Destinazione sconosciuta. C’è chi dice viva in Canada ora, con un esquimese amante-tutto fare. E c’è chi giura di averla vista a Sacramento massaggiare tre persone contemporaneamente su un letto ad acqua King Size, mentre un imbonitore stile Far West con la coda di cavallo e una giacca a frange issato su un conservone dell’acqua vendeva bottigliette di lozione per la pelle “Louise Chase”. Fu vista andare in giro con un carrozzone con dei fenicotteri verdi dipinti sopra e la scritta in rosa shocking: “Louise, the masseuse pain killer.” A ogni modo, non se ne seppe più niente. Si persero le sue tracce, tutto qui. La sua storia mi colpì molto. Quando sul finire degli anni ottanta mi decisi a lasciare l’America, caddi nel caldo e profumato abbraccio dell’Europa. Scordai quell’incubo chiamato America. Delle sue masse di carni doloranti e gonfie, solo un muggito lontano, una musica che appariva a tratti nei miei sogni e che non riuscivo a decifrare al risveglio. Da qualche tempo la mattina presto, d’estate il vento smette di respirare. Si sente un oscuro schiocco, lontano, come se avessero tolto il tappo in fondo a quella piscina che è il Mediterraneo, dalle parti di Gibilterra. Dicono sia il riscaldamento globale, che prende a calci in culo l’anticiclone delle Azzorre e che fa fermentare l’acqua come nel Permiano. Tutte quelle luci, quei condizionatori si sono moltiplicati fino a farci sprofondare nel buio primordiale del primo black out. Ora sento ruggire i condizionatori, la notte, ma io so che il rumore viene da molto più lontano. È l’America, che sta arrivando, col suo carico di felicità dolorosa. A differenza dei miei vicini di casa, dei miei amici e dei miei connazionali io so cosa sta per succedere. Inutile provare a parlarne: non mi crederebbero. Il mare verso l’alba ha un risucchio: mostra gli scogli spellati, la ghiaia si asciuga all’istante. Sento che arriverà prima o poi l’ultima onda, a cancellare ogni traccia dell’Europa, ma l’Europa non se ne accorgerà. Sarà una catastrofe trasparente, avvolta nell’aria traslucida dei condizionatori a pieno regime, dei Dunking Dounoughs e dei McDonalds. Ci farà sentire ricchi, mentre acquisteremo tutta quella paccottiglia. Come i pellerossa prima di noi.

(1) Bull Market: La Borsa sempre in attivo
(2) Red Neck: contadinotti ignoranti, principalmente del Sud

Anna Laura Morello
eternauta69@gmail.com

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Primo Racconto: http://wordsocialforum.com/2015/09/04/contest-i-racconti-della-mezzanotte-i-edizione-adriana-pedicini-un-viaggio-senza-fine/
Secondo Racconto: http://wordsocialforum.com/2015/09/23/contest-i-racconti-della-mezzanotte-i-edizione-rosario-campanile-maria/

Un anno di vita: Ebook “La Stanza Clandestina” – Contest “le orme di eros”


Ebook: La Stanza Clandestina

Con questo Ebook, il Collettivo inaugura uno dei suoi obiettivi.
E’ una raccolta di voci giovani che seguo e amo per il loro modus operandi scrittorio.
Ciascun Autore ha un legame con l’altro, nelle parole e nei gesti invisibili che trasmettono.
Le fotografie, infine, sono la ciliegina sulla torta, una gentile concessione di due Amici che seguo da un anno.
Buona Lettura!

la stanza clandestina

Contest: Le Orme di Eros

Le Edizioni Smasher comunicano la nascita di una nuova Collana Editoriale “Orme rosse” , dedicata all’Eros, lontani dal voler creare spazi di volgarità gratuiti e sterili, desideriamo dare voce – attraverso la pubblicazione di ebook e volumi cartacei – a ciò che è insito in ciascun essere umano: l’eros, nelle sue varie declinazioni

Il Collettivo culturale WSF – Centro Sociale dell’Arte , di cui è capo redattore Antonella Taravella, è felice di inaugurarla con un’antologica composta da contributi poetici – narrativi – fotografici e di opere artistiche, selezionati con cura.

Dal 20 marzo al 20 maggio, entro la mezzanotte, potrete mandare i vostri contributi alla mail, wordsocialforum@gmail.com, con oggetto: Le orme di Eros e la sezione con cui s’intende partecipare:

Sezione A) poesia da 2 a 4 cartelle;
SezioneB) racconti massimo 4 cartelle;
Sezione C) fotografie e disegni o opere artistiche 3 (alta risoluzione)