La sostanza cromatica della bellezza. L’arte digitale di Giovanni Auriemma


giovanni auriemma

Sostanza infiammabile lenta

s’asciuga e ripara le lacrime

(Franco Buffoni)

autumn-leaf

l'inizio del tempo

l’inizio del tempo

 Scegliere di organizzare sulla tela o nello spazio il colore come filtro emozionale, appartiene alla natura dell’arte italiana. Unendo i segni di una parte di tradizione alta della pittura italiana, il colore è la texure su cui si vive la parte dionisiaca dell’arte,  in cui il vibrare della luce   anima quella parte sensoriale più esposta alla fecondità del pensare e dell’emozionarsi. La scelta della supremazia grafica o spaziale o ideologicamente costruttiva è un altro cammino artistico senza dubbio. Eppure, quando si entra nelle invenzioni cromatiche delle opere di Giovanni Auriemma si è così pieni dell’esposizione al colore, che ogni altra strada artistica sembra non appartenerci. Il suo colore abbacina ed esalta la forma, la forma non viene compressa ma si libera e vibra nel colore e ogni segno prende corpo e vita. Incontrare un’opera di Giovanni Auriemma è mettersi in viaggio per il Gran Tour del colore, esplorando i luoghi di un vissuto stratificato in simboli archetipi virati nella più completa modernità del sentire. La tecnica usata è gran parte il digitale, ma l’artista è già oltre essa. Lo leggerete alla fine di quest’intervista.

Giovanni, Il colore esplode nelle tue forme. Ha vita propria e oscilla fra le forme aprendole e segnandole, seppur riconoscibilissime, ma dominandole completamente. Una baraonda emozionante, pathos dionisiaco che non nasconde ma al contrario espone e lascia che i sensi si disperdano in enigmatici intrecci cromatici. Ora tocca a te raccontarci dei tuoi colori.

Mi piacciono i contrasti, mi piace poter giocare con la luce, portare le tonalità del colore a livelli di luminosità particolarmente intense e vibranti. Immagino che sia questa intensità, unita all’impianto teatrale delle composizioni a rendere tutto molto drammatico. All’accademia, prima che cominciassi a usare il computer, nei miei lavori utilizzavo spesso gli inchiostri. Mi piaceva far scivolare l’una nell’altra tonalità distanti dello spettro, vedere dove i colori si fondono e dove rimangono separati… col computer ho un approccio analogo: provo a far convivere gli opposti, il caldo e il freddo, le luci e il buio…   Credo che sia la prima volta che rifletto sull’importanza del colore nelle mie immagini. Generalmente do priorità ad altri aspetti prima di iniziare un lavoro:  l’idea centrale, la composizione, i simboli… Probabilmente dipende dalle infinite possibilità del mezzo che utilizzo, ma spesso i colori di un immagine vengono scelti in un secondo momento, e possono cambiare di volta in volta in base a quello che mi suggeriscono i contenuti. Non che siano un elemento secondario, anzi probabilmente è ciò che arriva prima. E’ il suono che scelgo per le parole, la colonna sonora di un racconto.

Parliamo di frontiere. L’arte sposta il baricentro della fattura ideologica sempre un po’ più in là. Dalla body art alla land art alla digital art tutto viene toccato ed intaccato dalla costruzione artistica, e quello che nasce come sperimentazione diventa ben presto consolidamento. L’arte digitale dove si posiziona nella linea temporale dell’arte di questi anni?

L’ arte digitale di oggi è un contenitore piuttosto ampio che include manifestazioni artistiche estremamente differenti l’una dall’altra. Negli anni 50 la sperimentazione dell’arte digitale derivava dal suo legame con la matematica, oggi il computer è semplicemente un elemento integrante di un processo creativo e si sperimenta attraverso la contaminazione formale dei linguaggi. Credo che quello a cui stiamo assistendo sia via via la rottura dei confini che inscrivevano un opera d’arte all’interno di un unico mezzo espressivo. Conosco talentuosi pittori che creano alcuni lavori al computer prima di dipingerli su tela. O illustratori che hanno un approccio molto “digitale” al collage. Sicuramente loro non si definiscono artisti digitali ma è indubbio che le loro opere non sarebbero state le stesse senza il computer. Il mio approccio al computer del resto è nato quando mi sono accorto che con questo mezzo potevo produrre immagini che non sembravano realizzate al computer..

the wall

the wall

Il concetto di tempo in un simbolo arcaico e riconoscibilissimo: lo zodiaco. Hai scelto  di esplorare la simbologia zodiacale, ridandone forza visiva e grande vitalità.

Il primo segno della serie che creai era il segno dei pesci, ma nacque per caso. Avevo in mente una scala che si avvolgeva attorno ad una figura femminile fino a diventarne parte, in seguito decisi di inserire due fluttuanti pesci rossi che la percorrevano in senso inverso… chissà forse per incontrarsi. In quel periodo ero molto affascinato dal lavoro di M.C. Escher ma quando completai l’immagine mi accorsi che avevo riprodotto in maniera del tutto inconscia il simbolo dei Pesci. Decisi così di creare una serie studiando la simbologia dei segni e da lì l’astrologia. I modelli sarebbero stati i miei amici e persone a me molto care. Ogni opera avrebbe avuto un doppio titolo perché nella mia idea le immagini avrebbero dovuto funzionare anche singolarmente.  Poi con il tempo mi sono appassionato allo studio scoprendo un forte legame tra astrologia e psicologia e una vera e propria miniera di simboli e immagini da cui attingere per il mio lavoro.

Predestinati (pisces)

Predestinati (pisces)

Il computer come strumento artistico è stabilmente presente fra gli strumenti a disposizioni della composizione visuale. E’ materia di studio, insomma. Sullo studio e sull’arte, torniamo su un punto critico:  l’arte non può essere insegnata. Può essere stimolata nei suoi linguaggi tecnici. Oppure no?

Mai come in questi anni l’arte ha avuto tanta libertà espressiva e tanta possibilità di fruizione. Per questo sono assolutamente a favore di una maggiore diffusione dei linguaggi e della tecnica. Naturalmente la tecnica può stimolare la creatività. Che questo di conseguenza possa stimolare l’arte per me è più difficile stabilirlo, anche perché i miei criteri di valutazione sono inevitabilmente molto personali. Per quanto mi riguarda ultimamente mi capita sempre più spesso di emozionarmi di fronte a creazioni o a disegni realizzati attraverso un computer da parte di persone che non operano abitualmente nel campo dell’arte…

mare avverso  (Neptunus)

mare avverso
(Neptunus)

La tua “arte”: i tuoi perimetri già esplorati e chiusi, le tue aree ancora da raggiungere e catturare. Passato e futuro, insomma.

Credo che con la serie dello zodiaco e dei pianeti abbia scoperto i punti di forza ma anche i miei limiti nella capacità di manipolazione fotografica del corpo umano. Nella mia testa c’è ora una serie sui tarocchi. E’ un progetto ambizioso per me, considerando il numero delle carte, la quantità dei simboli e i miei tempi biblici. Tecnicamente vorrei servirmi sempre di più di altri strumenti, magari di immagini realizzate interamente in 3d, come integrazione agli elementi a me più familiari della fotografia e della pittura.

Giovanni Auriemma

Giovani Auriemma è nato a Napoli nel 1976. Nel 2000 ha conseguito  il diploma di laurea in scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, coltivando parallelamente la sua passione per l’arte digitale. Abita e lavora a Viterbo nel campo dell’editoria come grafico, illustratore e impaginatore. I premi, le pubblicazioni e le mie esposizioni più importanti sono consultabili presso il suo sito http://www.giovanniauriemma.it/site

Ha insegnato tecniche di grafica pubblicitaria presso la facoltà di scienze politiche dell’università della Tuscia a Viterbo.

RACCONTI INASPETTATI DI FERRAGOSTO – Il collettivo WSF vi augura un Ferragosto oltre ogni consueta lettura


Collettivo WSF

Collettivo WSF

 

Vi abbiamo sorpreso?

Credevate che fossimo a riposarci?

Forse che si, forse che no

 a WSF siamo spesso il tutto e il suo contrario

l’imprevedibilità ci appartiene così come il fare inaspettato

quindi

vi accompagneremo per Ferragosto con un libro di racconti inediti

dei redattori di WSF

totalmente gratuito

leggibile qui sulla pagina

oppure scaricabile (sempre gratuitamente) su Calameo

Ricucitevi alle sedie o ai tablet:

c’è da leggere ancora.

Il letto di ghiaccio

su Calameo

http://www.calameo.com/books/0016504986a23d1fb9824

L’abitudine alla vita. Le Confidenze Confidenziali di Natalia Bondarenko.


… sulla malinconia accusata

del vento dell’Est, spietato tagliapelle

troppo penetrante per i tuoi gusti,

poco accogliente

nel suo gioco inutile del nascondiglio

libro Poemetto

E’ nel titolo che si presenta il leitmotiv che porta in vita il libro di Natalia Bondarenko, l’impulso autobiografico, quel necessario confidarsi per non lasciare che la propria esistenza passi senza rivelarsi agli altri; e gli altri sono quei confidenti distratti da conquistare con la propria “mappa dei punti sensibili”, esponendosi pura e trasparente,  nella radicale convinzione che “non è facile esprimersi con due parole sole”, e in se la traslazione di un’esperienza femminile dove “festeggiare la gloria del nulla” è già comunque esistere.

Dentro un labor limae esistenziale, che sceglie la  sequenza, con una vera e propria trama temporale e spaziale, resa  in liriche di libera metrica, anzi di “non” metrica, assolutamente libere di raccontare in presa diretta, non prosa ma verso lungo, vers libre. Luoghi e personaggi, preposizioni semplici ed articolate  e  presente  indicativo: io sono,/io ho/ io non so/ io amo/ per il conto degli anni e delle confidenze e infiniti semplici per coniugare i desideri “Stare nel mio cortile, \volare sempre basso,\ ingrassare per bene \per essere cucinata nel giorno del (suo) ringraziamento. Volevo essere anch’io tutta sua\con un anello sulla zampa\ pieno di dediche\per sempre“. E il territorio è la nostalgia che si muove fra la parte russa che occupa la geografia dell’anima e quella italiana che è la parte nomade più che esule. “E le finestre ad Est, chi sa perché\terrò sempre aperte” l’autrice è segnata dalla nostalgia della Russia e la stende in tutto il racconto in versi. Ma in relazione a quest’ultimo elemento, dobbiamo  svelare il tranello dell’esergo e dei riferimenti alla sua autrice “mito”: la poetessa Marina Cvetaeva così citata non è da mettere in relazione affatto (appunto se non per amore e per esergo e citazioni), il vere libre della Bondarenko con la Cvetaeva dai lunghi respiri intarsiati di spirito e terra, ma tanto più calzante è il continuo racconto in prima persona, dividendo in frammenti ogni ricordo, cercando dialoghi involontari ma necessari con  Dio, svelando  l’esilio imposto dalla maternità, che avvicina questa raccolta alle inquietudini della scrittura di Elena Švarc,  in una linea continua dove le confidenze sono necessarie “non per placare la mia sete\ ma per soddisfare la mia anima”(E. Švarc)

confidenze confidenziali I

Nel conto degli anni di Confidenze Confidenziali c’è la ricerca dell’amore. Amore materno per la bambina dalla madre sola e del padre a bere, amore filiare per quel “povero cristo di mio figlio \ mai nato da un grembo poco accogliente” e di tutti gli uomini in cui ci si possa specchiarsi per ritrovarsi amata, perché l’amore è “la matematica elementare” per sommare la vita con la felicità. Bello, bello davvero, davvero vero. E tutto arriva e si perde quotidianamente. La Russia è nella cipolla continuamente mangiata e nell’eredità di un vecchio impermeabile della nonna,  l’Italia è nella solitudine delle case troppo vuote (ma da quando sono diventate così vuote le nostre case? la domanda è della redattrice non della poetessa) o nella maleducazione del leghista imbolsito nel verde della sua cravatta. E nella tenacia della resistenza è la forza vitale che la poesia traduce con improvvisi spruzzi di ironia che fanno sobbalzare e sorridere dopo il caos del dolore. Tenacia femminile che non concede nulla a nessuno, visto che il primo bisturi ha tranciato le illusioni e dato alla vita secolare la carne nuda. Ed anche altro “lasciamo stare i soliti discorsi da saccenti\ che non sono le coccarde a farci meritevoli“: qui versifica l’erede del Club delle Estranee di Virgina Woolf e allora, quando racconta “Credo, per fare una specie di conta\ degli anni non vissuti insieme\ dei figli non concepiti\del mucchio di chissà cosa\ però sai, di questo “chissà cosa”\ penserò al ritorno” la confidenza ormai si è instaurata e il tono è davvero amichevole quando il lettore passerà oltre la pagina e chiederà confidenzialmente all’autrice : “Ma alla fine, l’hai trovato o no l’amore?”.

natalia bordarenko

Natalia Bondarenko, nata 31 maggio 1961 a Kiev, Ucraina (ex Unione Sovietica).
Nel 1990 si trasferisce in Italia. Attualmente Natalia Bondarenko vive e lavora come artista in Friuli, dove partecipa a numerose mostre personali, collettive e manifestazioni fieristiche nazionali ed internazionali.
Scrive da sempre nella sua lingua madre, in particolare ha scritto sceneggiature per spettacoli universitari, poesie e racconti. Ha tradotto in italiano opere poetiche e narrative di autori russi e ucraini. Direttamente in lingua italiana scrive solo da pochi anni riscuotendo un notevole successo.

da Confidenze Confidenziali

***

Ed era l’inizio della fine. La fine aveva il suo inizio.

Il dollaro maestosamente scalava la vetta

(uno per cinque

uno per dieci

uno per venti)

Il dollaro si prendeva con comodo la sua vittoria netta.

Celentano non usciva fuori dai suoi 33 giri,

i polacchi trafficavano con i jeans e la valuta,

la mia amica andò in galera

per aver rivenduto un paio di orecchini di plastica,

i primi ricchi facevano più poveri gli altri.

Ed era l’inizio della fine. La fine aveva il suo inizio.

Le campane hanno ripreso a suonare.

***

Senza amore

boccheggio come un pesce fuor d’acqua

sbatto la coda sul tagliere per protesta

con l’occhio ben lucido, ancora per poco

che finisce

per chiedere pietà ad un coltello appeso al muro.

Avessi i piedi – andrei a cercarlo.

(l’amore … intendo)

anche sui carboni ardenti della griglia pronta

che più degli altri mi capisce.

***

Mi spingi senza volerlo

verso il confine senza sbarramenti

sulla strada dove i sensi di marcia

prendono la forma del nodo di Windsor,

verso l’uscio della casa con il campanello rotto,

verso la pronuncia giusta del soggiorno

con i mobili e i cuscini di una vecchia tristezza,

verso la parola “pettinata” e

il rumoreggiare del petto nel silenzio

sempre, senza volerlo

mi insegni a parlare poco, ad amare meno,

a leggere fra le righe la cronaca peggiore della vita,

a fare i conti con l’incoscienza del giorno,

ad aprire il cuore, a sbattere la porta,

a stringere coi denti le lenzuola e

a spezzare l’ordine di posizionamento dei corpi,

a contare le pecore, le voci dei gatti, i polsi,

insomma, mi insegni la matematica elementare

fino all’alba.

DAGHERROTOPIA – Francesca Del Moro e l’urlo lungo dei Gabbiani Ipotetici –


Datemi un’unica strada

che sia una striscia di luce

in mezzo al buio,

datemi una meta

una qualunque.  

gabbiani ipotetici

I versi di Gabbiani ipotetici esibiscono un quadro personale che non rassicura o protegge, abbellisce o addolcisce la visione del mondo. Francesca Del Moro non interpreta un mondo ma sceglie una chiusa gamma di esperienze del proprio mondo, in cui la realtà si distingue e comunica attraverso parole che continuano a ripetersi nelle poesie, perché si chiede attenzione, si vuole concentrare il lettore su quell’ordine di pensieri e quell’ordine di giudizio morale. Sulla pesa, va da subito che la sua scrittura non è inerte anzi, va all’attacco, descrive il moto delle esperienze; i versi si muovono liberi, al di là della misurazione del canone o della sperimentazione, perché seguono l’obbligo del vero, senza lacci o pastoie; i versi scelgono la ripetizione polisindeta per rafforzare il giro della lettura. E’ questa la paura che ci spinge tra le braccia\che ci fanno male\che ci fa sopportare. Congiunzioni semplici e pronomi personali seguono il discorso poetico e cercano di asciugarlo, così da far emergere la voce dell’autrice sopra il caos dell’esterno.

E’ “la manutenzione infinita\ i mille piccoli e grandi interventi\che consentono alla macchina di funzionare ancora\” laddove la macchina che non può smettere di funzionare è la memoria del proprio vissuto, quel “sono rimasto com’ero” di cui scrive Derek Walcott.

Nella stesura del lavoro poetico, si possono racchiudere quasi con esattezza le traduzioni in versi delle proprie urgenze comunicative che l’autrice esamina, prende e riprende, rielabora dandone nuovi titoli entro la propria costanza espressiva, e  che alla fine della lettura delle sessanta poesie si saldano al vissuto dell’autrice.

Temi esistenziali: continuo il dialogo con un Dio che appare disinteressato alla crudeltà degli uomini, e qui i Gabbiani aprono visioni della presenza del male più che del bene. Temi culturali: continuo il ricordare e citare le proprie fonti letterarie che nutrono l’artista, ci sono strofe che elencano gli artisti amati. Ma su tutto, il pulsare dell’intensità del vivere : rosso – sangue – sangue -rossi, sono continui i riferimenti alla vita come dolore in queste parole distribuite nei versi a mano piena.

Altre catene. C’è il dialogo impossibile da svolgersi con l’amico Massimiliano Chiamenti, morto suicida, che la poeta continua a raccontare e ri-raccontare, come incapace di accettare il silenzio di un monologo imposto. Ci sono pezzi di cronaca, il G8 di Genova o la rivisitazione storica (ninna nanna di Hiroshima, Kim Phue); c’è la solitudine nei bicchieri alcolici degli uomini soli al bar, c’è un tipo d’amore sottomesso che fa urlare, come i neonati incapaci di chiedere aiuto se non attraverso il pianto (sei tu,\ sei sempre tu che mi fai ammalare,\ la casa e vuota e io non faccio niente,\ mentre tutti adempiono agli obblighi di Natale\io mi riempio di te inutilmente).

E nascoste fra i versi, ci sono anche le grida di chi ha visto un patto familiare sfaldarsi e rompersi. Forse è stato quello il parto delle grida del libro. La famiglia è inadeguata ai bisogni assoluti della voce narrante, è una convenzione umana,  un luogo mancato di felicità, e la si trova accesa sotto luce in diversi componimenti sparsi nel libro. In Gabbiani Ipotetici, la famiglia è l’urlo di Munch che spezza la passeggiata borghese, l’idolo sacro, il tabù intorno al quale costruire un muro di diniego o aprire il totem per scoprire se davvero esiste un’anima all’interno di esso.

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La famiglia cos’è? –  si chiede Del Moro –  il desiderio masochistico di una prigione\ di ritrovarsi sempre, di isolarsi. La forma è confessionale più che dialogante. La nostalgia di un non vissuto, dal rifiuto stesso dell’atto materno , dalla poesia Aborto (Il dubbio l’attesa\l’angoscia la paura\la speranza il diniego) tema che ritorna anche in Soanchescriverecazzateermetiche (E’ lui, il feto interrotto\il pensiero germinato\la feroce rinuncia\il duplicato di me stesa), al crollo del post partum (ti secchi al sole\diventi trasparente\e guardi da lontano\ la farfalla che vola). In questo cuore c’è l’ombra del rifiuto, del disamore (questa tristezza di bambina non voluta).

Sono questi i versi di maggior eversione del componimento, quelli che toccano affrontano con la spietatezza della verità quei disagi che le voci femminili nei secoli hanno dovuto nascondere, in nome di un moralismo di prassi che la poeta scardina con abilità. Una forza centrifuga attraversa queste strofe e quando la lettura finisce, non c’è alienazione ma comunanza, seppur legata da un dolore e la funzione sociale della poesia viene così compiuta.

da Gabbiani Ipotetici

PER UN AMICO MANCINO

Eri mancino anche tu,

ci avrei giurato,

e poi ti hanno corretto.

Ero mancina anch’io,

te n’eri accorto vero?

E poi mi hanno corretta.

Che ci vuoi fare, d’istinto

afferravamo la vita

dalla parte sbagliata.

Hanno provato a correrggerci,

ci provavamo anche noi,

poi tu ti sei arreso

o meglio hai detto: basta,

fan culo a quegli stronzi

convinti di sapere

qual è la mano giusta.

E io mi sono arresa,

io non so dire basta,

me ne sto qui a riempire

il buco che hai lasciato

scrivendo queste cose

con la mia mano destra.

***

LOVE LETTER

Massimiliano,

avrò mai il tuo coraggio,

la forza di morire

amando la vita e sapendo

che via di qi non c’è niente altro.

Anche io farò

della mia morte

una dichiarazione d’amore

e il mio corpo abbracciato

dal sangue e dall’acqua

sarà toccato

anche da un suo pensiero

quando gli diranno

che io l’ho amato più di tutte

e che ho saputo portare

il mio amore all’estremo.

***

DIMENTICARE GENOVA

A un certo punto

avevamo paura perfino

dell’aria, del cielo plumbeo,

degli elicotteri-avvoltoi

che ci sorvolavano.

Stavamo stretti

per proteggerci,

coi nostri sogni

in tasca insieme ai sassi

e ai pugni chiusi,

ci infrangevamo

come onde infilzate

da fili di vento.

Chi se lo ricorda, ormai,

per cosa marciavamo,

la giustizia globale,

come potevamo chiedere

tanto se nemmeno

su uno sputo di terra

c’è giustizia.

“Mi hanno schiacciato

la faccia con gli stivali”

racconta lei tra visi amici, dopo,

“sentivo il sangue in bocca,

le costole rotte, ho perso due denti,

ma” dice e le si spezza la voce,

“non faceva mali il corpo, era il cuore,

era il cuore a fare male”.

francesca del moro

Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna.

È scrittrice, traduttrice, redattrice, performer e organizzatrice di eventi legati alla poesia. Ha pubblicato le raccolte Fuori TempoNon a sua immagine Quella che resta, edite da Giraldi, Bologna.

Ha pubblicato inoltre una traduzione isometrica de Les Fleurs du Mal di Baudelaire (La Càriti, Firenze).

Insieme a Adriana M. Soldini e Federica Gonnelli fa parte del collettivo artistico Arts Factory. Cura la rubrica “Poemata. Versi Contemporanei” per la rivista ILLUSTRATI (Logos, Modena) e scrive di musica per il magazine Sound & Vision.

Nel punto critico – Lezioni romane di Critica Impura


Gli elementi della critica e non solo, lo stato dell’Arte magari e non è abbastanza, una possibile mappatura del lavoro critico immediatamente inserito nella magmatica letteratura attuale, forse. Di molto si è parlato negli interventi di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli,  le due anime del blog Critica Impura, tenuti a metà gennaio e riproposti in schede visuali sul canale di YouTube.

critica impura
1) Lezioni di Critica (Impura, come il blog esige) alla Scuola internazionale di Comics. Riconoscere o (provocatoriamente) conoscere la funzione critica del testo nella grande offerta che questi anni sta emergendo è una funzione curabile da strumenti oggettivi del critico, oppure ci si lascia sovrapporre da incurabili scelte di personalismo di lettura?

antonella pierangeliAntonella Pierangeli: Formalizzare il risultato di un’esperienza di lettura critica della realtà e di condivisione  intellettuale attraverso la forma della lectio è stata per noi innanzitutto un’esperienza di grande coinvolgimento emotivo. Aver avuto la possibilità di comunicare la nostra idea di critica impura ci ha permesso inoltre di affinare al meglio gli strumenti ermeneutici per vedere più nitidamente in noi stesse prima ancora che nei testi. Oggi che la poesia sembra “non stare più nelle cose” come diceva Pascoli e che la critica letteraria, che dovrebbe rintracciare invece il senso del poetico nelle pieghe più nascoste del textus, non è solo malata ma addirittura nella sua fase terminale, è sempre più urgente agire, almeno ermeneuticamente e criticamente parlando. Quel po’ di autenticità e di autonomia scevra da condizionamenti da merchandising, o peggio ancora da logiche di vassallaggio letterario, si esprime ancora, secondo noi, principalmente nel dialogo con scrittori ancora degni di tale nome, del passato o del presente, piuttosto che in tante pagine sgangherate, narrative e poematiche, di un tristissimo oggi in cui grazie alla galassia tritatutto della rete, bivaccano con malcelata tracotanza “uomini, mezz’uomini, ominicchi e quaccuaraquà” come afferma Sciascia nella sua feroce classificazione dell’umanità..

Questa mia osservazione però non è di ostacolo, sia ben chiaro, a nessun discorso teorico. Ragionare sull’essenza e sulla pratica della critica, sul rapporto tra oggettività e soggettività nella fruizione dell’opera d’arte, chiedersi se esiste e, se mai, che cosa sarebbe o che cos’era o sarà, in tempi forse migliori, la letteratura è sempre prioritario. Interpretare testi e dispiegare arsenali ermeneutici eterogenei e eterodiretti costituisce un’operazione difficile da orchestrare: le passioni personali e il gusto individuale con le sue asprezze e abissi di senso o l’oggettività cruda di regole tracciate da solide scuole di pensiero?

Per noi impuri, una lettura in senso estetico è già un’interpretazione e un testo non esiste affatto al di fuori di un’interpretazione o di una comprensione, se non come oggetto materiale. Di conseguenza se l’interpretare e comprendere non possono essere abbandonati all’arbitrio interpretativo assoluto, è pur vero che la possibilità di una teoria inamovibile sia da escludere totalmente. Appare allora con evidenza che è indispensabile uno sforzo di riflessione che, anche se non è una teoria ermeneutica vera e propria, porta piuttosto ad una felice intuizione: l’interpretazione non è, e non può essere, solo soggettiva e momentanea e neppure legata soltanto alla relatività e alla puntualità della contingenza storica. Anzi proprio perché l’interpretare include non solo l’interprete e gli oggetti dell’interpretazione ma anche se stesso, esso è una condizione sintetica, non un fatto isolabile, chiuso nella sua entità relativa. Così, impuramente, leggere-interpretare non è semplicemente aggregare i tanti significati come fatti analitici ma supporre, del testo che stiamo leggendo, in qualche modo già un’anticipazione del suo senso complessivo. Ma come passare da un solitario, opaco, aggregato di significati ad un senso contestuale che ci metta al riparo da qualsiasi comprensione arbitraria e fuorviante, sempre in senso estetico? La via è ardua, irta di ostacoli e strapiombi. Forse qualcosa come “l’afferrare di colpo” (mit einem Schlage) di Wittgenstein? Cioè la folgorazione improvvisa che scatta già alla prima frase, con l’anticipazione di tutte le altre? O piuttosto non ci si deve forse abbandonare alla tirannia della sovranità del testo in cui esso stesso e le sue regole siano il riferimento primario dell’atto interpretativo testuale e in cui perfino l’interpretante e i suoi oggetti siano a loro volta passibili di interpretazione?

Forse Critica impura si assume la responsabilità di parlare di teoria dell’interpretazione testuale semplicemente facendola, presentando così il textus come correlato oggettuale contenente il suo stesso principio regolativo. Siamo consapevoli della sfida: accettare in pratica l’ossessione e la condanna alla lettura e alla ricerca del senso estetico, le due polarità in cui si determina ciò che avvertiamo essere l’arte e i suoi territori, la conoscenza e la bellezza stessa.

2) Lezioni di Critica Impura è frammentata in vari capitoli, tutti con titoli altamente qualificativi. Ne cito alcuni: la malattia dell’epigonismo, la letteratura di genere, lavorare nelle tenebre. La critica può divenire una lingua organica universalmente scelta, se oggettivata in ogni sua potenzialità analitica?

Immagine 080Sonia Caporossi: l’oggettività analitica della critica è un quid utopico il cui ottenimento può e magari deve essere perseguito attraverso la sana abitudine di fondare i propri giudizi critici su criteri estetici esplicitati, chiari, distinti e manifesti, ovvero sulla necessità, da parte del critico, di possedere una solida teoria  estetico – filosofica retrostante, meglio se personale o personalizzata; altrimenti si cade nel puro de gustibus e si rischia di parlare ogni volta di aria fritta. Il problema, piuttosto, è che esistono in senso estetico tante diverse idee di bellezza e di bruttezza, e questo fa sì che la critica debba spesso fronteggiare casi e situazioni completamente opposte nel passaggio da un’arte all’altra, da una corrente all’altra, da un’opera all’altra. Il semplice giudizio estetico espresso col “mi piace”, tuttavia, dà luogo abitualmente ad una vexata quaestio. È un discorso lungo, ma posso sintetizzarlo così: l’indagine estetica propriamente detta non deve prendere proprio in considerazione il de gustibus, perché il “mi piace” non esprime un giudizio estetico, che è sempre universalmente soggettivo (Kant), bensì esprime un giudizio pratico, che è individualmente soggettivo. Io tento sempre di basare la mia critica letteraria sui principii estetici, altrimenti divento come un critichino dei tanti, che scrivono tomi e tomi su ciò che a loro piace perdendo di vista l’idea stessa del bello e del brutto che pure dovrebbe essere sempre perseguita: è questa infatti la differenza fra il critico e il semplice storico o cronista di fatti culturali del proprio tempo, che invece è un critico per finta. Inoltre, utilizzando il de gustibus si può dire tutto di tutto, cosa che equivale a non dire niente di niente. E stiamo sempre lì: dal punto di vista eminentemente estetico è importante ravvisare in un’opera in primis l’aspetto formale, ma qui occorre chiarire che non si intende la forma come tecnica, e neanche la forma nel senso esclusivo del formalismo russo. Molti infatti la scambiano per l’aspetto tecnico, per la bravura prattica (con due t), ma si tratta piuttosto proprio della forma in senso estetico (Brandi, Kant, Croce, Garroni, perdonate il chiasmo concettuale e storico), cioè l’aspetto, la modalità fenotipica in cui prende figura il contenuto: e qui figura, non contenuto, è parola pregnante, dato che il contenuto può essere oggettivamente qualsiasi cosa. La forma insomma manifesta concretamente la modalità dell’espressione compiuta di un’intenzione, laddove l’intenzione, per quanto titanica possa essere, da sola non fa e non farà mai un’opera d’arte come tale. Per quanto riguarda poi il rischio del critichino di cui parlavo poco fa, nell’esercizio quotidiano della critica non bisogna confondere il piano di rappresentatività storico, culturale, sociale eccetera che un’opera detiene sempre e comunque in quanto testimonianza e documento del proprio tempo, col piano estetico vero e proprio. Attenzione: sono cose completamente diverse, e qui non stiamo parlando di norme o canoni. Le regole classicistiche o quelle di rottura e d’avanguardia (ché alla fine divengono, da rottura di schemi che erano, norme anche quelle, non foss’altro che norme su come si rompe uno schema), dicevo, le regole non c’entrano proprio niente, non valgono in questo senso modelli o parametri prestabiliti; c’entra, piuttosto, la percezione del bello o del brutto come aisthesis, che si determina anche in virtù di modificazioni sociali e culturali di tipo diacronico, certo, ma che tuttavia debbono essere sempre analizzate dal punto di vista psicologico ed estetico del fruitore dell’opera d’arte in questione. In poesia ed in arte figurativa, ad esempio, si hanno fin dalle avanguardie del Primo Novecento due percezioni molto diverse di bellezza, quindi a rigore, dal punto di vista dell’indagine estetica, neanche possono essere messe sullo stesso piano. Ad esempio, di fronte all’armonia che percepisco nei versi di una poesia non ho la stessa sensazione estetica che posso avere di fronte alla disarmonia di un quadro cubista, nonostante ad ambedue ognuno di noi possa essere portato a collegare un’idea di bellezza come “adeguazione della cosa all’idea”, idea di bellezza che però è di natura completamente diversa, perché nel caso della poesia ricerco come discriminante la forma poetica che tendenzialmente m’aspetto dalla poesia, cioè l’armonia, la musicalità, il metro, il ritmo, le figure di suono e di significato, e nel quadro cubista invece ricerco la forma figurativa che tendenzialmente m’aspetto, cioè la disarmonia, la quarta dimensione, il poliprospettivismo, la deformazione, la dis-grazia, il brutto come bello. Non ci sono insomma parametri assoluti e la critica è un po’ come l’idea stessa del bello, deve adeguarsi costantemente ad una condizione di perpetua autocontraddittorietà fondante, affidarsi ad una percezione estetica che sia contemporaneamente universale e soggettiva: è questo il bello (è proprio il caso di dirlo!).

3) La Critica e l’arte del ritaglio. C’è il risvolto di aggregazione pronto a superare il limite della critica oggettiva, altrimenti Il proliferare di mappature di correnti letterarie, di liste generazionali, e via dicendo non avrebbe tutto questo spazio nei luoghi deputati della lettura. Su questo tema, quale può essere l’importo oggettivo di un critico impuro?

Immagine 080Sonia Caporossi: Trovo che sia un errore concettuale abbastanza grossolano il metodo di catalogazione poetico, letterario o artistico per via generazionale od anagrafica, l’ho anche cercato di spiegare recentemente all’interno di un articolo molto dibattuto (http://criticaimpura.wordpress.com/2013/03/18/i-gruppi-poetici-e-gli-insiemi-di-cantor-una-riflessione-sullindeterminatezza-poetica-doggi/) su Critica Impura. Commentando in calce, ho chiarificato il mio punto di vista. Che una lista di poeti come ad esempio quella di Pordenonelegge, ma anche antologie come I Poeti degli anni Zero qui o l’elenco di Poetarum Silva lì abbia un valore sociale, del resto evidenziato nel mio articolo, è ovvio. I gruppi si aggregano per emergere dall’indistinzione, ma il punto è che, invece, ottengono così facendo il risultato esattamente opposto non solo in mancanza spesso di una vera e propria poetica differenziale ma anche perché si aggregano “i poeti di x anni” con poetiche, stili e tematiche fra loro diversissimi: e allora che senso ha farne l’elencatio per criteri anagrafici? Un elenco anagrafico non fa corrente, perché è composto da poeti anche molto diversi l’uno dall’altro sul piano scrittorio; per questo non detiene una poetica unitaria, che è condivisa, all’interno di un eventuale gruppo – corrente, ma è differenziale fra una corrente ed un’altra. Ora, gli outsider, quando va bene, fanno corrente a se stante, ma è uno stato di grazia abbastanza raro. Inoltre, ci sono correnti e correnti, ma il giudizio critico su di loro avviene dopo questo primo sfrondamento concettuale, ovvero dopo la distinzione fra un gruppo di Cantor, come io lo definisco, caratterizzato appunto dall’indistinzione di cui sopra, e un gruppo poetico propriamente detto.
Secondo me, comunque, un’opera come tale detiene sempre al suo interno contenuti forme e stili determinati, quindi il concetto di opera, a mio parere, è indissolubile da quello di poetica; e tuttavia, “poetica” non è lo stesso che “corrente”, essendo la corrente la fenomenologia aggregativa e sociale che parte da una poetica definita e condivisa da un gruppo. Benintesto, per me sono rilevanti le opere sopra ogni cosa, ma in base al principio della centralità del testo l’analisi critica di quelle opere avviene tramite tratti definitorii. Questo non significa dover incasellare ogni testo necessariamente all’interno di una poetica preconfezionata, ovviamente, né che ogni gruppo debba rientrare in una corrente (a me le correnti dopo un po’ sembrano anche anguste), né tantomeno che debbano necessariamente esistere i gruppi di contro ai singoli. Il critico, in tutti questi casi, osserva un gruppo di poeti i quali, oltre a possedere caratteristiche comuni a livello di poetica e stile, si riuniscono, fanno incontri, reading, antologie, eventi. In questi casi, gruppo e corrente vanno di pari passo, in quanto determinazioni consapevoli e volontarie che non abbisognano di ipotesi di lavoro: e tuttavia, molto spesso, troppo spesso sono proprio alcuni gruppi poetici a togliere la penna di mano al critico e ad autoinvestirsi come espressione di una poetica comune, a definirsi, bruciando i tempi legittimi della meditazione critica che ragiona giustamente per ipotesi di lavoro, dandosi l’alone di “correnti” in modo completamente autoreferenziale; e allora, spesso, con questi soggetti si è avuto e si ha a che fare. Altri gruppi, invece, non fanno corrente affatto e lasciano il tempo che trovano. Quanto a me, il fatto che un certo gruppo abbia una poetica differenziale e un altro no pare rilevante in primis dal punto di vista poetico, in secundis anche dal punto di vista sociale (in senso logico, non cronologico), dato che in senso estetico – critico le opere si scrivono in base a contenuti, poetiche e stili, che sono appunto quei fattori atti a distinguere un poeta da un altro su tutti i piani, compreso quello sociale; distinzione che però dilegua inesorabilmente, anche e soprattutto sul piano sociale, se li si mette tutti insieme in un calderone senza badare, appunto, a ciò che ne determina la differenza scrittoria: e questo è un pessimo favore alla poesia in quanto poesia, che consiste in un apparente favore ai poeti per la propria momentanea visibilità, ma a lungo andare attua una ricaduta nell’indistinzione e nell’oblio del textus, delle poetiche, dei linguaggi, dei versi, dell’opera stessa.

In questo senso dico che i gruppi poetici hanno piena ragione di esistere, di organizzarsi e di mettersi in evidenza in quanto tali, ma su altre basi che la mera anagrafe, insieme di Cantor in cui gli elementi posseggono una tale indeterminazione che il contenuto, la chose stessa insomma, dilegua.

4) Le Lezioni sono tutte presenti nel vostro blog. E due anni di blog è appena passato. Il motore è appena acceso, dove porterà ora Critica Impura?

antonella pierangeliAntonella Pierangeli: Le passioni che ci muovono hanno generato Critica Impura e più che un motore abbiamo acceso un fuoco inestinguibile. Fatichiamo a tenere testa a noi stesse e alla fornace che abbiamo creato ma il percorso di maturazione di quest’organismo complesso e sempre più tentacolare che è la nostra galassia impura ci sorregge sempre, in ogni momento, anche quando un sottile senso di nausea ci arriva alle soglie della coscienza sotto forma di quell’indignazione dolorosa che però che ci consente di andare avanti con rigore e coerenza intellettuale. Due anni di blog sono passati in fretta, molto abbiamo imparato e qualcosa abbiamo “lasciato” dietro di noi (il nostro e-book Un anno di Critica Impura, Edizioni Web-Press Edizioni Digitali, Milano, 2013,  con la nostra migliore saggistica riveduta e corretta relativa al primo anno di pubblicazioni) ma la cosa più vivificante è che siamo ancora in movimento: progettiamo nuove sezioni impure, a breve infatti inaugureremo Segnalazioni Impure, elzeviri in cui scannerizzeremo in un lampo e proporremo in lettura opere di recentissima uscita o di antichissima rimozione; abbiamo inaugurato da poco il nostro canale YouTube Impuro (http://www.youtube.com/user/CriticaImpura?feature=guide) dove per ora sono visibili le nostre lezioni alla Scuola Internazionale di Comics di Roma ma che in futuro potrebbe divenire una sorta di mappatura iconografico – parlante del blog. Quindi un cantiere, un laboratorio ma soprattutto un esperimento: togliendo infatti personaggi e concetti dal mondo chiuso dei libri e dell’ombra, sì amata, necessaria e accogliente ed  eleggendo le proprie passioni fra quelle evanescenti dell’universo della scrittura e della riflessione, Critica Impura volge le spalle, impuramente, alla corposità vacua delle cose per rivolgere lo sguardo alla loro rappresentazione – interpretazione, dantescamente scrivendo di Ragione, Bellezza e Ineffabile Umanità. Un progetto ardito, certo, ma assolutamente spontaneo: sogno frammentario e inattingibile per tutti, indomito esercizio dell’esporsi per noi Impuri.

Tutto questo però, senza mai avere la tentazione dell’autoreferenzialità e dell’egotismo delirante di alcuni, dovrei dire troppi, maestri incantatori che pensano di essere esegeti del mondo.

Noi ci consideriamo soltanto parte di una mandria di cavalli di razza, questo sì, che è però uscita dalla logica del giogo per pascolare senza briglie e basto in praterie ampie e libere, ma mai uniformi. Se devono trascinare qualcuno, oltre che se stessi, lo faranno sempre e comunque meglio sciolti che legati.

critica impura

http://criticaimpura.wordpress.com/

Incontri. La biologia fotografica del tempo: Paolo Meoni


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Paolo Meoni usa l’immagine fotografica per entrare nella biologia del tempo. Scardina l’ortodossia dell’immagine come falsa identificazione di un’oggettiva visione, per mettere in moto  il condizionale dell’immagine,  il suo potenziale restato inespresso fino al momento in cui l’ultimo lavoro di intromissione dell’artista  sia terminato.  Meoni spinge oltre l’enunciato della staticità dell’immagine con una serie di strumenti tecnici (scanner, video, intromissioni di polvere e terre )  per studiare una velocità vitale sul soggetto, al di là del fardello temporale in cui l’esser stato corpo o luogo avverato in uno scatto, in un’unica possibilità di rappresentazione, sia superato dal condizionale possibile della manipolazione dell’artista; infatti spesso parla di genesi del risultato dell’immagine, un esatto ossimoro che slega ogni l’indole oggettiva dello scatto dalla passività di un unico ricordo. Nel mio lavoro – racconta l’artista toscano – ho sempre cercato, attraverso il tempo video, di mostrare    il tempo fotografico partendo appunto dalla fotografia  , oppure alludendo all ‘idea di scatto fotografico. Quest’attitudine , ma inversa, l’ho adottata anche in alcune serie di fotografie mostrando l’atto del sovrapporre come ad evocare lo scorrimento del tempo video.Quindi il mio lavoro in una certa misura parla della fotografia nei video e parla del tempo video attraverso la fotografia. Uno dei miei lavori, Rewind (2011)    è costruito lasciando la macchina da presa fissa che inquadra una scatola che si satura nel corso del tempo  di foto di varia provenienza  per lo più legate al corso della mia vita e della vita di persone  che conosco alle quali ho chiesto delle foto significative della loro. Le foto che ho scattato  io e quelle che mi sono state donate vengono riposte in questa scatola dei ricordi  nel corso di 18 minuti .Il tempo viene scandito attraverso il singolo rintocco delle foto che gettate nella scatola  una ad una , simulano  lo scatto fotografico stesso ovvero il  divenire stesso dell’atto fotografico. In questo modo  ri-scatto letteralmente l’immagine sia attraverso quindi il ‘suono’ della caduta ( come fosse il click dello scatto..) sia mostrando attraverso l’atto video una nuova visione dove i tempi legati alla singole foto si mescolano in un collage video in divenire  assolutamente imprevedibile . 

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1) Da dove partire? Dalle tracce. Più di ogni figurazione, i tuoi corpi sono e restano tracce in linee parallele, intoccabili fra di loro oppure dispersi in tracce di tempo o di buio.

Da dove (partire) ? Una traccia non è altro che  un atto apparentemente mancante, abbandonato ,un gesto disperso nel tempo e nello spazio. Si tratta spesso di rintracciarlo, sottolinearlo, mostrando la parte mai vista, l’inconsuetudine  nella consuetudine dell’oggetto ritratto , quell’oggetto del desiderio  che si ritrae sempre nel corpo  dell’immagine del corpo della pelllcola del reale.

2) Il tempo come persona. Il tempo è un fascino, malvagio o benevole si è incapaci di fuggire dai suoi interrogativi esistenziali. Il tempo scorre egoisticamente al di là dell’umana volontà, contenitore illimitato di eternità in cui la singola vita umana può goderne di una quantità incerta. Il suo battito “evidente” è il click di ogni fotografia che ognuno conserva. Così s’incarna il tempo?

Il tempo è sempre incarnato nel reale. La fotografia e il video disincarnano un istante o più istanti mostrandone un immagine. Io cerco di mostrare ciò che sta fra le immagini, e ciò che le immagini mostrano di cercare al proprio interno.

 3) Domanda per un  giovane artista. La funzione dell’unicità dell’arte, in tempi in cui i valori di conoscenza sono istituzionalmente tecnologici, quale cammino percorre?

L’arte  resta per me una suggestione , una visione cieca di una visione cieca, un oggetto del futuro  di cui non si ha percezione di nessuna funzione . L’opera si colloca  in uno spazio afono a qualsiasi percorso : Basta a se stessa ,e  neppure il pubblico-mondo è necessario 

4) Quello che è imperdibile e quello che si è già perso, in ogni caso, nelle molteplicità dell’Arte di questo secondo millennio.

Esiste una condizione che potremo dire senza mezzi termini esistenziale e quindi che appartiene all’arte e in quanto tale mancante di una qualsiasi linearità e prevedibilità. L’arte per quanto mi riguarda quando inizia ad illudere un idea che s’incarna in un immagine è spesso dentro ad una condizione che altrove e in altra epoca fu chiamata Flanerie…Le ragioni del mio lavoro sono dentro ad un palinsesto di sentimenti che scopro nei percorsi quotidiani in un altrove che ci circonda senza margini come ad esempio  lo sono le nostre periferie, nel loro essere sfrangiato, in perenne movimento, inattingibili..

Paolo Meoni
Nato nel 1967 a Prato, dove vive e lavora, Paolo Meoni usa video, fotografia e altre tecniche di acquisizione e manipolazione delle immagini per una ricerca incentrata sulle mutazioni del territorio. Dopo aver vinto nel 2010 il premio Terna03 nella categoria Megawatt, Meoni ha avuto mostre personali nelle gallerie Casamasaccio, Dryphoto e Die Mauer, ed ha partecipato a “Palinsesti 2010 – Storyboard” di San Vito al Tagliamento e al 32° Film festival mediterraneo di Montpellier.
Nel 2012 ha partecipato alla collettiva del MAN di Nuoro “L’evento immobile. Sfogliare il tempo”, alla selezione del Premio Terna tenutasi al Multimedia Art Museum di Mosca e a “Mondi”, di nuovo alla galleria Die Mauer di Prato.

Estensioni del tempo – Martina Campi


Il sostantivo tempo ci attraversa. A nome e parola, tempo, compare una distesa di pensieri insicuri, si materializza il disaccordo fra  l’ossessione dell’infinito, dalla misurazione umana irrealizzabile , che deride il suo contrario, umano, mortale ed ineguale, il tempo umano instabile, soggetto a norme naturali, senza alcun diritto di replica o di possesso. Il tempo è un corpo che ci attraversa comunque, in accordo o disaccordo con la volontà, generando una diplopia che può fortuitamente adattarsi o sfortunatamente discordare con la misura della vita, ma resta in fondo una percezione sdoppiata tra due termini,  vivo\vissuto. Di quale tempo sia impregnato il lavoro poetico di Martina Campi, “Le estensioni del tempo”, si prende la misura già nei suoi primi versi, attraverso l’uso di una disarmante dolcezza che addomestica la paura, “la cerimonia del tuono va da giù a su (e da su a giù) e non si rompe niente ma tutto si trasforma“: il tempo unicorno trova la parola vergine che lo doma, si fa attraversare ed il libro si apre di raffinate condivisioni di sentimenti e riflessioni. “Più che a modificarli, una poesia insegna a contemplare i pensieri” indicava  Simone Weil, e  la raccolta risulta  ben ancorata nel reale:  il sogno o la visione non sono i soggetti delle riflessioni del verso.  Il verso della poetessa cerca la verità attraverso un linguaggio personalissimo, in cui si apre ad assonanze e lessemi che si distribuiscono in una costruzione stilistica fluida e immediata. Non ci sono fratture o suoni aspri, le poesie hanno un lessico dolce, dalla rima piana, rima femminile per antonomasia come viene indicata da secoli, il ritmo è fluido e si crea attraverso dei filamenti di dieci sezioni o meglio ancora di dieci movimenti, di dieci partiture senza standard, come in senso jazzistico, unite dallo stesso suono fluido ed elegante. I versi prediligono la brevità, ed accolgono ritmi, assonanze, alcune volte anche  rime accennate.

Quale tempo? Tutto il tempo. Il tempo come Natura, come Memoria, come Universo. L’estensione è universale, i dieci capitoli del libro sono frammenti di tempo da ricomporre, ma il luogo del libro è un luogo domestico, un luogo familiare. Forse è un’estensione di una casa ancora ospitale dove “in basso al pavimento\lasciarsi chiamare\lasciarsi sentire\i suoni vivi della strada“, o di un luogo dove riconoscersi o dove essere riconosciute “ti vorrei toccare\così sentiresti\che sono io\ e non la sintassi di un’idea“, in cui vivere il tempo del riposo e della veglia, riconoscendo la possibilità di trovare la grazia lì dove “nello scivolare\dondolare\oltre la sera\ partecipano\ gli oggetti \cari“.  Un mondo addomesticato ma ancora segreto e misterioso, dove l’io narrante è legato al femminile, la pancia, la gatta , “e che il tutto\è a pancia all’aria\come un gatto” , l’acqua che scorre nella pioggia o che si accumula per riempire “memorie instabili, la sete, sotto i capelli”, il fiume in piena.

Le parole riprendono il tempo, e con grazia eterea gli parlano ancora. “Per quanto possa sembrare\abbiamo da imparare \che il tempo non esiste\ è solo il dentro\che si espande“. La negazione del tempo come paura, passa infatti attraverso l’uso continuo che la poeta fa del verbi all’infinito. Infinito scelto affinché le  azioni (e la vita) non siano misurabili al passato e nemmeno immaginate in un indeterminato svolgimento. Sono tempo  all’infinito perché in continuo svolgimento, non ci sono confini; le stagioni sono accennate ma non riconoscibili ad esempio, così le poesie del capitolo “Questi fogli senza nome” chiedono all’Altro di essere riconosciute, indicano che “la via d’uscita\è l’amore”  nonostante le inquietudini che affiorano al suo confronto, come ombre che corrono incontro o come il desiderio di fermarsi e ritornare indietro nel proprio tempo. In tutta la sezione degli Incontri del Sole,  lo spazio è occupato dal passato, fra ricordi di guerre lette nei libri e giorni chiusi dalle notti dove le scale ingialliscono, le chiuse delle poesie invitano ad andare a ritroso, ” accoccolati, cuccioli, primordiali\ accolti” o ancora “nel movimento impaziente dell’accucciarsi“. Il linguaggio non denuncia, ma evidenzia, poesia dopo poesia, che il tempo è imperfetto  “per buona sorte\ la perfezione non esiste”, e il tono è accorato quando trova i vuoti e i dolori ma il linguaggio non si lascia mai a rassegnazione, non ci sono forzature, i versi trovano una loro strada nello “spazio malato, santo, che prende spazio“.  Diversissima per costruzione e lunghezza del metro è “La E del venerdì”, dove l’amore “è un contro incantesimo” spaziato in tre cinquine dove il ritmo si arrotola e inchioda il lettore all’incontro della sera e della casa dove “le parole hanno\ radici come foglie aperte”. Nessun tempo, del resto, è uguale: “oggi nevicano parole

estensioni-del-tempo

dalla sezione

MEMORIA DELLE FOGLIE

***

Era la valigia

nella risacca delle lenzuola

Era l’albero

nelle tossi notturne

Era la finestra

nelle luci

dei messaggi

 

NELLA TERRA

Il passato non è passato

il passato è movimento

le parole sono ferme, le parole sono

gli smarrimenti nella terra sono le parole

e la terra ha calci e polvere

(il colore è sempre quello rosso)

Come luce come fessura come

dita, che si toccano che non si

riconoscono la pelle

i fiumi, le maiuscole

le iniziali

da qualcuno, presto da qualcuno

per lasciargli lo spazio

malato, santo, che prende

spazio

il mattino poco per volta,

per scelta

sulla pancia

 

LA E DEL VENERDì

L’allenamento all’amore

è un contro incantesimo

ci si nutre dell’esempio, sai

come sole sull’erba

che le cellule ricorderanno

perché anch’io sono solo un’altra Lazzara

che cammina, stasera, con le sue gambe in

spalla e le suole basse in questa

stazione bianca che è deposito

per i morti i piccioni e il piscio, agli angoli

Ci caliamo a pareti dove le parole hanno

radici come foglie aperte e lunghe lunghe

e resina che suda dai pori surriscaldati

e sferraglianti di ora, in ora, in ora, in ora

e là, come in cucina, c’incontriamo.

martina-1

Martina Campi nasce a Verona nel 1978.
Dal 1997 vive a Bologna, dove si laurea in Scienze della Comunicazione.
Suoi scritti poesie e racconti brevi si possono trovare in rete, su riviste e siti di scrittura tra cui: «Pi greco», «Musicaos», e il catalogo di Kermesse (con il primo Esperimento di scrittura visuale organizzato da Arpanet, basato sulle opere d’arte finaliste al Premio Italian Factory, in esposizione a Kermesse 2004).
È presente in alcune antologie poetiche. Tra i vincitori del premio Ulteriora Mirari 2011 delle edizioni Smasher, è presente in Fragmenta (2011), antologia a cura di Enzo Campi. Tra i vincitori del concorso Pubblica con noi 2012 di Fara Editore è presente nel volume La forza delle parole (2012), a cura di Alessandro Ramberti. Tra i poeti premiati con Segnalazione al Premio Montano 2012 per la raccolta inedita La saggezza dei corpi.
Co-fondatrice dei progetti di raccolta e autodiffusione di “cose belle”: Foglio d’aria: l’albero delle migrazioni (con Giampaolo De Pietro) e l’ormai defunto Fibonacci (con Sergio Bottoni).
Ha pubblicato la silloge poetica Definito dalla luce (2004) e la raccolta autoprodotta di racconti e poesie Le ombre lunghe (2003).
Autrice e performer, insieme al compositore e musicista Mario Sboarina, del progetto di musica e poesia Memorie dal SottoSuono da cui è nato anche il cd autoprodotto Mani e qualcos’altro (2011).

“Viaggio mentale nel cielo di Tangeri” e altre poesie di Sonia Caporossi


 

 

         Sonia Caporossi racconta la storia del proprio manoscritto per WSF

 

A 17 anni appena compiuti, quando scrivi poesia, sei in genere alla ricerca di un titolo ad effetto e di un entimema possibilmente esaustivo del tuo percorso interiore, seppur composto di sostanza rabberciata sul filo di un ragionamento che solo anni ed anni di esperienza scrittoria potrebbero avvalorare.

E tuttavia, a pensarci bene, quando scrissi la prima redazione di Viaggio Mentale nel Cielo di Tangeri, pubblicata in prima istanza sugli annali del Liceo, ad intitolarla Fisica in modo un poco aristotelico non ebbi certo torto. Si trattava, in effetti, di un gioco all’individuazione, in un fluttuante fuori fuoco, di ciò che di rimasto risiedeva nel significante della sequenza lessicale che componeva le strofe, per mera sottrazione ed aggiunta di fonemi allitteranti; di ciò che, insomma, poteva evocare una presunta trasvolata sul colmo di un incandescente erg coscienziale, sulla pia desertificazione delle forme e delle sostanze che nella poesia immaginifica in quanto tale, almeno dal simbolismo in poi, stanno lì a dare senso al senso e, per dirla con Alberto Savinio, “forma all’informe”. Tangeri, in quella sede, città azzurra di mare, non possedeva altra funzione che quella di evocare il nome dei Tangerine Dream e di Edgar Froese, principali ispiratori musicali delle mie notti adolescenziali, all’epoca trascorse fra l’insonnia, la lettura e la speculazione monadica. In seguito, con gli anni, come mi fu detto, la mia scrittura poetica assunse coloriture materiche talmente accentuate in direzione di una concettualità istintuale, di una poiesis filosofica di carnacea presenza laxaque absentia che, tutt’ora, a grande distanza concettuale e temporale, non potrei trovare per essa una definizione migliore di quell’ossimoro. Come si evince, del resto, dai pochi altri componimenti qui in calce allegati, che risalgono a dieci o quindici anni dopo rispetto al Viaggio Mentale, ma che sono altrettanto distanti dal tempo presente. Ciò, nonostante l’elaborazione formale e la crescita scrittoria nel frattempo inevitabilmente sopraggiunte, com’è giusto che sia. Eppure, il filologo che, non avendo di meglio da fare, volesse prestare la propria opera all’analisi variantistica della versione definitiva confrontata col manoscritto qui allegato, redatto in prima istanza il 19 gennaio 1991, riscontrerebbe di certo in essa un lavorio di cesello, un grattugiare lessicale, allitterante e ritmico che dapprima non figurava in alcune parti poi cassate nel corpo del testo. Essì, perché questo textus ha e continua ad avere un corpo; poesia naturale, mi si diceva l’altro giorno, poesia corporal – concettuale, e sia, poco male; tutto ciò che resta è l’absentia, il dare di corpo 12, come dire: il rumoreggiare, il suono. E non direi che sia poi molto, rispetto a quanto e come ora scrivo; ma non è neanche poco.

Sonia Caporossi

 Sonia Caporossi - Viaggio Mentale Nel Cielo di Tangeri

 

Viaggio mentale nel cielo di Tangeri

 

Sorvolo questo deserto

e la sua chiarezza

suggestione cromatica ocra

m’incatena

Pegaso nel cielo della chiaroveggenza

s’innamora

delle truppe di formiche in fiamme

fila di mutismi

nello specchio elettrico del Sole

ragnatele stese ad asciugare

trame insofferenti

Impadronirmi di me

ora

in un raggio misterico

che punta dritto fra i miei occhi

Vedo

territori immaginifici

bagnati

da questo bianco amore

sospesi

da ogni attimo

nell’eterna Polifonia

del VIVERE

(19 /01/1991)

La funzione postmoderna dell’arte

 

Poesia è conforto di un istante

Mentre tutto intorno giace rattrappito

Esalando promesse al futuro nevercome

Le estranianti sinottrie di un impegno da seguire

Ecco l’uomo nudo, lapidato

Pietre segniche che schizzano dal suo cranio scoperchiato

Gli ricadono sfinite noncuranti tutte addosso

Lapilli masnadieri dal vulcano informe della sua coscienza

Poeta, un transgender della sua follia

Giordano Bruno ridotto al lumicino

Senza più alchimie da sovvertire

Né formule elitarie da occultare

Nella tasca segreta delle sue mutande

Poesia è il vomito di un istante

L’alleggerirsi scabro di succhi gastroenterici

Un dito immerso nell’egolatria

Della Musa di turno,

nei suoi affreschi vaginali.

(10/02/2002)

Io scrivo

 

… E l’impegno di portarmi sempre

questo calvario addosso

questa fellatio esausta delle mie pagine bianche

alla punta fallocentrica polipale

– venature d’inchiostro erette a filo d’aria –

del mio cosmico, sfottuto, bastardissimo EGO.

(10/02/2002)

Io scrivo II

 

I miei versi a colori

Deep blur emozionale a schizzi viola

Trasgressioni cromatiche tinte di vita

Innocenti espressioni di una cruda varietà

Forme vuote nel segno di Dio

Infisse come stelle cieche nell’orbe del mio cielo

Racimolate sulle sei facce del dado

S’avvicendano mentali, una pigra ipocrisia

Guardando dal di sotto la realtà meno che umana

Come ancelle di una mano priva di divinazione

Che il futuro qui non trova, bensì crea e non distrugge.

(11/02/2002)

Io scrivo III

Noi poeti

Villeggianti di opinioni

Fatichiamo a riconoscerci per strada

Ruttiamo versi stanchi sulla tavola imbandita

Della nostra vilipesa umanità

Mentre

Feroci crocicchi di pensieri avversari

Si scontrano e si incontrano nelle pagine interiori

Col taccuino scoperchiato sulla tazza del cesso

Come adesso mentre penso, parlo, respiro e scrivo.

(11/02/2002)

Io scrivo IV

Invenzione

È un respiro ritrovato

Nel coraggio dell’ignavia

Tra pensieri palombari

Incagliati nell’apnea.

(11/02/2002)

In Bus

Ripetimelo tu che cos’è un uomo

La cruda essenza dell’essere invoca l’apparire

Un vacuo femminino mi assiste incuriosito

Mentre getto sul foglio le mie perplessità

Che cosa è la poesia, necrosi di un istante

Una scabra pellicola di sangue ormai rappreso

Si stacca come una membrana rilassata e inflaccidita

Rimane solo il caldo che di umano non ha nulla

Nella chiusura asfittica di un antro d’ospedale.

(Autunno 2005)

POESIE DEL PADRE – V – con una poesia di Cummings tradotta per WSF


La potenza dei padri

Da un punto di vista squisitamente simbolico il padre rappresenta la potenza, anche quando la reale figura paterna è sempre stata tutt’altro che potente. Il tracollo di un padre, specie se improvviso, lascia il figlio sgomento. Anche se il rapporto non era così stretto e a quel padre non si guardava come a un personaggio irraggiungibile, dentro di noi resiste – o resisteva – immutata la sua portata simbolica, a dispetto di quello che sapevamo. Del resto, si può sapere senza sapere. E’ come se, a un tratto, si fossero capovolti i rapporti: ora siamo noi che dobbiamo proteggere lui ed è lui che, in qualche modo, è tornato bambino. Questo, almeno, è quello che è capitato a me. Da un lato c’è la realtà oggettiva di un uomo adulto – io -, che dovrebbe essere nel pieno delle sue forze, sufficientemente sicuro di sé e psicologicamente in grado di gestire l’eventualità di una grave malattia del padre (e con questo intendo soprattutto che dovrebbe essere consapevole che un’eventualità simile poteva verificarsi), e di un uomo ormai anziano ed esposto ai rischi che la sua età comporta. Parallelamente, però, esiste l’altra realtà, soggettiva, in cui l’uomo adulto non è mai del tutto uscito dall’infanzia, mentre il padre è sempre nel pieno delle sue facoltà, eternamente adulto. (Stefano Beretta)

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Padre, questo viso sepolto,

la sua immagine piegata alla morte

dentro il bianco letto non illude più nulla.

Ho chiuso la porta dietro di noi

e come ritagliarti dal profondo,

fermi al centro della stanza i nostri cuori.

Uno morto, uno vivo.

Ora tu pensi che io non ti  veda,

ma io so in questo momento,

mentre ti stai togliendo l’abito di dosso

come un bagaglio di un viaggio finito,

di già mi vengono i ricordi.

La misera infanzia e la semplice vita

che le tue mili parole non chiedevano oltre,

se solo ti avessi incontrato di più e baciato.

Ma è tardi in questa morte

e benché aliti in me il desiderio di seguirti,

anch’io ti consegno

e in paziente pianto rimango.

Nel resto del tempo, nei fitti pensierim

ritornami padre in silenzio

ROBERTA DAPUNT

***

Non ha scritto parole

ma si è seduto, spesso, su botti,

asce di legno, si siede ancora

sui gradini nuovi della sua

finalmente casa moderna: a chiedergli

cosa fa, risponde:  “A fag la pèinsa”:

è il mondo, con trattore, non figlia,

che lo lascia quieto,

o viene a lui in grani fitti, a destini

muti, lo invaghisce           (di lui in me

questo, e se io ne faccio, qualche volta,

parole, è perché vuotarsi, lì, senza

difese, esserci per una cipolla che coltivi,

umile                                             fino allo stallo totale

del dare senso,

è troppo umano, assomiglia                          quasi al vivere        quasi

al morire

ma già da sempre vecchio, ha lasciato

volere agli altri, sazio in angoli

di abulìe animali, sacre: forse perché

ha sempre dovuto                                    ha rischiato in me

la scommessa dei saldi fini, e per sé il nulla

delle zolle guardate, del granoturco fiutato)

( invano

so che scorrendomi

vicino, senza parole, come fantasma

che esiste ad ore, in stanze certe

lascia in me, da sempre

quel sedersi segreto)

MARIA LUISA BOMPANI

*****

Tenero padre suonatore di triangolo – uno strumento così piccolo

così difficile da suonare

che però sale altissimo

quando finito il grande respiro

degli archi

si sentono

i leggeri rintocchi dei leggii

i fogli che si girano

si sentono le chiavi appena mosse

sotto le dita dei suonatori di fagotto

si sentono le mani che si staccano

dalle corde

dell’arpa

ROBERTO AMATO

e.e.cummings

MIO PADRE SI è MOSSO ATTRAVERSO DESTINI D’AMORE

di Edward Estin Cummings

traduzione dall’inglese di A.S . per WSF

***

Mio padre si è mosso attraverso destini d’amore

Attraverso solite mattine, attraverso l’avere e il dare,

cantando ogni mattina come ogni sera

mio padre si è mosso attraverso profonde altitudini

questo smemorato immobile che

volse il suo sguardo ivi splendente

anche se (così tenace e timida è l’aria)

sotto i suoi occhi si sarebbero mescolati e contorti

come dissepolto di recente che

aleggia per primo, al tocco d’aprile

inducendo quell’assopirsi che sciama dal fato

svegliava i sognatori alle loro spettrali radici

e perché alcuni dovrebbero struggersi di pianto

le dita di mio padre le portarono il sonno:

invano nemmeno la più esile voce potrebbe piangere

per lui che vedeva i monti innalzarsi

Sollevando le valli dai mari

mio padre si è mosso attraverso dolorosa felicità;

lodando a fronte chiamava la luna

cantando il desiderio sin dal principio

gioia era il suo canto e gioia così pura

che un cuore di stelle lui potrebbe guidare

e così pura ora e adesso

i polsi del crepuscolo gioirebbero

appassionato come un amante di mezz’estate

oltre al concepire la mente di un sole che splende,

così energicamente (più di tutto lui

immensamente) si levò il sogno di mio padre

la sua carne era carne il suo sangue era sangue:

non c’era uomo che avesse fame ma l’ha voluto sazio;

nessuno storpio avrebbe camminato cento passi

in salita solo per vederlo sorridere.

Disprezzando il fasto del fare e dovere

mio padre si è mosso attraverso destini di emozioni;

la sua rabbia era giusta come la pioggia

la sua pietà era verde come il grano

braccia settembrine di anni or sono

sì modestamente ricco a nemico e amico

più che a sciocco e saggio

è incommensurabile offerta

orgogliosamente e (dalla fiamma tenue

ottobrina) come la terra discenderà verso il basso,

così spoglia l’immortale opera

le sue spalle marciavano contro l’oscurità

il suo dolore era vero come il pane:

nessun bugiardo lo guardava in viso;

se tutti i suoi amici diventavano nemici

lui avrebbe sorriso e costruito un mondo fatto di neve.

Mio padre si è mosso attraverso di noi,

cantando per ogni nuova foglia di ogni albero

(e ogni bambino era certo che la primavera

danzasse quando udiva mio padre cantare)

poi lascia che gli uomini uccidano e che non condividano,

lascia che il sangue e la carne siano fango e melma,

visione intrigante, passione voluta,

come una droga che è comprata e venduta

dar da rubare è crudelmente gentile,

un cuore per paura, dubita del pensiero,

a differire dallo stesso una malattia,

conforme l’apice di me stesso

se sordi erano tutti il nostro sapore era luminoso,

tutte le cose amare completamente dolci,

meno capricciosi e silenziosamente morti

tutti noi ereditiamo, l’intero patrimonio

e niente di abbastanza indispensabile come la verità

io dico pensando odio perché gli uomini respirano

perché mio padre ha vissuto la sua anima

l’amore è tutto e più di ogni cosa.

TWIMC – Vera Pavlova and Brooklyn Phil Chamber Players


dal blog TWIMC

Vera Pavlova and Brooklyn Phil Chamber Players
Classical Interludes: Sunday, February 10, 2013 4:00PM
Brooklyn Public Library, Central Library, Dweck Center
[10 Grand Army Plz. between Plaza Street East and Underhill Avenue (718) 230-2100]

La famosa poetessa russa Vera Anatolyevna Pavlova, insieme ai musicisti della Brooklyn Phil, sarà la protagonista di  un omaggio al grande artista sovietico Pytor Ilyich Tchaikovsky. Gli scritti e le immagini della poetessa saranno accompagnati dai capolavori della musica da camera di Tchaikovsky, includendo per l’occasione anche la sua personale ode ispirata all’opera 39, Album per la gioventù. I testi poetici saranno presentati in russo con traduzione in inglese di Steven Seymour. La performance sarà seguita da un post-concerto di Q & A con Vera Pavlova. La  Brooklyn Public Library è onorata di collaborare con l’Orchestra Filarmonica di Brooklyn per presentare questa performance.

Vera Anatolyevna Pavlova

TRE POESIE

di  VERA PAVLOVA

Se c’è qualcosa da desiderare,

ci sarà qualcosa da rimpiangere.

Se c’è qualcosa da rimpiangere,

ci sarà qualcosa da ricordare.

Se c’è qualcosa da ricordare,

non ci sarà nulla da rimpiangere.

Se non ci fosse nulla da rimpiangere,

non ci sarà nulla da desiderare.

***

Tocchiamoci l’un l’altro

mentre abbiamo ancora le mani,

i  palmi, gli avambracci, i gomiti. . .

Amiamoci l’un l’altro per la miseria,

la tortura che ci diamo a vicenda, il tormento,

la sfigurarsi, il mutilarsi,

per ricordare meglio,

la parte con meno dolore.

***

Noi siamo ricchi: non abbiamo niente da perdere.

Noi siamo vecchi:  non abbiamo alcun posto dove affrettarci.

Scuoteremo il passato ,

attizzeremo le braci dei giorni che verranno,

parliamo di ciò che più importa,

mentre sfuma l’indolente luce del giorno.

Giaceremo nel riposo della nostra non morte:

io ti seppellirò, tu mi seppellirai.

********

(traduzione dal russo all’inglese a cura di Steven Seymour

dall’inglese all’italiano a cura di Meth Sambiase)